febbraio 13, 2020

Taranto città martire!

di Beppe Sarno Critica Sociale |

Scriveva Francesco Forte nel maggio 1969 sulla rivista “Critica Sociale”: “sono comunque del parere che la forza fondamentale di contrapposizione alle gradi imprese private e di salvaguardia del potere politico dalla loro influenza sta nell’azione delle imprese pubbliche e nell’espansione di tale azione. Per quanto “vecchia”  possa apparire questa dottrina essa è invece estremamente attuale. Rendere sempre più pubblica l’azione delle imprese pubbliche e mantenere e potenziare lo sviluppo dell’imprenditorialità pubblica sono i due elementi base per lottare contro la destra economica e contro le forze del potere economico privato come forza di dominio economico e di ipoteca politica.”

Non credo che il maestro con il passare degli anni abbia mutato parere, anche se espresse oggi queste idee lo farebbero mettere al bando da chi invece vede nel liberismo economico spinto e nel libero mercato la soluzione di tutti i problemi economici e politici.
Le parole di Forte, però, possono illuminarci ed indicare una possibile via d’uscita dal groviglio dell’ex Ilva di Taranto. Facciamo un passo indietro e ripercorriamo le tappe che ci  hanno portato all’attuale situazione.

Con la legge 3 dicembre 2012 lo stabilimento dell’ILVA viene qualificato come “stabilimento di interesse strategico nazionale” ciò perché doveva essere assicurata la “continuità produttiva dello stabilimento in considerazione dei prevalenti profili di protezione dell’ambiente e della salute, di ordine pubblico, di salvaguardia dei livelli occupazionali.”  La legge aveva quindi il compito di trovare soluzioni che ponessero in atto misure per risanare l’ambiente contaminato dalle scorie e dai fumi dello stabilimento; di impedire che diecimila persone andassero in mezzo ad una strada, creando  non solo problemi di miseria, ma soprattutto problemi di sicurezza che una disoccupazione così spinta avrebbe creato.

Il decreto legge 4 giugno 2013 autorizzava il Presidente del Consiglio dei Ministri a nominare Commissari per la gestione di stabilimenti di interessi strategici nazionali in caso di oggettivi “pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute a causa della inosservanza reiterata dell’autorizzazione integrata ambientale.”. L’art. 2 del decreto fa espresso riferimento allo stabilimento di Taranto.
Lo  Stato con inusitata sensibilità, con questi due strumenti legislativi aveva preso atto della gravità della situazione di Taranto  ed è intervenuto in prima persona perché le vicende dell’ILVA  incidono in modo grave sull’economia nazionale, affidando ai commissari la gestione  dello stabilimento.

Successivamente il ministro dell’ ambiente nominò un comitato di tre esperti che hanno realizzato il Piano Ambientale dell’ILVA per risolvere il problema dell’inquinamento dell’area intorno agli altiforni.
Accade però che nel 2015 c’è una prima inversione di tendenza il “Pubblico” si fa da parte e con il Decreto legge 5 gennaio 2015 il governo dà disposizioni ali Commissari di trovare un affittuario o un acquirente  “tra i soggetti che garantiscono la continuità produttiva dello stabilimento industriale di interesse strategico nazionale”.

Di fronte alla gravità del problema di Taranto qualcuno non ha avuto il coraggio di intraprendere una via difficile e tortuosa e piena di incognite e sicuri insuccessi. E’ cosi che lo “stabilimento di interesse strategico nazionale” scala di rango.
Il 15 gennaio 2016 i Commissari Straordinari bandiscono la gara per l’affitto o la vendita dello stabilimento di Taranto. Di 29 soggetti interessati  vengono ammesse alla gara solo la Arcelor Mittal e Acciaitalia s.p.a. Siam o al 30 giugno 2016.

La Arcelor Mittal nella gara era in cordata con la Marcegaglia Carbon Steel s.p.a., ma la Commissaria Europea alla Concorrenza impone l’esclusione della Marcegaglia da gruppo d’acquisto e  la vendita da parte della Mittal di sei stabilimenti di proprietà. Allo stato non risulta che questa seconda condizione sia stata rispettata.
La società Acciaiatalia era invece in partenariato con Cassa Depositi e Prestiti, Delfin, Arvedi acciai, Jsw Limited. In questo secondo gruppo è da evidenziare la presenza della Cassa depositi e prestiti società per azioni il cui capitale sociale per l’80% è di proprietà del Ministero del Tesoro e la restante è detenuta da Fondazioni bancarie che a loro volta son a gestione sia pubblica che privata, inoltre Presidente e Amministratore Delegato sono nominati dallo stesso Ministero e gestiscono di fatto un patrimonio economico e finanziario che si aggira intorno ai 230-250 miliardi di euro – oltre a decine di miliardi in obbligazioni e alla totalità delle azioni SACE – destinati sostanzialmente alla crescita economica del Paese.

Inoltre  l’Arvedi, società tutta italiana, ha una tecnologia produttiva che la Mittal non possiede. A prima vista sembrerebbe che la seconda dia maggiori garanzie da ogni punto di vista, ma per il governo non è così.
Il 5 giugno 2017 Il Ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda autorizza l’aggiudicazione in favore dell’Alcelor Mittal in maniera del tutto apodittica tenuto conto che gli stessi tecnici nominati dai commissari definiscono il piano della Mittal “Incoerente” e che la società Acciai Italia pare abbia offerto migliori garanzie della Mittal.
Gentiloni e Calenda tirano dritto.

In data 28 giugno 2017 viene sottoscritto il contratto fra i Commissari e la Alcelor Mittal e successivamente il 14 settembre 2018 viene sottoscritto un accordo modificativo e in data 31 ottobre 2018 venivano sottoscritti i contratti attuativi con decorrenza degli affitti aziendali dal primo novembre 2018. Ad oggi dei 180 milioni di affitto da pagare non c’è traccia.
Nel frattempo  i sindacati approvano l’accordo intervenuto fra i commissari e l’Alcelor Mittal. Il 92% dei lavoratori dice “sì” all’accordo e i capi sindacali parlano di autentico plebiscito.

Cosa prevedeva l’accordo?

Il versamento di 1,8 miliardi di euro per l’acquisizione del gruppo ILVA; la garanzia di una produzione di 6 milioni di tonnellate all’anno, con l’impegno ad arrivare al 2023  a dieci tonnellate, in cambio si chiedevano  ingenti tagli occupazionali 9.440 con un taglio di 4.880 unità lavorative, per poi scendere nel 2023 a 8.400. Sotto il profilo ambientale la Mittal si impegnava a impiegare nuove tecnologie, a bassa emissione di anidrite carbonica, che poi si è scoperto non avere, la copertura dei parchi minerari, e investimenti per il risanamento ambientale paria euro 1,15 miliardi. Dal punto di vista industriale la Mittal si impegnava al rifacimento del forno “5” per una spesa di 1,25 miliardi.

Passa un anno e la Mittal introduce presso il Tribunale di Milano una citazione per ottenere la risoluzione del Contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta ai sensi dell’art. 1467 e contestualmente il 4 novembre 2018 viene inviata dall’amministratore delegato una lettera ai Commissari Straordinari in cui si comunica che entro trenta giorni si procederà alla restituzione degli impianti ed allo spegnimento graduale dei forni entro la di gennaio.

Ma che cosa è successo nel frattempo dalla sottoscrizione del contratto e la sua richiesta di risoluzione.
Ce lo spiegano i commissari straordinari nel ricorso ex art 700 c.p.c. depositato preso il Tribunale di Milano in corso di causa.
Mentre in perfetta buonafede i Commissari consegnavano uno stabilimento in grado di funzionare la Mittal fin da subito, come si legge nel ricorso depositato presso il Tribunale di Milano: “ha interrotto qualsiasi ordine ed acquisto di materie prime; ha rifiutato i nuovi ordini dei clienti; ha interrotto i rapporti con i subfornitori; ha interrotto l’avanzamento del piano ambientale  sta interrompendo la manutenzione degli impianti (da mesi eseguita – ora si comprende perché – con modalità non corrette e poco diligenti.)

I commissari, nel ricorso ci spiegano anche che al momento della presa di consegna dello stabilimento il magazzino aveva un valore di 500.000,00 euro “l’azienda non ha al momento alcuna giacenza e rifiuta di procedere ad alcun ulteriore acquisto.”
Sorge spontanea la domanda: che fine hanno fatto queste giacenze visto che non sono state utilizzate e non esiste più un magazzino ricambi?

La risposta arriverà dalle Procure di Milano e Taranto che stanno indagando.
Dal punto di vista politico il premier Conte afferma che lo stabilimento di Taranto non deve in nessun caso chiudere. Nel frattempo la triplice sindacale viene ricevuta dal Presidente della Repubblica Mattarella a riprova dell’importanza strategica dello stabilimento di Taranto per l’economia nazionale.
Facendo seguito alle dichiarazioni del Governo i Commissari introducono un ricorso ex art. 700 c.p.c. con il quale contestando le pretese della Mittal chiedono al Tribunale di Milano di ordinare alla Mittal di astenersi dal procedere allo spegnimento dei forni mantenendoli ad un livello di temperatura che ne garantisca la funzionalità; mantenere la continuità produttiva; adempiere alle obbligazioni assunte nel contratto a su tempo sottoscritto.

Nel giudizio sono intervenute la Procura della Repubblica di Milano e la Procura della Repubblica di Taranto oltre la Regione Puglia. Non si comprende perché non siano intervenuti i sindacati che sono quelli che avevano maggior interesse a contestare le pretese della Mittal.
La Procura di Milano ha giustificato il suo intervento “come portatrice di un Pubblico interesse”. Contemporaneamente il Procuratore Francesco Greco ha delegato la Guardia di Finanza a svolgere accertamenti preliminari per verificare l’eventuale sussistenza di reati.

La Procura di Taranto d’intesa con quella di Milano sempre con l’ausilio della Guardia di Finanza ipotizza la violazione dell’art.499 del Codice penale: ‘”Distruzione di materie prime o di prodotti agricoli o industriali ovvero di mezzi di produzione.” Si tratta dello stesso reato avanzato dai commissari Ilva nell’esposto presentato oggi in Procura a Taranto dopo il disimpegno di Arcelor Mittal. L’articolo punisce con la reclusione da 3 a 12 anni e con una multa non inferiore circa 2.065 euro «chiunque, distruggendo materie prime o prodotti agricoli o industriali, ovvero mezzi di produzione, cagiona un grave nocumento alla produzione nazionale, o fa venir meno in misura notevole merci di comune o largo consumo».

In buona sostanza costituendosi nel giudizio iniziato dalla Mittal a Milano i Commissari nel contestare le pretese della Mittal ipotizzano che la crisi che la Mittal denuncia, sia una crisi pilotata dalla stessa con i comportamenti messi in atto fin dalla presa di possesso dello stabilimento.
Si legge nel ricorso infatti “ Il perfetto coordinamento temporale della iniziativa (il comunicato nd.r.) con l’azione giudiziaria notificata il giorno successivo ben dimostra come tale condotta fosse il frutto di una accurata e programmata pianificazione..le vere ragioni dell’iniziativa della Arcelor Mittal nulla hanno a che fare con le questioni formalmente sollevate: esse sono evidentemente da ascrivere ..alla pervicace volontà di eliminare dal mercato definitivamente un proprio concorrente distruggendone l’organizzazione aziendale.”

I Commissari a mezzo dei propri avvocati sostengono che le condizioni poste dalla Mittal e che sono il ripristino dello scudo penale, l’autorizzazione a licenziare 5.000 operai, ridurre la produzione da sei a 4 milioni di tonnellate e l’autorizzazione a tenere aperti i forni sotto esame della magistratura per altri 14-16 mesi sono condizioni irricevibili e che dimostrano “ in se il reale fine di rendere impraticabile qualsiasi trattativa concreta e portare a termine la iniziativa distruttiva illegittimamente assunta”

A riprova di questo intento fraudolento nel ricorso viene indicato l’esempio del centro siderurgico di Hunedoara in Romania acquistato dalla Alcelor Mittal, in cui “ successivamente all’acquisizione del 2003, Arcelor Mittal ha posto in essere una progressiva cancellazione del centro siderurgico, procedendo gradualmente al licenziamento di due terzi del personale rimanente ad una precedente riduzione nel 2011 a meno di 700 dipendenti.” Inizialmente i dipendenti erano 20.000 e fatte le debite proporzioni a Taranto i dipendenti alla fine dovrebbero ridursi a 350 unità.
Un bel successo!

Su richiesta delle parti dal sei novembre ad oggi ci sono stato una serie di rinvii di cui l’ultimo il 7 febbraio fino al 6 marzo per definire un ulteriore accordo fra il governo e la MIttal.
Le richieste della Mittal per riprendere la conduzione dello stabilimento di Taranto sono tre: la reintroduzione dello scudo penale per completare il piano di risanamento ambientale. Lucia Morselli Ad. della Mittal ha dichiarato: «Senza scudo lavorare a Taranto è diventato un crimine».

La seconda condizione di Arcelor Mittal riguarda gli esuberi ed è collegata al dissequestro dell’altoforno numero 2. Tale condizione è stata superata dalla decisione del Tribunale del riesame di sospendere le procedure di spegnimento del  cd. “Afo 2”
La terza condizione, è una rivisitazione del piano industriale. E qui entra in gioco la proposta di Conte e del ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, di un eventuale ingresso nell’azionariato di Am Investco Italy (la società del gruppo franco-indiano che gestisce gli ex impianti Ilva) di Cassa depositi e prestiti.

Ingresso che i Mittal sono pronti ad accogliere, anche perché permetterebbe all’azienda franco-indiana di abbassare i costi di gestione e di affitto e sarebbe il segnale (atteso) di garanzie solide e di interesse concreto nell’acciaieria da parte di investitori pubblici. Vi sono però in questa soluzione problemi operativi perché la Cassa depositi e Prestiti non può entrare in società in perdita.
Da parte sua Il Presidente Conte non accetta la richiesta di riduzione del personale e il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, ha messo  a punto una contro-proposta, per realizzare a Taranto uno stabilimento siderurgico all’avanguardia in Europa.

Strana ipotesi se si considera che con gli attuali dipendenti si può arrivare a sei milioni di tonnellate e riducendo ulteriormente il personale Patuanelli dovrebbe spiegare come potrebbe arrivare ad una produzione di dieci milioni di tonnellate.
Ci stanno prendendo in giro.

I rumori circa l’accordo definitivo fra Commissari e Mittal  parlano di un’accettazione da parte dei primi dei tagli all’occupazione con il ricorso agli ammortizzatori sociali, l’ingresso in qualche modo della Cassa depositi e Prestiti o comunque del Capitale pubblico, la reintroduzione dello scudo penale ed infine una clausola che definisce le condizioni del disimpegno della Mittal.
Questa ultima proposta, se è vera, dimostra che le intenzioni della Mittal non sono cambiate da quelle che aveva all’inizio e che i Commissari nel loro ricorso hanno efficacemente denunziato e cioè approfittare della  situazione di favore offerta dal Governo Conte, portare un po’ di soldi a casa e distruggere definitivamente l’industria siderurgica italiana, lasciandosi alle spalle solo macerie.

E Taranto e gli operai e i sindacati!

Non rappresentano nulla né per la Mittal nè per il Governo Conte, solo un fastidioso orpello.
Nell’articolo citato all’inizio Francesco Forte scrive “Vi sono però sfere ove il cordone ombelicale non è stato ancora reciso e l’impresa pubblica è spesso costretta ad un’azione difensiva rispetto alle pressioni che i poteri economici privati, nazionali ed internazionali esercitano o cercano di esercitare sul governo, sui partiti, sulla stampa, su forze di vario genere. A volte viene abilmente sfruttato l’argomento “programmazione” per cercare di tagliare le unghie alle imprese pubbliche e per dare una veste progressista a questa azione.”

Nel nostro caso più che di pressioni si tratta di un vero e proprio ricatto.
Ma può l’Italia accettare questo ricatto sulla base del quale la Mittal resta ma a spese dello Stato, dei lavoratori dei cittadini di Taranto e dell’intera comunità nazionale per poi alla fine lasciarla andare via come ha già fatto in altre situazioni?
Bagnoli di Napoli che era una piccola realtà rispetto a Taranto, quando fu chiusa i politici dell’epoca promisero risanamento ambientale, rilancio della zona, investimenti, lavoro. Rimangono solo spazi vuoti e scheletri di capannoni dove una volta il lavoro c’era.

La Mittal a detta dei commissari ha posto in essere fin dal suo insediamento a Taranto un piano preordinato creando i presupposti di per una crisi  tesa ad “eliminare dal mercato definitivamente un proprio concorrente distruggendone l’organizzazione aziendale.”
La Mittal potrebbe essere imputata di reati gravissimi di vario genere.
La Mittal potrebbe aver sottratto beni per cinquecentomila euro.
La Mittal vuole pervicacemente portare a termine la iniziativa distruttiva illegittimamente assunta” .
Dovunque è stata ha prodotto disoccupazione e disastri ambientali.
Cosa fa pensare a Conte che la Mittal in Italia si possa comportare in maniere diversa?
Non ci si può affidare ai privati per la soluzione del problema di Taranto perché il governo ha chiarito fin da subito che il problema della siderurgia in Italia si risolve solo con l’intervento dello Stato, perché come opportunamente sancito dalla legge 3 dicembre 2012 lo stabilimento dell’ILVA viene qualificato come “stabilimento di interesse strategico nazionale”. Perché il Presidente della Repubblica con la sensibilità che gli è consueta ha sottolineato la gravità del problema sia dal punto di vista industriale, occupazionale e ambientale.

La risposta c’è! Basta guardarsi attorno. Se Il governo si è reso conto che senza l’intervento dello Stato non si può risolvere il problema della siderurgia italiana che è un problema economico rilevante e che secondo stime del Sole 24 ore, la sua perdita farebbe perdere un punto virgola sei di PIL perché invece di regalare soldi ad una multinazionale vampira che ha dimostrato di voler fare esclusivamente una rapina ai danni dell’Italia non ci si rivolge agli attori silenti di questa tragedia e cioè agli operai delle acciaierie e con esse ai sindacati che in questa occasione stanno dimostrando di avere senso delle istituzioni?

Qui non si tratta di avviare una anacronistica operazione in cui lo Stato sostituendosi al privato si comporta in maniera simile. Un operazione in cui lo Stato si sostituisca al privato sic et simpliciter  non avrebbe senso come non ha senso l’opzione ventilata da Conte di entrare in società con la Mittal. I cinque stelle che tanto parlano di democrazia diretta perché non affrontano il problema da questo punto di vista?
La cogestione, perché è di questo che parliamo, esiste già in altri paesi: in Germania, ma non solo Germania.

Dopo la seconda guerra mondiale vi sono state forme di cogestione in Inghilterra, in Francia dove i consigli di azienda hanno conquistato un’importanza fondamentale della cogestione delle aziende statalizzate.
Ma è in Germania che la cogestione aziendale ha trovato la sua massima applicazione. Infatti nel 1919 fu approvata una legge che istituiva la rappresentanza operaia nei consigli di fabbrica: Inizialmente i poteri di questi consigli di fabbrica erano limitati, ma poi dopo la seconda guerra mondiale la necessità di riprendere l’economia nazionale spinse il movimento sindacale ad ottenere maggior potere soprattutto nella zona del bacini della Ruhr dove la ripresa della produzione si verificò quasi esclusivamente per l’iniziativa operaia.

A quell’epoca tutte le aziende erano sotto il controllo delle autorità britanniche di occupazione che affidarono ad una Società Fiduciaria la gestione aziendale. I sindacati ottennero il riconoscimento del diritto di cogestione. Tutte le aziende costituirono consigli di amministrazione con undici delegati di cui cinque di nomina sindacale, cinque di nomina aziendale più un tecnico estraneo.
Le acciaierie Krupp in crisi accettarono la regola della cogestione. L’azienda Krupp fu trasformata in società per azioni e così fu possibile applicare la cogestione prevista da una legge del 1951, che consentiva tale istituto alle aziende con più di mille dipendenti e ai lavoratori fu consentito di esercitare un certo controllo sull’attività dei complessi industriali che avevano un peso determinate nella vita economica del paese.

Nel 1976, il governo del socialdemocratico Helmut Schmidt approvò, con un largo consenso politico, la riforma che introduceva in Germania il principio della cogestione (Mitbestimmung). La gestione delle imprese tedesche era affidata a due organi: un Consiglio Esecutivo (Vorstand) e un Consiglio di Sorveglianza (Aufsichtsrat). I lavoratori avevano diritto di eleggere metà dei rappresentanti del Consiglio di Sorveglianza. La restante metà e il Presidente sono eletti dall’Assemblea degli Azionisti. Per le delibere del Consiglio di Sorveglianza, il voto del Presidente vale doppio in caso di parità degli esiti elettorali.

La Germania non è un paese comunista né un paese in crisi. Allora perché invece di regalare soldi ai briganti venuti dall’India non si pone in essere un modello che ha dimostrato di funzionare da più di ottanta anni, introducendo nel nostro ordinamento principi di democrazia industriale che porterebbero dare più frutti di quanti ne possa portare la Mittal. Gli operai di Taranto non possono delocalizzare e gli stessi in quanto vittime dell’inquinamento ambientale avrebbero sicuramente interesse ad risolvere il problema del risanamento ambientale.
Peraltro la cogestione in Italia divenne legge all’indomani della Liberazione poi gli alleati imposero la revoca. Uno dei fautori della cogestione furono Rodolfo Morandi.

In Italia paradossalmente la cogestione non ha mai preso piede per l’ostilità dei comunisti verso questo strumento considerato da lor antitetico agli interessi degli operai. Chissà perché? Eppure l’inattuato articolo 46 della Costituzione recita testualmente “Ai fini dell’Elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi alla gestione delle aziende.”
Cogestione nel senso indicato dalla Carta Costituzionale non significa quindi collaborazione. Perché la collaborazione di fatto cristallizza i rapporti di forza all’interno della fabbrica dove il padrone è padrone e l’operaio resta tale. Cogestione invece significa l’introduzione del concetto di democrazia all’interno della fabbrica e diventa quindi strumento di progresso.

In questo senso gli operai, gli impiegati, i quadri prendono parte alla processo produttivo influenzandone le scelte, le strategie i progetti, godendo ampi poteri democratici all’interno dell’azienda.
In un saggio pubblicato nella Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2014, n. 1, parte I Pietro Ichino dopo aver chiarito che la responsabilità della mancata introduzione di elementi di cogestione aziendale sia da ascriversi alla opposizione del PCI e della CGIL afferma l’autore “La partecipazione dei lavoratori in azienda viene bollata come una “mistificazione”, funzionale alla cultura della pace sociale, al depotenziamento delle lotte operaie, quindi fondamentalmente agli interessi della classe imprenditoriale.”

Inoltre La Commissione Lavoro del Senato nel corso della XVI° legislatura approvò il testo l testo unificato dei disegni di legge in materia di partecipazione dei lavoratori in azienda. Da Questo testo scaturì la delega legislativa contenuta nella legge Fornero (28 giugno 2012 n. 92), rimasta disattesa, poi il disegno di legge bi-partisan 4 dicembre 2013 n. 1051, presentato  dal Presidente della Commissione Lavoro del Senato con le firme di senatori di tutti i gruppi.

Pur senza farmi eccessive illusioni ritengo che solo avendo il coraggio di intraprendere la strada della cogestione aziendale si può risolvere il problema di Taranto. I Produttori cioè gli operai e gli impiegati prendono in mano il processo produttivo ed il risanamento ambientale godendo di ampi poteri condivisi all’interno dell’azienda. E’ chiaro che una opzione del genere fa paura perchè essa costituisce il fondamento di una democrazia effettivamente funzionante in campo economico così come previsto dall’art. 46 della Carta Costituzionale.

Qualcuno potrebbe dire che gli operai di Taranto non sono maturi per affrontare un problema così grande.
Creto il problema e grave e la siderurgia è assai complicata come materia che presuppone conoscenze specialistiche. Ma siamo sicuri che la Mittal sia all’altezza del compito? Per i disastri che ha provocato nel resto del mondo sembra che sia solo un vampiro che produce devastazioni ovunque vada sottraendo ricchezze e lasciando dietro di sé solo macerie.

Quante aziende in Italia fallite si si sarebbero potute salvare dal fallimento, se la direzione avesse prestato ascolto alle proposte concrete dei consigli d’azienda del lavoratori.
Certo ci sarebbe una fase transitoria di preparazione e di acquisizione di esperienza. Tuttavia, neppure il migliore degli insegnamenti può sostituire la scuola dell’esperienza pratica. Bisogna smetterla di ritenere i lavoratori come una massa amorfa senza nessuna competenza buona solo ad eseguire ordini impartiti dall’alto. Questa leggenda non merita di essere presa sul serio perché esprime solamente l’arroganza di coloro che si immaginano di essere nati per comandare.

Al posto di riconoscere il diritto di disposizione dello stabilimento di Taranto in capo alla Mittal, macon i soldi dei contribuenti, il Governo deve aver il coraggio di riconoscere a Taranto ai suoi operai ai suoi cittadini il diritto collettivo di disposizione dello stabilimento, nel quale il “fattore lavoro” rappresentato da organi democratici dei produttori e delle vittime dell’inquinamento ambientale in condizione di parità di diritti diventa motore della rinascita dello stabilimento e del risanamento ambientale della città.
Il ministro dell’economia Gualtieri, che ha già dato prova di grandi capacità di  governo ha ipotizzato la creazione di una Newco in cui sia presente la Cassa Depositi e Prestiti. Si lasci andare al suo destino la Mittal e si faccia entrare in questa nuova società il Comune di Taranto, tutti i paesi della provincia di Taranto, si riservi gratuitamente un terzo del capitale sociale agli operai in forza allo stabilimento di Taranto e delle altre aziende siderurgiche coinvolte e si crei un consiglio di amministrazione con una rappresentanza paritetica degli azionisti introducendo il principio della cogestione aziendale.

Se questa formula ha dato buoni frutti in Germania, in Austria in Francia e persino nell’ultra-capitalistica America non vedo perché non dovrebbe funzionare in Italia.
Ritengo che ogni altra soluzione cosi come affermato dai Commissari nel ricorso presentato davanti ai giudici di Milano “comporterebbe la distruzione della maggior azienda siderurgica nazionale, centro di aggregazione socio economico insostituibile per non poche (e non ricche) aree e comunità sociali italiane, e di un patrimonio aziendale di esperienza e know-how incalcolabili, nonché la ferita mortale ad una platea di subfornitori di decisiva importanza per le aree interessate, con effetti quindi disastrosi sul tessuto industriale dell’intero Paese e della stessa Unione Europea.”

settembre 24, 2022

Gennarino Capuozzo

Di Beppe Sarno

Ottanta anni fa dal 28 settembre  fino al 1° ottobre 1943 il popolo di Napoli insorgeva contro i tedeschi.  Quell’insurrezione è passata alla storia come “Le quattro giornate di Napoli”.

Per una specie di pudore che la maggior parte della gente non sospetta in una popolazione ritenuta per lo più superficiale ed egoista poco avvezza al bene comune, i napoletani non hanno mai parlato a sufficienza di queste meravigliose giornate con l’enfasi ed il clamore che meriterebbero.

In quell’ora straordinaria fu visto il popolo degli impiegati, degli operai, degli abitanti dei  bassi, dei marinai e dei soldati traditi dai loro generali, tenere testa all’esercito tedesco, un esercito che seppure in ritirata faceva ancora paura per l’organizzazione e l’efficienza dei suoi soldati. Quella macchina di morte faceva ancora paura al mondo.

Si sarebbe persa la memoria e il senso di quei giorni se Nanni Loy non  avesse riproposto in un bellissimo film la storia di quella “impossibile” ribellione.

Durante le quattro giornate, Napoli martoriata dai bombardamenti, disse no ad una guerra che non riteneva sua  e lo disse con le armi in pugno. La sua tradizionale pazienza si trasformò in furore.

La bestialità tedesca aveva superato ogni limite e venne il momento di dire basta!

Fu il comando tedesco della città che riteneva i napoletani un popolo di servi, facilmente addomesticabile e non un popolo di uomini liberi, furono le deportazioni, gli incendi  e le mille sopraffazioni che fecero precipitare il dramma.

Il 12 settembre un giovane marinaio livornese venne fucilato e legato ai cancelli dell’Università data in fiamme e i napoletani furono costretti ad inginocchiarsi e ad applaudire mentre i cineoperatori delle SS riprendevano lo spettacolo a beneficio del gerarca Goebbels. L’11 settembre furono fucilati  dieci ufficiali di Nola e nel frattempo venivano bruciati gli archivi  della storia meridionale a riprova dell’odio dei nazisti per la cultura. Il 29 settembre moriva un eroe molto piccolo che aveva undici anni. Il suo nome era Gennarino Capuozzo. Napoli si è riconosciuta in quel piccolo eroe e la sua ribellione ha acceso la Resistenza di un popolo che porta  dentro di sé una sofferenza  storica, che gli ha dato la forza di scrivere una pagina fondamentale  della Liberazione dal giogo fascista e nazista.

Oggi che la marea nera sta per andare al potere con una legge elettorale liberticida e anti costituzionale ho voluto ricordare  a me stesso il piccolo Gennarino Capuozzo di undici anni morto per la democrazia.

settembre 24, 2022

Il Monarca!

Di Beppe Sarno

Giovedì 15 settembre a Salerno e prima in altre città della Campania è stato presentato il libro scritto a più mani da Massimiliano Amato Isaia Sales, Licia Amarante Pietro Spirito, Marco Plutino, Pino Cantillo, Luciana Libero.

 Si tratta di un libro inchiesta  sulla resistibile ascesa di Vincenzo De Luca, governatore della Campania.

 Questo libro di cui si sentiva la necessità per dimostrare fino a che punto l’uso distorto delle leggi regionali (statuto e legge elettorale) possano far diventare un istituto che doveva essere un concreto passo verso una più sostanziale democrazia una barriera Insormontabile fra Stato  e cittadini in un treno che corre verso il disastro con il pilota impazzito.

Il 7 giugno 1970 venivano  istituite  le regioni ordinarie  considerate una tappa importante per la  realizzazione di quelle riforme che la nostra Costituzione aveva programmato.

L’istituto  delle regioni doveva rappresentare per tutti i cittadini la grande occasione per avviare una seria riforma democratica dell’ordinamento dello Stato. La costituzione all’articolo 117 definiva le ragioni come “sede deliberante” e quindi come centro di decisione politiche nel momento in cui afferma che “la regione emana…. norme legislative nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato”. L’art 118 prefigurava il funzionamento dell’istituto affermando “ la regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative delegandole alle province ai comuni o d a altri enti locali” Questo era il punto da cui doveva partire l’avvio belle regioni interpretando lo spirito democratico e la volontà dei padri costituenti.

il primo compito  che le regioni dovevano assumere era quello di elaborare ognuna il proprio statuto che avrebbe dovuto avere la funzione di trasferire al nuovo ente una corretta interpretazione della volontà costituzionale.

Lo statuto avrebbe dovuto consentire una partecipazione diretta di tutti i cittadini alla formulazione della politica regionale che tenesse conto delle realtà e delle necessità territoriali.

Le cose sono andate diversamente perché come vediamo nello statuto della regione Campania vi sono tre norme che garantiscono l’assoluto predominio del presidente della Giunta Regionale e sono l’’art. 46 che riguarda la sfiducia perché laddove si prevede che A”La sfiducia, la rimozione, l’impedimento permanente, la morte o le dimissioni volontarie del Presidente della Giunta regionale comportano le dimissioni della Giunta e lo scioglimento del Consiglio; l’art 49 nella parte in cui il  voto contrario della maggioranza assoluta dei Consiglieri regionali sulla questione di fiducia determina l’obbligo di dimissioni del Presidente della Giunta regionale, della Giunta e lo scioglimento del Consiglio regionale; l’art 52 che prevede l’‘approvazione della mozione di sfiducia nei confronti del Presidente della Giunta regionale comporta l’obbligo di dimissioni della Giunta e lo scioglimento del Consiglio.” Queste tre norme di fatto consentono al Presidente della giunta  di arrivare con tranquillità alla fine della legislatura perché nessuno consigliere regionale si sognerebbe mai di rinunciare al proprio ruolo istituzionale ed un notevole compenso per far cadere il proprio Presidente, per quanto cattiva possa essere stata la sua gestione. Ma al di là dello statuto che già di per sé rappresenta una buona polizza per il presidente della Regione di poter governare di fatto senza  alcun controllo,  è la legge elettorale  che pone le basi della costruzione di un potere senza alcun controllo delle rappresentanze di base.

 La democrazia rappresentativa è stata mortificata In Italia non solo a livello regionale ma anche a livello nazionale grazie a un uso scorretto degli strumenti di pubblicizzazione degli eventi elettronica. La televisione e tutti gli strumenti di massa sono diventati strumento principe di chi  poteva avere a disposizione spazi mi comunicazione enormi sulla base non di un progetto elettorale ma sull’uso distorto dei sondaggi che di fatto sono diventati una sorta di pubblicità occulta. Chi ha il controllo dei mezzi di comunicazione di massa ha il controllo del corpo elettorale e tanto più avrà il controllo tanto più la sua vittoria sarà sicura.

Nelle leggi elettorali regionali è passato il principio, attraverso la formulazione di norme ad hoc,  che la funzione dell’opposizione deve essere marginale in nome della governabilità. Di fatto le minoranze ottengono con la legge elettorale ciò che la maggioranza giudica di accordarle, cioè quasi nulla. Di fatto nelle regioni a statuto ordinario le opposizioni hanno un ruolo marginale perché la sommatoria del premio di maggioranza con la soglia di accesso distorce oltre ogni limite l’uguaglianza del voto e viola il principio costituzionale del voto personale e diretto. La legge regionale n.4 del 27 marzo 2009 e successive modifiche ed integrazioni, all’art. 6 co. 1 che così prescrive “Le liste collegate al candidato proclamato eletto alla carica di Presidente della Giunta regionale ottengono almeno il sessanta per cento dei seggi del Consiglio attribuiti alle singole liste.” Ciò significa che per assurdo un gruppo di liste collegate ad un presidente che superi il 40% dei voti anche se composti per oltre il 50% di voti disgiunti farebbe eleggere candidati  delle liste a lui collegate, non scelti dai loro elettori, in misura superiore di quelli eletti con il 35% dei voti dati al complesso delle liste collegate.

La nostra Costituzione non ha  costituzionalizzato il sistema elettorale e quindi nelle varie leggi elettorali c’è un misto di sistema proporzionale e maggioritario per cui il sistema elettorale innesta su un sistema proporzionale l’elezione diretta del presidente, vertice dell’esecutivo tipica dei sistemi previdenziali, nei quali la separazione dei poteri è netta mentre nel caso delle leggi elettorali regionali questa separazione  è imbastardita da un premio di maggioranza che assicura il controllo del legislativo. La legge regionale campana distrugge di fatto il principio tipico dello Stato della divisione del dei poteri. 

A queste due anomalie la contestuale presenza di una soglia di accesso con un premio di  maggioranza determina di fatto l’incongruità di una soglia di acceso non commisurata al consenso tra gli elettori delle liste di candidati, ma al candidato Presidente, per il quale è ammesso il voto disgiunto ( art. 4 c.2  LR n.4 del 27 marzo 2009 e s.m.i.). Si sottolinea che L’introduzione di premio di maggioranza e soglie di acceso oltre che ledere l’art. 48 Cost. sull’uguaglianza di voto e il principio del voto personale e diretto, viola l’art. 51 Cost. per i candidati, che non sono in condizioni di uguaglianza anche se ottengono un consenso pari o addirittura superiore a lista collegata ad un Presidente, che grazie al voto disgiunto gli stessi propri elettori hanno concorso a primeggiare.

Merita sicuramente censure anche il principio dell’esenzione della raccolta delle firme “per i partiti rappresentati nel parlamento italiano o di gruppi costituiti in Consiglio regionale nella legislatura i corso.” In questa maniera, e lo abbiamo visto nella recente corsa alla raccolta delle firme per le elezioni del 25 settembre, i candidati nelle nuove formazioni sono ostacolati e sono costretti come è successo in altre esperienze a dover fare la scelta o di rinunciare alla competizione elettorale o di inserire i propri eventuali candidati in altre liste non corrispondenti al proprio programma politico.

L’esistenza di norme che in nome della governabilità distorcono il senso del messaggio che i padri costituenti hanno lanciato nel prevedere uno strumento di maggiore partecipazione democratica dei cittadini trasformandolo invece in una ulteriore barriera tra Stato e cittadini.

L’istituzione delle Regioni poteva essere una grande occasione di gestione democratica della cosa pubblica, mentre invece è diventato uno strumento in mano al “Monarca” per gestire il potere in maniera assoluta e senza controllo facendo crescere a dismisura il divario tra le intenzioni e le promesse elettorali e il concreto operare politico.

Questo divario è destinato a crescere se  dovesse essere approvato il progetto della cosiddetta autonomia differenziatavoluto dai rappresentanti delle Regioni forti finalizzato ad ottenere risorse pubbliche maggiori mediante trattenute su quote di gettito dei tributi dovuti. Esso rappresenta il tentativo di violare il principio costituzionale affermante che l’attribuzione di risorse e di funzioni ad alcune Regioni non può prescindere dal rispetto dell’equilibrio perequativo tra tutte le Regioni italiane.

Assistiamo nei tempi recenti ad una crisi dello Stato che è di fatto crisi della democrazia. Tale crisi si presenta sotto due aspetti. Si traduce innanzitutto in un isolamento sempre maggiore del cittadino in rapporto al potere cui egli partecipa in maniera sempre più formale ed in secondo luogo la  crisi dello Stato si traduce in un fenomeno ancora più grave:  lo Stato non corrisponde più alla società reale e appare sempre più come un Golem pietrificato. La sovranità popolare è solo formale ma di fatto è morta. Tutta una vita sociale dominata dai mass media e dalle multinazionali finanziarie si svolge al di fuori dello Stato.

Le regioni avrebbero potuto fin dalla loro istituzione modificare e arginare questo fenomeno; si è invece creato un mostro che ha allontanato sempre più i cittadini dalla loro partecipazione alla vita politica attiva consentendo sempre di più la riduzione dei margini di democrazia partecipata.

Il  libro di Massimiliano Amato e degli altri autori  ha avuto il merito di far conoscere  i  meccanismi manipolatori del consenso, i  disastri della sanità, l’eterna questione rifiuti, i danni alla cultura, gli scempi urbanistici di questo astuto personaggio protetto dal suo partito.  De Luca ha capito fino a che punto una legge incostituzionale può far arrivare che detiene le chiavi della complessa macchina regionale.

Ecco perché  Il libro di Massimiliano Amato e degli altri coautori dovrà essere il punto di partenza per una rinnovata attenzione sull’istituto “Regione” per denunciare  le distorsioni determinate da una legge elettorale sotto più punti non conforme al dettato costituzionale e aprire un  dibattito sui contenuti politici della funzione delle regioni e su come intervenire, prima che sia troppo tardi, per fermare la deriva antidemocratica  e l’azione devastante del “Monarca” e dei suoi emuli nelle altre regioni italiane.

settembre 16, 2022

Ancora sulla strana morte di Francesco Di Dio

intervista di Antonella Ricciardi

Nella seguente, nuova incisiva testimonianza, Maria Rosa Di Dio, zia del detenuto siciliano Francesco Di Dio, mette in luce maggiormente aspetti irregolari del modo in cui è stata gestita la vicenda del giovane. Una ingiustificata ed inspiegata mancanza della perizia medico-legale di parte, richiesta dalla famiglia, ha comportato una nuova perizia, che accusa una “mano ignota” che possa avere causato la morte di Francesco, per motivi attualmente non del tutto chiariti, al momento; certo è, però che Francesco era stato discriminato dai vertici del carcere di Opera, la cui direzione sanitaria, soprattutto, non si era mossa per trasferirlo all’esterno, garantendogli almeno gli arresti ospedalieri: il minimo indispensabile, in caso di patologie significative, ma comunque qualcosa di meglio, molto meglio, del rimanere in cella, con mancanza di cure specialistiche. Ricordiamo che, con la circolare 21 del marzo 2020, in piena pandemia, erano stati ampliati i poteri delle direzioni delle carceri, per collocazioni extramurarie, quindi esterne al carcere, di persone con le più varie patologie, quando di un certo rilievo, anche per sfoltire i penitenziari, maggiormente a rischio, con il sovraffollamento, di un estendersi dell’epidemia. Una circolare che aveva suscitato polemiche improntate al giustizialismo, data la scarcerazione di circa 300 persone, condannate per mafie, anche non collaboranti con la giustizia. Va detto, però, che si trattava solitamente di collocazioni comunque detentive, e che non si erano verificate evasioni rispetto a quelle collocazioni alternative; pochi mesi dopo la circolare, anche Raffaele Cutolo, nonostante la mancata revoca del 41 bis ed il mancato differimento della pena (misure criticate in modo motivato da organizzazioni per i diritti umani, data l’estinzione dell’organizzazione di appartenenza e le gravi condizioni di salute), era stato però ammesso ad una misura nei fatti equivalente ad un differimento: nel suo caso, per iniziativa delle direzione sanitaria del carcere di Parma, era stato trasferito negli ultimi mesi della sua vita, tra 2020 e 2021, agli arresti ospedalieri in un reparto detentivo di un centro di cura esterno: l’’Ospedale Civile Maggiore di Parma, che è anche Clinica Universitaria, da cui era stato poi confermato non dimissibile; una misura, quindi, di correttezza e civiltà, che, invece, era purtroppo mancata nel caso di Francesco. Tornando invece alla direzione sanitaria del carcere di Opera, è illuminante ricordare che il suo operato, nel caso di Francesco Di Dio, era stato contestato dalla dottoressa Catalano, primaria dell’Ospedale Sacco di Milano, che aveva considerato scorretta la collocazione carceraria di Francesco, che pure aveva bisogno di cure specialistiche. Maria Di Dio, quindi, chiede che le indagini più serie rischiarino la tragica vicenda, la cui oscurità è aggravata dalla mancata chiamata a testimonianza degli ex compagni di sventura di Francesco: un tempo nella Stidda, poi nella non violenza. Sia Francesco Di Dio che i suoi compagni ad Opera non avevano collaborato con la giustizia, per non coinvolgere altre persone nel loro dramma; tutti i compagni di Francesco avevano gradualmente avuto accesso a liberazione almeno parziale, in nome di una visione più lungimirante del recupero della persona. Solo Francesco, tra loro, era stato escluso da attenuazioni del grado di intensità della pena, eppure si era ravveduto nell’anima: un pentimento vero, differente da una collaborazione con la giustizia interessata, da parte di persone spesso più colpevoli (tra cui vari capi della Stidda di un tempo), e che, comunque, non la fanno gratis. Francesco era stato condannato all’ergastolo, rivelatosi successivamente nella sua terribile variante ostativa, a 18 anni; una condanna durissima, per una pena che, a volte, non viene condivisa neanche da familiari di vittime. Ricordiamo, su altri casi, ma comunque eloquenti, le posizioni di generosità mirabile, straordinaria, di Agnese Moro (figlia dello statista Aldo), che affermava che l’ergastolo fosse come buttare via qualcuno, e che lei non volesse buttare via nessuno. Un ergastolo, nel caso di Francesco Di Dio, trasformato, a parere della zia, in una condanna a morte di fatto, dopo 30 anni di torture mentali e fisiche, data anche la mancata corretta gestione di terapie antidolorifiche in carcere: una situazione che era stata deplorata dalla stessa dottoressa Catalano.

1)Partiamo da una premessa: nel giugno 2021 era stata presentata una denuncia, in cui un perito nominato dalla famiglia sostiene la tesi di un soffocamento dovuto a cause esterne ai danni di tuo nipote, Francesco Di Dio: tale documento, che attesta questa posizione del medico, è stato presentato anche perchè, a suo tempo, quando si era svolta l’autopsia, l’anno prima, un altro medico di parte, nominato dalla famiglia, Corradin, non aveva firmato la relazione collegiale con gli altri medici. Addirittura, la relazione di Corradin non risulta essere stata depositata nel fascicolo al pubblico ministero, per cui non c’è prova che esista una relazione di Corradin depositata all’epoca. Puoi spiegare maggiormente questa situazione?

Nel giugno del 2021 abbiamo nominato un nuovo medico legale, perchè il primo medico legale Matteo Corradin, quello che ha fatto l’autopsia, non ha depositato la relazione medico legale nel fascicolo del p.m. Christian Barilli nel 2020, durante le indagini preliminari, che sono durate otto mesi.  Inoltre non ha firmato la perizia medico legale collegiale e in uno degli esami non ha presenziato. In quel momento, nonostante il dolore della perdita del mio caro nipote Franco e l’amarezza che il medico legale Matteo Corradin avesse compromessi-danneggiati esami irripetibili art. Cpp360, abbiamo pensato di nominare un nuovo medico legale. La cosa ancora più strana è che durante le indagini preliminari, ripeto durate otto mesi, nessuno si è accorto che mancava la perizia di parte: né l’ex avv. difensore Eliana Zecca nè tantomeno il p.m Christian Barilli che era il capo delle indagini. Cosa pensare? Non hanno letto? Non hanno fatto bene il loro lavoro o altro?

Non so cosa pensare. La risposta ce la deve dare il nuovo capo delle indagini del tribunale di Milano. 

Di fatto noi ci siamo ritrovati senza perizia medico legale, non esisteva!!

Comunque noi abbiamo nominato un nuovo medico legale, il quale ha sostenuto, sia verbalmente che per iscritto, che Franco è morto per soffocamento dovuto a cause esterne e quindi dopo un anno e tre mesi abbiamo presentato denuncia a settembre 2021. Noi vogliamo sapere cosa è successo a mio nipote Francesco Di Dio   il 03/06/2020 dentro il carcere di Opera-Milano, perché in uno Stato di Diritto è giusto che noi cittadini rispettiamo lo Stato ma altrettanto rispetto chiediamo noi cittadini. 

2) Tu e l’attuale avvocato, Daniel Monni, siete effettivamente arrivati ad un dato dirimente, di cui il precedente avvocato, ed il pm che in precedenza si era occupato del caso, non avevano appunto fatto menzione: la questione non sembra essere stata notata, o sollevata. Quanto cambiano adesso le cose? Cosa pensi possa implicare per il nuovo procedimento giudiziario?

Sì, io e l’avv. Monni ci siamo arrivati subito e senza nessun impedimento che mancava la perizia medico legale di parte, tanto che l’avv. Monni mi ha detto subito che dovevamo nominare un nuovo perito, in quanto il medico legale Matteo Corradin, che ha eseguito l’autopsia, non aveva depositato la perizia medico legale di parte nel fascicolo del pm Barilli, non aveva firmato la relazione medico legale collegiale e non aveva presenziato ad un esame e che le indagini si erano concluse con la richiesta di archiviazione con la mancanza di questi atti  importantissimi. Invece l’ex avv. di fiducia Eliana Zecca non ha notato e non ha sollevato il problema che mancava la “perizia medico legale di parte”, che Corradin non aveva firmato la relazione medica legale collegiale e quando è arrivata la richiesta di archiviazione da parte del PM Barilli, mi disse “sig.ra è tutto chiaro”!!  E quindi noi non potevamo fare niente, solo accettare l’archiviazione della morte di mio nipote.

L’avv. Zecca non è la prima incongruenza che non ha notato, tante che in passato mi sono domandata ma questo avv. è nostro difensore o è l’avv. difensore del carcere di Opera?

Quindi l’ho cambiata perché non ho avuto più fiducia e perché per lei dovevamo chiudere.

Per come stanno le cose l’avv. Zecca e il medico legale andrebbero denunciati per risarcimento perché non hanno fatto bene il loro lavoro e a noi hanno procurato un danno enorme. Tante è vero per come stanno le cose non escludo di chiedere al pm una nuova autopsia.

3) Le testimonianze sulla morte di Francesco potevano essere meglio approfondite, e perchè, a tuo avviso?

No, non ritengo che potevano essere approfondite, non dovevano fare neanche quella di Feliciello. Sono dubbie le risposte dei detenuti perché vivono in uno stato di repressione: non sono liberi di dire e fare. Come ritengo dubbia la testimonianza di Domenico Feliciello, perché Franco ha sempre detto che di fronte alla sua cella c’era Orazio Paolello,  non Domenico Feliciello, detenuto invece per camorra. 

Un articolo che parla di Domenico Feliciello ha dell’incredibile: commenta il fatto che non gli hanno dato il permesso premio per vedere la famiglia fuori dal carcere senza mettere in risalto la vera notizia, che gli hanno tolto il 41 bis, che è quasi impossibile togliere, specialmente quanto si tratta di boss. Tutto questo a due anni dalla morte di mio nipote Franco.

Ha attinenza? Non lo so, però mi fa pensare, in quanto il carcere di Opera non è impermeabile a certi reati, come la droga che circola dentro.

4) Cosa propendi possa essere accaduto a Francesco, ed in quali circostanze?

Credo nella relazione medico legale del dottor Rizzino, il nuovo medico legale di parte: Franco è morto per mancanza di ossigenazione causata dall’esterno, cioè Franco è stato ucciso dentro il carcere mentre era in custodia dello Stato.

Ritorno a dire che il carcere di Opera non è impermeabile a certi reati. Es: la droga che circola all’interno.

Poi, penso Franco a chi dava fastidio? E perché i suoi ex compagni di sezione non hanno evidenziato certe anomalie? Per farlo riposare in pace gli dovete la verità, è l’unica cosa che gli possiamo dare. 

Nell’ultima telefonata ho sentito Franco agitato, gli abbiamo chiesto cosa hai? Lui, come al solito rispose nulla.

Secondo me verosimilmente aveva capito, non è stato un omicidio di impeto ma premeditato. 

L’ora potrebbe essere stata dopo pranzo quando le celle sono aperte.

Franco, forse si trovava già in cella, hanno fatto l’omicidio e poi l’hanno chiuso all’interno.

5) Quali aspetti sono più importanti da ricordare del calvario di Francesco, anche per evitare che anche altri detenuti siano vittime di analoghe situazioni di disumanità nel trattamento?

Gli aspetti più importanti del calvario di Franco, iniziano da subito, quando lo hanno arrestato. Franco aveva diciotto anni e due mesi, un ragazzino, e faceva uso di sostanze stupefacenti. Io, non dico che non abbia sbagliato ma dovevano considerare la giovane età e l’uso di sostanze stupefacenti. Non era un boss ma l’hanno condannato come se lo fosse, solo perché un giornale, la Repubblica, l’aveva indicato come tale. Una relazione di polizia aveva usato quell’articolo per esprimersi contro benefici a suo favore.  Ad un ragazzino gli hanno fatto vivere l’esperienza dell’Asinara, dove deportavano tutti i boss. Il momento più tragico l’ha vissuto nel carcere di Carinola dove iniziò ad avere dolore al piede ed i medici del carcere di Carinola lo curarono per ben tre mesi come lombosciatalgia con dolori indicibili, lo portarono in ospedale solo quando fu grave, con il piede in cancrena e la febbre a 40 gradi, a rischio della vita. Io, che non sono medico se dopo 15 gg non ho risultati o miglioramenti penso che la cura non è giusta, invece i medici del carcere di Carinola hanno continuato imperterriti con la cura della lombosciatalgia. Alla fine hanno dovuto amputare il piede perché in ospedale glielo hanno portato troppo in ritardo.

Altro momento veramente disumano fu durante la pandemia, con la circolare 21 del 2020, per cui il direttore del carcere Silvio Di Gregorio aveva il potere di mettere fuori senza nessuna istanza chi stava male e così fece, mise fuori tanti detenuti tranne Franco, di tutti quelli che mise fuori nessuno è morto, è morto Franco che lasciarono in carcere. Noi, famiglia Di Dio, in quel periodo dicevamo perché il direttore del carcere di Opera non aveva fatto uscire Franco!! Allora, visto che non ci aveva pensato Silvio Di Gregorio, in quel periodo facemmo istanza per arresti ospedalieri, la direzione sanitaria del carcere di Opera ha scritto nero su bianco che Franco stava bene. Nonostante Franco avesse una gran voglia di vita perché praticamente non ha vissuto nulla della vita esterna.  Il carcere di Opera è stato atroce con Franco. 

Quando è morto hanno detto che aveva diverse patologie ma si sono dimenticati di dire che per Franco una delle patologie che aveva era una grave carenze di vitamina D. Vitamina che he come sappiamo si produce con l’esposizione al Sole: siccome per 30 anni non ha visto né cielo ne terra, è normale che gli sia venuta questa patologia e altre dovute sempre alla  lunga detenzione. Se l’anima soffre il corpo urla il dolore. Mio nipote è stato condannato a morte a 18 anni, un ragazzo sepolto vivo per ben 30 anni. Tutti sbagliamo e tutti dobbiamo avere una seconda possibilità; a Franco non gliela hanno data, non hanno applicato su Franco giustizia ma vendetta. Un essere umano si deve riabilitare come dice la nostra Costituzione, non affossare e terrorizzare.  

Infine era disumano leggere negli occhi di Franco il terrore. 

Franco aveva capito che aveva sbagliato e si era ravveduto nella sua anima.

A noi manca una parte della nostra famiglia ed è un dolore che non passa mai, dobbiamo convivere giorno dopo giorno con questo dolore e insieme a Franco hanno fatto male anche a noi. E ancora da morto gli fanno del male perché cercano di occultare la verità, una prova è la mancanza della perizia medico legale di parte.

I

settembre 8, 2022

Compagno Presidente

Ricordando Salvator Allende.

di Beppe  Sarno 

Il 4 settembre 1970 avviene in Cile un miracolo: una coalizione socialista, “Unitad Popular”,  con  Salvador Allende candidato Presidente,ottiene il numero più alto di voti. Unitad Popular raggiunge li 36,3% dei voti, il candidato della destra Jorge Alessandri il 34,9% e il candidato democristiano Rodomiro Tomic il 27,8%; il Cile ha un sistema presidenziale che da al Presidente della Repubblica il potere di nominare il governo.

Nel successivo scrutinio alle camere la Democrazia Cristiana voterà per Allende. E’ la vittoria! Dopo un mese di tensioni il 4 novembre 1970 Salvator Allende socialista entra al palazzo della Moneda come Presidente e capo del governo del Cile.

Allende eredita un paese da governare politicamente ed economicamente debole: poca industrializzazione, il rame, ricchezza principale del paese in mano agli Americani, poca agricoltura in mano ai latifondisti, mancanza di un terziario forte e urbanizzazione crescente della popolazione.

In questa realtà i comunisti e i socialisti rappresentano un movimento operaio organizzato, ma profondamente diviso al suo interno; la Dc ha una base interclassista e il partito nazionale rappresenta invece il latifondo e quella parte della borghesia tradizionalista e conservatrice in concorrenza con la destra della DC. Vi sono poi movimenti minori far cui il MIR, prima astensionista e poi fortemente sostenitore di Allende.

Il progetto politico di “Unitad Popular” si fondava su alcune idee forti: la prima che il sistema istituzionale Cileno aveva al suo interno gli strumenti per la trasformazione del Cile in  uno stato socialista nel rispetto della legalità costituzionale; la seconda che una radicale trasformazione del capitalismo in capitalismo di stato con riappropriazione dell’industria e del credito unita ad una accelerazione della riforma agraria iniziata da Frei, avrebbe creato le premesse per l’indipendenza economica del paese, per fermare l’inflazione, per rendere l’industria privata non in conflitto con lo stato, per consentire una redistribuzione del reddito a favore delle fasce più deboli della popolazione. Come conseguenza di queste idee guida sarebbe seguita una fase spinta di nazionalizzazioni, di coinvolgimento degli operai nelle scelte produttive, acquisizione di capitali provenienti dall’estero.

Il governo, formato dai socialisti, dai comunisti, radicali, MAPU, socialdemocratici e dal “marxista indipendente” Vuscovic, nei primi mesi di attività, ottiene importanti risultati. In politica estera riconosce Cuba e la Cina; in politica interna oltre a varie opere sociali, sanitarie e altre provvede alla nazionalizzazione totale delle industrie minerarie fino ad allora in mano agli americani, reti di industria e combustione, comunicazione, trasporti, istituti bancari. Anche in agricoltura gli espropri sono considerevoli. Il governo rifiutandosi di indennizzare le industrie estrattive del rame arriva a chiedere un risarcimento di circa 350 miliardi di dollari alle società americane proprietarie fino allora delle miniere.

I salari vengono aumentati come pure le spese sociali.  Alle elezioni municipali dell’aprile 1971 Unitad Popular sfiora il 50% dei voti.

L’assassinio di un ex ministro democristiano insieme ad una forte crisi economica determinata dall’abbassamento del prezzo del rame e dalla mancata concessione di prestiti da parte del FMI mette in crisi i rapporti con la DC, in cui ha ripreso potere Frei, che chiede ad Allende di ridurre il numero delle industrie da nazionalizzare.

Altro fattore di crisi è la richiesta di aumenti salariali da parte degli operai delle miniere a cui Allende non riesce ad aderire. Di questo stato di cose approfitta la Dc che avendo insieme al Fronte Nazionale la maggioranza al Senato ed alla Camera mette in seria difficoltà il cammino delle riforme e il governo stesso. 

Il 1972 è l’anno della riscossa della DC e delle destre tra cui spicca l’organizzazione parafascista “Patria e Libertà”. Il candidato alle presidenziali della DC Tomic, viene sostituito dal redivivo Frei. Le elezioni suppletive, caricate dalla destra di significato politico porta al successo i candidati democristiani.

Lo scontro tutto istituzionale avviene prima sul bilancio: obbiettivo delle destre è bloccare il programma di nazionalizzazione delle industrie. Per questo motivo oltre a chiedere l’incriminazione del ministro Toha  per motivi di ordine pubblico, viene chiesta l’incriminazione del ministro dell’economia Vuksovic considerato colpevole di aver voluto accelerare il processo di nazionalizzazione delle industri private. Comunisti e socialisti a questo punto avrebbero voluto tentare l’apertura del dialogo con una parte della Dc, il Mir invece proponeva misure di trasferimento di poteri al popolo al di fuori del quadro istituzionale.

la DC dal canto suo organizza una forte opposizione sia all’interno del parlamento che nelle piazze con un’organizzazione capillare. Viene proposto un progetto di riforma istituzionale teso ad attuare una limitazione dei poteri del presidente.

Una serie di misure incongrue e di difficile sostentamento in materia economica porta necessariamente alla mancanza di beni, fenomeni di accaparramento, speculazione e mercato nero. la “battaglia per la produzione” del 1971, aveva solo attenuato per un breve periodo l’aggravarsi della crisi.

All’interno di Unità Popolare si apre un dibattito: da una parte Vuksovic che propone di accelerare e riqualificare il processo di allargamento del settore statale, di promuovere una forte politica fiscale sugli alti redditi e una manovra sui prezzi; lo stesso ministro contemporaneamente propone di sospendere il pagamento del debito estero e di aprire negoziati con altri paesi per attrarre investimenti esteri. Dall’altra parte i comunisti che continuando ad avere un atteggiamento prudente, propongono di ridurre il numero delle imprese da nazionalizzare e pongono forti freni al controllo della produzione da parte degli operai. Vince la linea dei  comunisti, ma la cosa non ferma la crisi.

Al dibattito sulle prospettive economiche si aggiunge il dibattito politico che porta  a delle profonde spaccature all’interno di Unitad Popular.

la fedeltà alle istituzioni di Allende e di Unitad Popular si dimostra una camicia di forza per il governo, lasciando alla DC e alle forze di destra la piazza. Lo scontro si radicalizza anche perchè i comunisti prendono le distanze da Unitad Popular. Alle proposte in materia sociale ed economica del governo, “El Siglo” quotidiano del partito comunista scrisse all’epoca “parlare di controllo operaio è pura fraseologia, che non ha nulla a che fare con il nostro programma[….]proporre una amministrazione fondata sulle organizzazioni popolari dei consigli di zona, incaricati a risolvere i problemi dei lavoratori è anarchismo puro mentre quel che occorre è un’azione sindacale sociale politica economica  coordinata ed efficace di guadagnare la fiducia degli imprenditori(sic!)”ed ancora “un piano realistico che si proponga misure molto chiare di aumento della produzione e della produttività” 

Nel giugno ’72 cambia il governo con un programma che corrisponde ad un arretramento rispetto alle scelte politiche iniziali di unitad Popular.  I tentativi di Allende con la proposta di misure economiche e politiche più moderate non ottengono i risultati sperati; la rottura con i comunisti fa il resto.

Il 12 ottobre dello stesso anno inizia la serrata dei trasporti, del commercio e di altre categorie professionali. L’attacco ad Unitad Popolare è cominciato.

Unitad Popular si radicalizza e il segretario del partito Socialista Carlos Altamirano sostiene che il progetto politico di Unitad Popular deve andare avanti con più rigore; continua la statalizzazione delle fabbriche e vengono attuati aumenti indiscriminati dei salari. Insomma la scelta rispetto alla serrata è quello di spostare sempre più a sinistra le scelte politiche. L’obbiettivo dei socialisti,  del Mir e del Mapu è quello di creare un  blocco rivoluzionario che contrasti lo scontro ormai aperto con le destre e la DC. Allende e i comunisti rimangono invece  fedeli alla scelta di non uscire dalla legalità.

A questo punto Allende gioca la carta dell’accordo con i militari. dopo un incontro con il Generale Carlos Prats, questi accetta, in nome della fedeltà alle istituzioni, di entrare nel governo e accetta la presidenza impegnandosi a stroncare la serrata in 48 ore. L’illegalità viene sconfitta.

La sinistra DC che in un primo momento aveva seguito Allende per il riscatto del rame dagli Stati Uniti e per una riforma agraria che ella stessa aveva concepito, di fronte a scelte più radicali di Unitad Popular si dissocia e si allea con la destra con il comune intento di sconfiggere Unitad Popular.

L’isolamento internazionale, la crisi economica, il controllo da parte della Dc dei mezzi di informazione, della polizia di strati dell’esercito riescono ad avere partita vinta rispetto al tentativo di Unitad Popular di costruire un blocco alternativo operaio e contadino che usciva dagli schemi capitalistici con l’obbiettivo di costruire una società socialista per le vie legali.

L’aumento della qualità della vita e le migliori condizioni economiche della classe operaia, insieme al processi di nazionalizzazione delle industrie e tutte le misure economiche e politiche del governo  determinarono nel ceto medio la convinzione che  “il processo sociale è andato oltre il punto di equilibrio d’un governo riformista” . Il Cile si avviava a diventare socialista. La nazione si divise da una parte la classe operaia sostenitrice di Unitad Popular, dall’altra la media borghesia, gli industriali i ceti ricchi, i latifondisti sostenuti dal governo degli Stati Uniti e questo portò ad una radicalizzazione dello scontro politico. Nessuno più crede al raggiungimento del socialismo in maniera indolore. La Dc propone per uscire dalla crisi il blocco dei salari, una riattivazione degli incentivi ai capitali nazionali ed esteri unite a misure inflattive.

All’interno di Unitad Popular si determina una spaccatura fra socialisti e comunisti sulle misure economiche da adottare. Rispetto alla proposta dei socialisti di istituire per combattere il fenomeno del mercato nero una dotazione fissa mensile di prodotti alimentari di base per ogni nucleo familiare, il PC si rifiuta di aderire. Lo scontro decisivo si verifica sulla proposta dei socialisti di portare fino in fondo il processo di nazionalizzazione delle industrie. I comunisti avrebbero voluto invece bloccare il processo e riattivare con misure incentivanti gli investimenti privati. Il ministro all’economia Millas, a questo proposito propone di bloccare il processo di nazionalizzare l’industria e di restituire ai privati 123 aziende che stavano per essere nazionalizzate. Gli operai scesi in piazza chiedono l’abolizione del progetto Millas e solo l’impegno di Allende a far naufragare il progetto Millas ferma la protesta operaia.

Contrariamente ad ogni aspettativa nelle elezioni del marzo 1973 i socialisti ottengono il 43,9 % dei suffragi. Intanto l’inflazione tocca il 238%. Gli operai, i contadini il terziario e gli intellettuali scelgono Allende, il dialogo fra DC e Unitad Popular appoggiato dai  comunisti non è più possibile, Frei si riappropria della DC. Una parte dell’esercito che in un primo momento aveva appoggiato Allende prova un tentativo di golpe nel giugno 1973, ma sono le stesse forze al suo interno, leali ad Allende che lo stroncano.

A questo punto Allende forma un governo senza esercito con un programma politico moderato orientato a riaprire il dialogo con la DC. Dopo il tentato golpe del 29 giugno  gli operai occupato circa duecento fabbriche e chiedono ad Allende di punire i militari infedeli e di istaurare un’emergenza basata sull’organizzazione popolare armata. Allende rifiuta ed ad agosto forma di nuovo il governo con il fedele generale Prats.

La DC ormai straripa e il generale Prats deve lasciare il governo il 24 agosto. Lo sciopero dei trasporti continua bloccando praticamente l’economia del paese. La divisione all’interno di Unitad Popular fa il resto.
 la mattina dell’11 settembre, strana coincidenza di date, i generali Pinochet, Leight, Medina e il comandante dei carabineros Mendoza si costituiscono in giunta militare e gli danno tempo fino a mezzogiorno per dimettersi. Santiago è occupato dall’esercito.

Allende dalla Moneda lancia un appello alla mobilitazione del paese. A mezzogiorno parte l’attacco al palazzo presidenziale, comincia il massacro.

Allende fucile alla mano tenta di difendersi, ma inutilmente. Il suo corpo sarà trovato crivellato di colpi nel suo studio, muore combattendo anche se i militari, mentendo, diranno che si era ucciso.  

La giunta militare inizia il genocidio. La parola d’ordine sarà “Estirpare il cancro marxista.”

Si è scritto tanto su Allende, sull’esperienza Cilena, su Unitad Popular e sul tentativo di costruire una società socialista all’interno di uno stato a democrazia rappresentativa utilizzando gli strumenti rappresentativi e rispettando la legalità. La domanda è stata, era, e sarà se è possibile arrivare per via pacifica alla costruzione di una società socialista. Unitad Popular sotto la guida del socialista Allende, ha tentato nel lontano 1973, quando noi, allora giovani, uscivamo dall’ubriacatura sessantottina o per un processo di riflessione o per un processo di maturazione politica o semplicemente per diffidenza e paura nei confronti del terrorismo di alcune formazioni dell’ultrasinistra di istaurare una società socialista utilizzando le istituzioni democratiche rappresentative. Se invece di questo tentativo estremo avesse soltanto  tentato di riformare le istituzioni democratiche in senso socialdemocratico, migliorando le condizioni sociali ed economiche dei ceti meno abbienti, probabilmente ci sarebbe riuscito. In questo senso Leon Blum negli anni trenta parlava di “leale gestione  della società capitalistica.” Cioè l’attuazione nella società capitalistica di una redistribuzione del reddito a favore delle classi subalterne senza intaccare i meccanismi di produzione e di divisione della società. La storia è l’attualità ci insegnano quanto sia illusorio questo progetto.  Ma era possibile questo in Cile negli anni ’70 o ha avuto ragione Allende?

Certo se avesse voluto sopravvivere politicamente avrebbe dovuto chiaramente manifestare questa scelta ed adottare quella linea di prudenza che i comunisti cileni, forse dietro suggerimento della Russia, gli suggerivano, ma questo significava per Allende tradire il mandato ricevuto dagli elettori. Data la condizione politica in cui si trovava il Cile probabilmente non esistevano le condizioni per attuare il progetto di Unitad Popular e la profezia di Engels    che la via legale per la creazione di uno stato socialista avrebbe ucciso i reazionari si è rivelata sbagliata. L’estrema destra cilena opponeva al disegno di Allende la parola d’ordine “GiaKarta è vicina”.

Il premio Nobel messicano Ottavio Paz affermava “A Praga i carri armati russi e a Santiago i generali istruiti e provvisti di armi dal Pentagono, gli uni in nome del marxismo gli altri in quello dell’antimarxismo hanno portato la stessa dimostrazione: “la democrazia e il socialismo sono incompatibili.” 

Allende con il suo esperimento ha tentato di abolire dei privilegi di una classe dominante che ha reagito con violenza per salvaguardare quei privilegi che riteneva diritti acquisiti. Nel 1963 Luis Corvalan segretario del Partito comunista cileno affermava che in caso di vittoria elettorale “Bisognerà affrontare un’altra prova: quella dei tentativi controrivoluzionari di riprendere il potere.” Ardonis Sepulveda socialista affermava “Non saremo noi a cercare lo scontro, ma crediamo che sarà impossibile evitarlo, perché la borghesia e l’imperialismo non rinunceranno mai volontariamente ai loro privilegi di classe.” Forse fu questo uno dei motivi per cui Allende favorì l’ingresso dei militari nel governo.

Il colpo di stato del settembre 73, salvo  pochi casi isolati, lasciò le classi subalterne inerti. E allora torna la domanda era possibile il socialismo in Cile? 

Il socialismo è un’organizzazione sociale che si impone solo se si creano le condizioni storiche economiche e sociali. Nel Cile del 1970 queste condizioni non esistevano. La popolazione attiva era per lo più impiegata nell’agricoltura dove imperava il latifondo e solo il 20% della popolazione era impiegata nell’industria. Nell’industria oltre la mano d’opera impiagata nelle miniere il resto era impiegato in aziende di piccole dimensioni. Il socialismo veniva così imposto dall’alto e non da movimenti di base. Le nazionalizzazioni imposta da Allende avevano questo scopo, ma lo stato era in mano alla reazione. Unitad Popular pur avendo vinto le elezioni non aveva la forza per governare. Pur utilizzando tutte le possibilità che la via legale gli offriva per realizzare le riforme democratiche e sociali del suo programma Allende si è scontrato contro ostacoli oggettivi che hanno reso impossibile il percorso delle riforme e della trasformazione dello stato. Certo il primo errore è stato quello di nazionalizzare le industrie del rame senza indennizzare la proprietà. Più astutamente il suo predecessore Eduardo Frei pur avendo dato inizio alla nazionalizzazione delle industrie del rame, si era guardato bene da non indennizzare gli ex proprietari, anche perché questi avevano accettato il programma di nazionalizzazione. La scelta di Allende portò ad una reazione delle società estrattive e con esse dal governo americano. Sicuramente Allende avrebbe potuto avere delle dilazioni nel pagamento delle indennità senza perdere la possibilità di prestiti internazionali. Contemporaneamente e forse come reazione diminuì la produzione e il prezzo del rame sui mercati internazionali subì dei ribassi pilotati. Altro elemento di debolezza di Allende e del suo governo fu il mancato controllo dell’inflazione per effetto dell’aumento dei prezzi e  l’aumento della domanda.

La riforma agraria voluta da Unitad Popular e le nazionalizzazioni misero in moto una spirale perversa che determinò un’accelerazione dell’inflazione. Le classi medie spaventate si sollevarono contro il governo.

Ma non furono solo le scelte economiche, pur fondamentali, a determinare la fine dell’esperienza cilena, le riforme volute da Unitad Popular in così breve tempo senza avere una maggioranza in parlamento portarono il governo alla sconfitta. Allende non si arrese, forse, se si fosse arreso dimettendosi, avrebbe conservato al Cile la democrazia necessaria  per continuare in altri momenti più propizi la sua esperienza. Così non fu. Il Cile diventò un enorme mattatoio.

Se è vero come è vero che il socialismo non si impone con la lotta armata né coi colpi di stato è pur vero che le trasformazioni sociali per la creazione di una società socialista non possono essere frutto delle decisioni di una élite, bensì dalla coscienza sociale. Per ogni riforma , per ogni trasformazione sociale occorre partire dalla realtà e non dai desideri, perché come   è stato detto “l’impazienza rivoluzionaria non ha mai permesso alla storia di saltare le fasi normali del suo sviluppo. Essa ha sempre portato alla sconfitta, o perché schiacciata dal nemico, o perché ha partorito un regime che non corrispondeva per niente a ciò che si desiderava. E’ la situazione reale che fa da forza motrice alla rivoluzione e non la semplice volontà.”(Pierre Rimbert)

settembre 6, 2022

Più luce, più luce!

di  Beppe Sarno

Al VI° congresso dell’internazionale Comunista che si tenne a Mosca  dal 17 luglio al 1° settembre 1928 chiese la parola con le parole di Goethe “Più luce, più luce!” Nel suo intervento Togliatti aveva ammonito a proposito delle divisioni interne al Komintern affermando “l’avanguardia del proletariato non può battersi nell’ombra!” Togliatti dopo quel congresso entrò a far parte della direzione dell’Internazionale e fece sua la scelta di Stalin  della terza fase, cioè della strategia chiamata classe contro classe caratterizzata da una radicale ostilità verso la socialdemocrazia.

Togliatti non era fra i compagni che uscirono dal teatro Goldoni di Livorno Venerdì 21 gennaio 1921 era infatti rimasto a Torino laddove invece era presente Gramsci che però non prese la parola.

Il fatto è che Togliatti nella accidentata storia del movimento comunista ebbe un solo faro orientato ad est. Questa sua fedeltà gli dette grande potere che gli derivava dal peso politico, parlamentare sindacale del più grosso partito comunista occidentale. L’unione sovietica aveva grande fiducia e stima del “Migliore” perché Togliatti fu il fedele interprete delle direttive che provenivano da Mosca.

Note sono le polemiche all’indomani del delitto Matteotti, quando Togliatti rientrato da Mosca che rifiuta ogni accordo con il PSI e con i massimalisti giustificando l’uscita blocco delle opposizioni. Secondo Togliatti i socialisti erano c oloro che “lottano per tenere in piedi il sistema capitalistico dall’altra (i comunisti n.d.r.) chi la vuole mandare in pezzi per sempre. Da una parte chi vuole un governo non più fascista ma sempre di capitalisti e sfruttatori, dall’atra chi vuole un governo di operai e contadini.” Questa posizione antisocialista e la debolezza dei socialisti incapaci si assumere una decisione farà poi fallire la proposta di sciopero generale. Il 18 giugno il comitato esecutivo della CGL dirà “Si decide di invitare alla calma le organizzazioni confederate, i dirigenti, le masse lavoratrici, per non compromettere con iniziative particolari e inconsulte lo svilupparsi degli avvenimenti.”

Quando  Togliatti arrivò in Italia non dialogò con i gruppi antifascisti ma con Badoglio, con la monarchia e con gli alleati. Il suo arrivo fu preceduto da una lettera indirizzata a Badoglio per chiedere l’autorizzazione a rientrare in Italia. Con la monarchia assunse fin da subito un atteggiamento blando “Abbiamo sempre evitato di fare della monarchia e del re il problema centrale del momento presente.”

La cd. svolta di Salerno fu il risultato di un accordo fra le diplomazie sovietiche e le potenze alleate e che ogni iniziativa di Togliatti furono concordate a Mosca. Scrive in proposito Valiani” i documenti diplomatici dimostrano che la svolta di Salerno fu suggerita dal governo sovietico prima ancora dell’arrivo di Togliatti ….”. In questa visione non ci sarà spazio per gli altri partiti. Sull’Unità del 2 aprile Togliatti scriverà “E’ il partito comunista, è la classe operaia che deve impugnare la bandiera della difesa degli interessi nazionali che il fascismo e i gruppi che gli dettero il potere hanno tradito.

Il 22 giugno 1946 per celebrare la nascita della Repubblica italiana, Palmiro Togliatti, firmò la cd. amnistia Togliatti definita “colpo di spugna sui crimini fascisti»; amnistia che interrompe i procedimenti giudiziari nei confronti di criminali fascisti e imputati di «reati di collaborazione con i tedeschi».

L’amnistia che chiudeva la svolta di Salerno divenne grazie ad un’interpretazione estensiva della magistratura un generalizzato perdono, applicato anche a torturatori e ad assassini. Piero Calamandrei definì l’amnistia un clamoroso errore della nuova classe dirigente italiana, gravido di conseguenze.

Consapevole del radicamento della Chiesa cattolica in tutto il paese ebbe in grande considerazione le gerarchie vaticane  e con l’approvazione dell’art. 7 della Costituzione provò a mitigare l’ostilità della Chiesa verso i comunisti. L’ inclusione dell’ articolo 7 nella Costituzione, osservò Benedetto Croce, “è uno stridente errore logico e uno scandalo giuridico“. Accorata la perorazione di Piero Calamandrei: “La pace religiosa esiste. Se volete alterarla votate l’ articolo 7

Piero Nenni così commenterà il voto dei comunisti : “E’ cinismo applicato alla politica. Ma non è il cinismo degli scettici, ma di chi ha un obiettivo e non vede altro. E’ la svolta di Salerno che continua, applicata questa volta alla Chiesa e ai cattolici…“. 

Fu sempre Togliatti che fece bocciare con un artificio tecnico la proposta  di Mortati di inserire l’obbligo del sistema elettorale in Costituzione e di far approvare il sistema maggioritario al senato.

Dopo aver combattuto Tito definito “un tirannello Jugoslavo”, si recò personalmente in Jugoslavia per stringergli la mano non appena Mosca lo riabilitò.  Sempre dalla parte dei vincitori fu nell’immaginario collettivo considerato un nemico dei padroni, ma egli stesso fu un padrone severo con i suoi sottoposti. Nel partito Comunista Italiano non esisteva l’opposizione. Quanti compagni si scoprirono agenti dell’OVRA a loro insaputa solo per essere stati troskisti.

Il pensiero di Togliatti era un non pensiero e nella sua biografia non è possibile rintracciare alcun contributo teorico anche se con lui il PCI ha sempre raccolto valanghe di voti. Questi voti però non hanno contribuito significativamente nell’evoluzione della società italiana del dopoguerra condizionata positivamente dal compromesso fra la Democrazia Cristiana e il partito socialista.

La fortuna del partito Comunista fu dovuta in gran parte all’impotenza del partito Socialista che nel dopoguerra non riuscì ad attrarre i sindacati, il movimento cooperativistico, e perdette l’egemonia nelle amministrazioni locali di sinistra.

Certo il PSI non disponeva dell’appoggio internazionale dell’URSS e Togliatti da grande stratega quale era organizzò un gande partito efficiente compatto, con un grade giornale di massa “L’Unità” grandi pubblicazioni per la massa e per gli intellettuali. Per lunghi periodi potè contare anche sull’alleanza del PSI considerato un partito subordinato.

Con la forza politica che aveva e con l’organizzazione di tipo militare che era stata messa in piedi il PCI avrebbe potuto essere una reale alternativa alla DC ed imprimere alla storia italiana una ben  altra evoluzione.   La cultura italiana per oltre cinquant’anni è stata  monopolio esclusiva degli intellettuali comunisti. Malgrado ciò e con tutta la sua potenza di fuoco il PCI non è riuscito ad ottenere l’attuazione della Carta Costituzionale ed oggi stiamo ancora scontando questa sconfitta.

Togliatti disprezzava il riformismo e il massimalismo dei socialisti, ma quale risultato ha dato l’azione del PCI diverso dall’impotenza dei massimalisti? Se il movimento operaio  attratto dalla seduzione del Pci si è trovato isolato ed è stato spinto verso la DC e i partiti delle classi medie è stato solo ed esclusivamente per una scelta politica del PCI, che non ha voluto mai promuovere alcun sviluppo democratico e socialista della società.

Dei massimalisti Turati ebbe a dire nel congresso socialista di Bologna del 1919 “Il massimalismo è il nullismo, e il massimalismo è la corrente reazionaria del socialismo.” Questa definizione si adatta perfettamente alla personalità di Togliatti.

La domanda allora è perché malgrado la forza elettorale, il radicamento sul territorio, la presenza organica nelle fabbriche, l’essere stato il maggior partito comunista occidentale il PCI non ha combattuto una battaglia realmente socialista? Forse perché il Pci  nell’assumere posizioni a parole sinceramente socialiste nei fatti si smentiva perché quelle posizioni erano solo tattiche e strumentali. Il PCI non avrebbe mai contraddetto le indicazioni che provenivano da Mosca e queste indicazioni erano in contraddizione evidenti con i principi che venivano enunciati in Italia.

Togliatti era l’artefice e nello stesso tempo il prodotto di questo risultato politico negativo. Uomo freddo senza vera passione politica fu u costruttore politico ed amministratore accorto del patrimonio che gli era stato affidato. Non si può certo dire che sia stato un rivoluzionario di professione, piuttosto un burocrate attento a rispettare le direttive di Mosca.

 L’impotenza del PCI  è dimostrata dalla sua storia e dalla sua fine ingloriosa.

Riprendendo  le parole di Goethe mi sia consentito, ora che la  differenza fra comunisti e socialisti non ha più senso, invitare tutti quelli che hanno a cuore la democrazia di fare: più luce, più luce!

Ad esempio la subalternità del micro PSI di adesso al PD senza nemmeno quel senso critico del Nenni di allora che individuata il cinismo del PCI e Togliatti di predicare in un modo socialista ma di praticate in senso contrario.

La disputa coi socialisti massimalista di allora che oggi sarebbero stati come Craxi si oppose alla privatizzazione vergognosa della SME mentre il PDS DS favorì privatizzazioni delle grandi imprese anche in settori strategici espellendo lo Stato dal capitale come in Autodtrade e Telecom che nessun paese eutopeo… men che meno Francia e Germania ha fatto, al di fuori dell’Italia hanno fatto.

agosto 17, 2022

Cosimo D’Aggiano

 di Antonella Ricciardi.

L’appello di Antonella Casafina prende le mosse da un caso specifico, pur avendo un valore più generale, universale: il marito, Cosimo D’Aggiano, è stato coinvolto in una tragica colluttazione che ha portato, involontariamente, alla morte di un uomo, Cataldo Pignatale. Cosimo D’Aggiano, secondo la documentata ricostruzione di Antonella Casafina, alterato mentalmente dalla droga, chiedeva  un passaggio, preso dal panico poiché doveva rientrare a casa ad una certa ora,  per vincoli giudiziari legati a piccoli reati connessi alla tossicodipendenza; non vi erano più mezzi pubblici disponibili, da Faggiano a Taranto: aveva cercato di ottenerlo appunto da Pignatale, sotto la minaccia di un taglierino, che era in realtà un suo strumento di lavoro: il comprensibile panico dello sventurato Cataldo Pignatale aveva portato, quindi, al ferimento mortale della stessa vittima. Un omicidio, quindi, forse preterintenzionale, certamente non premeditato; Lo stesso D’Aggiano era stato ferito nella colluttazione, dalla reazione dello sventurato Pignatale…Tanto che i carabinieri, quando era stato condotto in carcere, avevano precisato di non avere picchiato loro il D’Aggiano. Omicidio quindi, involontario. Cosimo D’Aggiano, che si era costituito dopo la tragedia, era stato condannato inizialmente all’ergastolo, in un processo in cui si era fortemente fatta sentire la pressione esasperata del pubblico; pena poi ridotta a trent’anni; una pena, quindi, meno estrema, pur non tenendo conto di diverse situazioni che potevano essere considerate attenuanti. Pena, comunque, accettata con serenità e forza d’animo da Cosimo D’Aggiano, il cui pentimento interiore è profondamente presente nella coscienza; Cosimo D’Aggiano chiede, però, di poterla scontare con dignità, magari lavorando perfino gratis, se necessario. Attualmente, invece, Cosimo D’Aggiano si trova nel carcere di Foggia, dove, a lui e ad altri detenuti, sono drammaticamente precluse le attività di recupero previste dalla legge stessa: tra topi, scarafaggi e blatte, in una inattività che rischia di fare impazzire. Il carcere registra un record di suicidi; inoltre, allarmante anche la situazione sanitaria, per cui, in troppi casi  le cure prestate sono troppo poche: minime e non specialistiche, mentre in molti casi sono necessarie cure esterne come denunciato dai medici.  Sette finora sono stati i rigetti della richiesta di trasferimento: pratiche spesso istruite con notevole ritardo. La famiglia D’Aggiano-Casafina accetta assolutamente che vi sia una pena, ma chiede che possa venire vissuta con dignità, in un carcere differente da quello di Foggia. Lo sa bene Antonella Casafina, che, con straordinaria umanità, esprime una mirabile filosofia, per non aggiungere male al male: la guida l’amore per un uomo che non vuole abbandonare, nel momento più difficile della sua vita.

Antonella Casafina aveva già vissuto momenti molto bui: nata in una famiglia disastrata, in cui gli abusi di tutti i tipi erano pane quotidiano, ha impostato la sua via secondo parametri che prendono le distanze proprio dal male subito, impegnandosi per dare invece bene ai suoi figli ed alla società, in generale. Impegnandosi, così, nei lavori più duri, pur di vivere in modo dignitoso e onesto. (attualmente è operatrice ecologica), Antonella Casafina comunica, così, una immagine differente di Cosimo D’Aggiano. Si chiarisce, in particolare, quanto Cosimo D’Aggiano, la cui indole, quando non alterato dalla droga, era pacifica ed altruista, per cui era prima impensabile un omicidio, abbia avuto un percorso in cui aveva cercato molte volte di uscire dalla tossicodipendenza, e di lavorare operosamente. Orfano di madre a soli 15 anni, con rapporti tormentati con la matrigna ed il padre, che si era allontanato, nonostante l’amore che pure c’era, Cosimo aveva cercato punti di riferimento in persone più grandi, che purtroppo lo avevano sviato con la droga. Cosimo D’Aggiano aveva trovato nuova serenità proprio grazie all’amore di Antonella Casafina, ragazza madre all’epoca ventenne, e con due bambini piccolissimi, con la quale aveva avuto a sua volta due figli. La figura materna era stata ricordata a Cosimo nella suocera, accudita con dedizione affettuosa; inoltre, il giovane si era effettivamente impegnato in numerosi lavori, con buona volontà, tra cui trattorista, macellaio, muratore, operatore ecologico ed addetto alle pulizie dei condomini, giardiniere, bracciante. Purtroppo però, e nonostante i ricoveri al Sert, a tratti il mostro della dipendenza da droga, prima eroina, poi cocaina, tornava a devastare la sua vita.

C’è qualcosa di non abbastanza rimarcato in precedenza dalla stampa sul caso di tuo marito, e qual è stata la dinamica esatta del tragico reato per il quale era stato poi condannato tuo marito?

Dal volontariato nella protezione civile era molto apprezzato. Purtroppo a fine 2013 Cosimo ha una brutta ricaduta nei problemi di tossicodipendenza in cui era già incorso, e non si riesce a far riprendere il controllo della situazione, in quanto il SERT che lo seguiva prese con superficialità la mia richiesta di aiuto, poiché mi ero resa conto che mio marito aveva dei problemi ed andava aiutato subito, ma venni liquidata. Mi venne detto che era tutto sotto controllo e che erano solo tutte mie paranoie. Purtroppo nel luglio 2014 l'epilogo peggiore paventato da me si è verificato. Mio marito, Cosimo (Mimmo) D'Aggiano, per procurarsi la cocaina, si recava in Taranto, dove, dopo averne fatto uso, perdeva la cognizione del tempo, e resosi conto verso le 22 che non avrebbe fatto in tempo a tornare a casa (distante 35km) per mancanza di mezzi pubblici (essendo sottoposto a sorveglianza doveva trovarsi nel domicilio alle 22), ebbe una crisi di panico… Dopo aver abusato di cocaina e in preda alle allucinazioni si introdusse in una vettura con un uomo all’interno: minacciandolo con un taglierino gli chiese un passaggio a casa. Voleva solo un passaggio. Voleva solo tornare a casa. Quest’uomo anch’egli in preda allo spavento, ovviamente preso dal panico si diresse in tutt’ altra direzione, portando Cosimo ad essere ancora più nervoso. L'uomo si fermò in una stradina di campagna ormai a notte inoltrata, scese dall’auto e tentò di chiudere dentro Cosimo e chiamare i carabinieri. 

A quel punto Cosimo scese dall’auto e iniziarono a lottare: purtroppo quest’uomo ebbe la peggio, venendo ferito a morte dal taglierino che il D’Aggiano aveva sempre con sé, come attrezzo da lavoro, (premetto anche che l’intento del D’Aggiano non era la rapina in quanto era nella sua disponibilità un bancomat.) Purtroppo Cosimo non si era reso conto che l’uomo era morto subito, causa una emorragia, dovuta al taglio vicino la gola e tentava di mettere l’uomo in auto per prestargli soccorso, ma non ci riusciva visto anche il suo stato psicofisico. La storia proseguì, con il D’Aggiano che telefonò al figlio maggiore, spiegando in maniera confusa l’accaduto e chiedendo di andarlo a prendere. Nel frattempo mi avvisarono, ed a mia volta chiamai i carabinieri e li avvisai della decisione di mio marito di costituirsi.

Puoi spiegare qualcosa del percorso di tentativi di disintossicazione dalla droga di tuo marito?

Mio marito si trovava sotto l’effetto di stupefacenti, perchè lui, comunque, era un tossicodipendente, seguito dal Sert, e comunque, in quel periodo, si trovava sotto forte pressione, in quanto era ricaduto. , Quindi, in un certo senso, si sentiva in colpa, si vergognava… ma nello stesso tempo si sentiva preso da questo schifo che è la tossicodipendenza. Quindi era in conflitto: era in conflitto con la famiglia, con noi: infatti, in quel periodo litigavamo, perchè io cercavo di spronarlo a farsi sentire con Sert, da psicologi e quant’altro. Io ho chiesto aiuto al Sert, ho chiesto all’Uepe, ma sono stata presa sottogamba, alla leggera. Io avevo capito che mio marito non stava bene, in quanto, conoscendolo, vedevo che sembrava un’altra persona. Sembrava come se, in realtà, fosse doppio, e anche mia figlia, in realtà, se ne accorgeva: in un episodio, dove tornò a casa, e mia figlia era con sua cugina in cucina, stette pochi minuti, mio marito, in casa, poi uscì di nuovo, e mia figlia disse a sua cugina: “Quello non era mio padre”. E la cuginetta le rispose: “Ma che stai dicendo? Io lo vedo sempre uguale”, ma mia figlia rispose: “Quello non è più mio padre”, cioè, per noi che lo conoscevamo, si vedeva chiaramente che non stava bene. E avrei voluto veramente che qualcuno ci aiutasse, ci tendesse una mano, si schierasse dalla mia parte, ma purtroppo è stato tutto contro di me, tutto contro di noi”.

Il processo si è svolto in un clima surriscaldato da una forte pressione di una parte dell’opinione pubblica; puoi raccontare qualcosa di alcuni toni che richiamano i linciaggi, utilizzati in alcuni commenti sul web? Toni che andavano oltre la legittima richiesta di giustizia, ma che, a volte, auspicavano reati violenti perfino ai danni di voi, familiari innocenti.

Riguardo il processo, sì, effettivamente si sarebbe dovuto svolgere in un’altra sede, magari fuori regione: perchè comunque è stato fatto un processo con i giornalisti, l’opinione pubblica: era tutto molto cattivo, tutto contro d noi. Io capisco comunque che non era qualcosa di facile, era un reato grave: comunque sia, era tutto accentuato: questo me lo disse anche il mio avvocato dell’epoca, infatti mi spiegò: “Non ti spaventare, non ti atterrire, perchè in primo grado prenderà certamente l’ergastolo, perchè comunque l’opinione pubblica è terribile, è tremenda”. Questa persona, la vittima, era molto conosciuta nella città di Taranto, aveva fatto beneficenza, e comunque era di buona famiglia, era stimato, era quant’altro… Poteva permettersi i migliori avvocati, di tutto. E quindi, se mettiamo sulla bilancia una persona del genere, e mettiamo sulla bilancia un paesano, tossicodipendente, contadino, senza arte nè parte, la bilancia pende tutta dall’altra parte: è ovvio che era tutto contro mio marito, e ne ero consapevole. E proprio per questo volevo che i giudici fossero imparziali, che giudicassero la situazione com’è andata, da tutti i punti di vista. Ho chiesto di sequestrare le telecamere, che erano sul fotovoltaico dove è successo, dopo, purtroppo, lo sfortunato incidente. Purtroppo, la sfortuna ha voluto che le telecamere erano disattivate. Io ho cercato di fare vedere la vicenda sotto l’aspetto effettivo, ma purtroppo era tutto contro di me. E quindi, il processo si è svolto sotto queste premesse, e già sapevo che sarebbe andato tutto male; inoltre, io e la mia famiglia, i miei familiari, la mia bambina, eravamo sotto attacchi molto cattivi, violenti, verbali. Figurati che in un giorno in cui io ero in caserma, perchè volevo capire, poichè io ero all’oscuro di tutto, un carabiniere mi disse: “Corri a casa, corri a casa, che se vengono i familiari, ti picchiano”. Allora io andai a casa, e mentre andavo, mi chiedevo: “Perchè mai devono picchiarmi? Che ho fatto, che è successo?” Cioè il clima era proprio agitato, e però di persone ce n’erano tante, che conoscevano Mimmo com’era, che mi mandavano messaggi in privato, però non si esponevano, giustamente, perchè c’era un linciaggio mediatico: spaventoso, spaventoso… di tutto e di più. Ripeto, anche sulla mia bambina, sui miei figli: sono stati chiamati “progenie di vipere”..

Durante il processo, io non sono mai andata, perché, dicevo, se vado durante il processo, e sento altre cose, rischio di svenire sicuramente. Per questo, non ci sono mai andata; però, mi ha raccontato l’avvocato in che clima si è tenuto, e che era tutto contro di lui, ovviamente…perchè era un pregiudicato, perchè aveva avuto degli altri reati violenti per via della tossicodipendenza, e così via. Allora io ho richiesto una visita medica dal Vito Fazi di Lecce, da uno specialista. Ho richiesto questa visita: questa perizia è stata fatta, però…non è stata ammessa, perchè in pratica mio marito, anche dopo l’arresto, non lo vedevo nelle giuste condizioni: lo vedevo confuso, lo vedevo che si scordava le cose, mentre parlavamo mi diceva una versione, me ne diceva un’altra. Poi pensa che, da Sava a Manduria, che ci sono, sì, e no, sei kilometri, nella caserma di Sava mi ha dato una versione, nella caserma a Manduria mi ha dato un’altra versione, quando sono andata a trovarlo a Taranto me ne ha data un’altra, dopo pochi giorni, a Lecce un’altra ancora. E quindi era confuso; qualcuno potrebbe dire vabbè, è bugiardo, ma non aveva intenzione di dire cose false, ma nei fatti confondeva le date… Alle volte, mia figlia, la grande, mi guardava, e mi diceva: “Mamma, papà non sta bene”. Poi anche tutt’ora, che son passati molti anni, molte cose le ha rimosse, non ricorda…ma non cose relative all’omicidio, relative proprio alla nostra vita in comune: è come se ci fosse qualcosa che lui ogni tanto ha cancellato.

C’è qualche precedente specifico che ha peggiorato la situazione giudiziaria di Cosimo, che forse doveva essere chiarita meglio?

Sì, c’è un precedente specifico, che deve essere chiarito, che riguarda la posizione specifica di mio marito; secondo me, è stato quello che ha aggravato la situazione, perchè mio marito è stato preso per una persona violenta, irascibile, e quant’altro: nel 2009, commise un reato, inizialmente valutato in tentato omicidio, poi ridotto a lesioni gravi. Tanto che per quell’arresto, mio marito ha preso otto anni e due mesi: si è fatto, sì e no, due mesi di carcere, poi ha scontato tutto fuori. Ed è stato quello il periodo in cui lui è cambiato: è stato benissimo.

Il problema sul caso del 2014, invece, a è che, pur avendo le attenuanti, a mio marito, non sono state proprio riconosciute; anzi, il giudice disse, durante l’udienza, sul fatto che si era consegnato, e quant’altro, aveva detto: “Adesso che cosa vuole, una medaglia?” E quindi le attenuanti non sono state proprio prese in considerazione, bensì sono state aggiunte le aggravanti; aggravanti che io contesto, che sono state contestate, ma non sono cadute.

Ora ti racconto il fatto del 2009: in quell’anno, una persona, anche questa tossicodipendente, purtroppo (ora per fortuna non lo è più), venne a trovarci. Nel mio paese, come in tutti i paesi, ci sono le prostitute, in campagna. Una sera, mio marito, e questa persona, con la mia macchina, andarono a comprare cocaina, per usarla, e si appartarono per usarla. Questa donna, vedendo due uomini, in campagna, che si avvicinano con la macchina, aveva pensato che stavano andando lì per lei, ha aperto lo sportello e si è seduta in macchina. Ovviamente, avendo paura di essere visti con una prostituta in macchina, l’altra persona ha aperto lo sportello, e mio marito l’ha spinta per farla scendere. Andando un punto indietro, bisogna dire che questo purtroppo era il suo modus operandi, in quanto un mio collega, andando in campagna, a raccogliere le olive, a fare i lavori, un giorno mi stava raccontando che andò lì e purtroppo questa donna entrò in macchina e non voleva scendere, dicendo: “Questa è zona mia, che sei venuto a fare?” Ed altro. Tornando alla situazione con mio marito, la signora è caduta, e cadendo ha sbattuto per terra. Ora, l’altro uomo, con mio marito, sono scappati; l’altra persona era  incensurata, mio marito si è preso la colpa di tutto… che poi c’è da dire, che la signora, quando è stata portata in ospedale, ha fatto il riconoscimento: non si sapeva che era mio marito, non si sapeva niente…ha indicato tutt’altra persona, che noi conoscevamo, anche…e mio marito si è sentito in dovere di aiutarla. La macchina era la mia, comunque mio marito ha detto: “Sì, sono stato io”, però comunque non ha detto dell’altra persona.  Ha detto solo che era andato lì, e stop. Poi, ha preso la condanna: ha preso otto anni e due mesi, è stato sì e no tre-quattro mesi in carcere, e poi ne è uscito. Anche in quel periodo ci furono voci infondate, fuori controllo: che andava con le prostitute, che voleva ammazzarla. Naturalmente non era così; lei aveva solo delle escoriazioni sulle mani, ma venne dipinta come se fosse stata in fin di vita: cosa che non era. Evidentemente, il giudice lì, vendendo che era una prostituta, ha visto le cose come stavano. Infatti, lei voleva anche il risarcimento, il suo avvocato voleva anche il risarcimento, perchè lei non aveva potuto lavorare, non aveva potuto svolgere il suo servizio, ma il giudice disse no, niente di fatto. Adesso, quando invece è successo, nel 2014, l’omicidio, purtroppo, si è andato a ritroso a riprendere questo episodio, che ha influito in modo pesante sulla situazione, perchè è stato detto: “Ecco, aveva aggredito un’altra persona, ecco era una persona violenta, ha fatto questo, ha fatto quello”. Certo, non era la stessa cosa: e perchè allora per quel caso hanno dato otto anni e mesi, e nell’altro trent’anni? Perchè uno era un ingegnere e lei era una prostituta? E’ che nell’applicazione della legge italiana, dico io, si sono fatti due pesi e due misure.

In che modo attualmente Cosimo si pone nei confronti del suo reato e della sua pena? Quali i suoi reali sentimenti, che forse hanno avuto poco spazio sulla stampa? Sull’onda di emozioni certamente comprensibili, ma unilaterali.

Attualmente Mimmo, nei confronti della sua pena, si pone con molta serenità, in quanto, già dall’inizio, sapeva che doveva essere condannato e doveva scontare una pena: su questo non c’è dubbio. Lui l’ha presa appunto con serenità, con rassegnazione, ma anche con forza, con determinazione, con speranza…e con forza anche da parte di tutti noi, certo. Lui si pone così nei confronti della sua pena: non ha mia voluto scappare dai suoi doveri, da ciò che lui doveva fare, e quindi, anche se su qualche singolo aspetto poteva pensarla diversamente, ha sempre accettato di buon grado tutto questo. L’unica cosa è che lui vorrebbe poter scontare la sua pena in modo umano, in modo dignitoso: vorrebbe poter contribuire in modo dignitoso alla famiglia, alla società: vorrebbe poter lavorare, anche gratuitamente; vorrebbe potere fare dei lavori per la società, per il carcere, per qualsiasi cosa, naturalmente per noi della famiglia. Vorrebbe poter fare i colloqui, sì, e nello stesso tempo potere avere tutto ciò che la legge consente: cosa che purtroppo, essendo lui ristretto a Foggia, non può fare nulla di tutto questo, anzi… Questo lo fa sentire inutile, lo fa sentire di peso, lo fa sentire mortificato, più di quanto dovrebbe esserlo.

Vi siete sentiti soprattutto abbandonati in questa disavventura, avete avuto anche vicinanza da volontari, associazioni, singoli?

Diciamo che, quando è successo tutto questo, noi siamo stati quasi totalmente abbandonati: sia da volontari, associazioni, sia da singoli; hanno preso le distanze, assolutamente. Diciamo che tra i pochi che ci sono rimasti accanto, ci sono le persone che lo conoscevano veramente, le persone che lo hanno conosciuto come lavoratore, come vicino di casa, come amico. Sì, da questo punto di vista ci sono rimaste accanto: sia all’inizio, sia anche adesso, dopo otto anni, c’è gente che, una-due volte a settimana, manda messaggi anche dalla Francia, ho avuto anche aiuti economici di suoi amici, che mi hanno aiutata, senza chieder nulla. Diversi hanno cercato di aiutarlo in qualche maniera; c’è mia nipote che vive in America, lei, poveretta, non sapeva nulla di leggi italiane, mi aveva chiesto a quanto ammontava la cauzione, per poter pagare, ma io le ho detto che in Italia non esiste cauzione. Tra coloro che lo conoscevano, e mi è stata accanto, ci sono stati anche gli edicolanti del mio paese, che non hanno esposto locandine e quant’altro, per non turbare i ragazzi, in particolare la bambina: solamente uno su dieci, ma ci sono stati. Gli altri, che ci hanno attaccato, erano estranei: soprattutto nei centri piccolo, parlano solo per dare aria ai polmoni, e basta.

C’è qualcosa che desideri evidenziare in più su questa vicenda, e sul suo significato generale?

Sulla stampa, diciamo che su alcune questioni non è stato detto niente di vero; si sa che i giornalisti comunque devono aumentare le cose, in modo da poter vendere il giornale, e per rendere più appetibili le notizie, questo sì… Però, molte volte, il quadro che ne è venuto fuori non era raffigurante mio marito, assolutamente no: non era come lo abbiamo vissuto noi. Non gli sarei rimasta accanto, con una condanna così alta, se non fosse stato una persona così amorevole, così buona… Che ti devo dire, io vorrei che tu parlassi con mia madre, che è un’anziana donna di 81 anni; lei dice sempre: “Quello che mi ha fatto Mimmo, non mi hanno fatto i miei figli…” . Mio marito, ogni pomeriggio, andava da mia madre, per lavarle i piedi, per tagliarle le unghie, cioè per cose che, magari, le mie sorelle non fanno. Mio marito era così, ma non perchè gli venisse chiesto: lui amava queste cose. Certe volte io lo chiamavo, quando tornava dal lavoro, e gli chiedevo: “Dove sei?” e lui diceva: “Sono dalla mamma”. Io chiedevo: “Ma sei sposato con la mamma?”, così, scherzando, perchè era fatto così, cioè tutti i giorni doveva passare dalla mamma, per vedere, chiedere: “Stai bene, hai bisogno di qualcosa? Cioè era fatto così; se stava a letto a dormire, e lo chiamava un estraneo, per dire: “Mi è scoppiata una ruota”, lui correva. Era fatto così, questo non è stato detto, non è stato detto. Questo non giustifica l’atto, non voglio dire che visto che era una brava persona si giustifichi, no, però voglio dire a certe persone: “Non è giusto che dipingete una persona per quella che non è”. Non era un leone ruggente che andava in giro cercando di divorare qualcuno: lui non voleva uccidere questa persona, non aveva niente contro questa persona, non la conosceva nemmeno. Gli sono state date le aggravanti per futili motivi, ma i futili motivi non c’erano, perchè non c’erano proprio motivi, perchè lui non voleva uccidere. Ci si può chiedere: “Ma perchè era lì con il taglierino?” Ma voi non lo conoscete, lui andava sempre in giro con giraviti e taglierini; ce li aveva sempre, perchè, dovunque si trovava, lo chiamavano di qua, di là. Non aveva intenzione di rapine ed altro, anche perchè è stato trovato tutto in macchina, nella macchina di quest’uomo. E quest’uomo è morto, ma se fosse vivo lo direbbe. Perchè mio marito non voleva niente, quest’uomo diceva: “Prendi il portafogli, prendi il computer”, ma mio marito continuava a dire: “Voglio tornare a casa”. Mio marito aveva un bancomat, mio marito aveva un suo budget. Non ha senso che lui è andato lì ed ha ammazzato questa persona, e gli hanno messo i futili motivi: non c’erano motivi, non c’era alcun motivo. Quello che il giudice non è riuscito a capire e l’avvocato non è riuscito a spiegare, non lo so, o quant’altro, era che è stato purtroppo un incidente: un maledetto incidente; sono state delle coincidenze che si sono messe insieme, un destino, non lo so… Perchè comunque, se quest’uomo gli avesse dato questo questo maledetto passaggio, quest’uomo era vivo, era vivo. E poi, se anche non gli voleva dare il passaggio, se scappava dall’auto e andava via poteva andare diversamente, ma rimanere a litigare con qualcuno che non si conosce…e se mio marito avesse avuto una pistola?  Ma armi da fuoco non ne aveva, benchè la vittima non lo potesse sapere… E comunque, non è stata rimarcata questa situazione: mio marito non voleva uccidere nessuno, voleva solo tornare a casa.

Attualmente Cosimo, che accetta in modo costruttivo la sua pena, vede ostacoli al suo percorso di recupero, sancito anche dall’articolo 27 della Costituzione: puoi esporre cosa sia accaduto e cosa auspicate?”

La situazione attuale di mio marito in carcere è una situazione pessima e tragica. Come ho già detto, lui si trova nel carcere di Foggia, dove si è recluso da circa due anni… E a Foggia non lavora, non frequenta corsi, niente, nè scuole, non fa colloqui con l’educatore, con l’educatrice, nè psicologo; non ha possibilità di curarsi nella mente, con qualcosa di psicologico, ma nemmeno nel corpo perchè là non si va oltre la tachipirina. E’  tragica per il covid, vabbè, perchè è pieno; non hanno frigoriferi, per poter avere un biccher d’acqua fresca in questo periodo. Non effettua colloqui, perchè siamo lontani; non ci sono ventilatori, non c’è alcuna possibilità di reinserimento, di fare un giusto percorso, di fare niente. Può stare solamente in cella, quasi 24 ore su 24, a pensare e a uscire fuori di testa. Questa è la situazione oggi. Io mi auguravo che comunque scontasse una pena, come è giusto, e anche voluto da lui, ma in un carcere dove lui non considerasse il suo tempo, un tempo perso, ma quantomeno poter contribuire a un aiuto alla famiglia, a un sostentamento, a un reinserimento, a un percorso: questo è quanto.

Manca la volontà di adeguare queste strutture, di mettere personale, di far sì che le cose siano più vivibili. Ce ne sono tante cose che vengono in mente a me, persona diciamo, fra virgolette, ignorante, che si potrebbero fare, con un po’ di volontà, e per rendere la pena più agibile, sia per loro che per i familiari. Comunque, ripeto, gli istituti di pena, le carceri, sono luoghi dove le persone vanno a scontare una pena che gli è stata inflitta dal giudice, e va bene così, ma non è un luogo dove si vada per essere puniti giornalmente.  Invece, nei fatti sono luoghi dove la dignità viene mortificata, per la mancanza di acqua, la mancanza di doccia, la mancanza di ventilatori, si vive fra sporcizia, blatte e topi… se si hanno soldi ti compri da mangiare, se no guardi il Sole, quando esce e quando entra… E tutte queste cose qua non ci dovrebbero essere in un mondo civile, in un Paese civile, anche con le persone che hanno sbagliato. Vediamo un po’ i canili (ed io sono un’animalista convinta): non è che possiamo dire, vabbè, sono cani, e li teniamo rinchiusi nelle gabbie roventi, senz’acqua, senza niente: e questo non si fa… E questo non si fa nemmeno per i detenuti, che comunque sono persone che hanno sbagliato, ma sono comunque sempre persone. Quindi, se noi non gli abbiamo dato la pena di morte, e gli abbiamo dato una pena da scontare, gliela dobbiamo far scontare questa pena, ma in modo dignitoso, altrimenti a questo punto si rimette la pena di morte, si uccide e ci si toglie il pensiero, ma a che cosa serve? Questa situazione non si deve accettare.  Poi, i detenuti, a mio parere, creano comunque un’entrata allo Stato: lascia perdere gli avvocati, e quant’altro, quelli che comunque ci mangiano sopra, ma anche nelle carceri, perchè i familiari portano il cibo, i familiari portano i soldi per quello che serve, addirittura se una persona si fa male, ha bisogno di gesso, di un tutore, lo deve comprare, e se non ha i soldi, non lo comprano e non glielo mettono, ma di cosa si sta parlando? Non è garantito niente, io penso che sia la mancanza di volontà, assolutamente…perchè, con un po’ di volontà, non dico che tutto andrebbe bene, però il 60%, il 70% di questi problemi andrebbero risolti subito, e con facilità…Però, manca l’interesse, manca la volontà, perchè comunque i nostri politici sono quasi tutti giustizialisti…finchè non capitano loro  in certe situazioni, perchè quando capitano a loro, accidenti….Però c’è anche da dire che quando capita a loro, loro ce li hanno i soldi per vivere una vita dignitosa là dentro, mentre noi familiari facciamo i salti mortali per poter mandare 50 euro a settimana, per poter far la spesa. Non va bene questo, non va bene, non è così, perchè comunque, se mio marito ha sbagliato, la pena la deve pagare lui, non la devo pagare io.  Per dirtene una, mio marito sono due anni che è in attesa di fare un intervento alla coliciste: lo portano in ospedale, gli fanno fare la flebo, per i dolori, e lo riportano in carcere; riguardo questo intervento, l’ultima volta il medico aveva detto: “Si deve fare assolutamente”, c’è il rischio, a parte che gli venga una colica là dentro, che finchè si organizza la scorta, ci voglia tempo,  finchè si porta in ospedale, come arriva, come non arriva, non lo sappiamo. Per cui sono due anni che mio marito ha bisogno di fare questo intervento di colecisti, e non viene portato in ospedale…cioè sono tante di quelle cose, tante. L’ultima volta aveva bisogno degli occhiali, e sono stata io a comprargli gli occhiali, fargli la richiesta, a spedirglieli…cioè no, non va bene così. Mio marito ha fatto tanto bene, a tutti: tantissima gente se lo ricorda; poi ha fatto un errore grande, accidenti, però non è giusto che per quell’unico errore si debba cancellare tutta la sua vita, in cui ha fatto del bene. Nonostante che lui avesse problemi, però cercava sempre di aiutare gli altri. Sì, sono di parte, è mio marito, lo amo, però anche se fosse un estraneo…cioè non è che parlo così singolarmente: quanto dico vale anche per altre persone.

Forse sono strana io, però sono stata sempre così, non solo perchè mi ci trovo dentro. Anche nei fatti di cronaca, io guardo sempre l’altro lato, non so perchè, se è questione di empatia, se è questione che sono nata “sbagliata”, sono nata “dall’altra parte”, non lo so. Però…io guardo sempre l’altro lato: io mi chiedo sempre: “Perché è successo? Come mai? Cosa è scattato, cosa non è scattato?  Che cosa poteva essere fatto, che cosa è cambiato? Io credo che c’è sempre qualcosa oltre le apparenze. Tranne nei casi in cui una persona abbia problemi mentali conclamati, non è che una persona si alza al mattino, e dice, vabbè divento cattivo, e incomincio a fare del male a tutti: non credo in questa cosa; io credo che comunque ognuno di noi è portato a fare del bene, è portato a fare del male. Anche una persona bravissima e buonissima, in tutta la sua vita, sotto, magari esasperazione, sotto dolore, sotto rabbia, sotto sofferenza, può anche commettere qualcosa che, guardandosi indietro, direbbe io non l’avrei mai fatto, questo.

Vorrei aggiungere che non c’è la pena di morte, ma c’è la morte di pena, quindi non è particolarmente differente; non c’è la pena di morte, perchè non si muore subito, ma comunque c’è la morte di pena, persone che ci muoiono lì dentro. In carcere ci sono persone ultranovantenni, ci sono persone in fin di vita, terminali…cioè, quindi, non c’è la pena di morte, ma c’è la morte per pena… Quindi, un po’ di umanità ci deve essere, soprattutto per chi giudica, perchè chi giudica, lo fa verso persone che hanno fatto qualche misfatto, non è che possono giudicare persone che non hanno fatto niente. Verso quelle persone ci vogliono soprattutto un po’ di amore, un po’ di empatia. Non possono neanche venire a dire, nel caso specifico: “Come l’amore che ha avuto tuo marito nei confronti di quel ragazzo?”:

Tornando al linciaggio mediatico, sì, con Facebook, con messenger, ma poi basta leggere su Google, per vedere quello che hanno scritto i giornalisti, della storia, della vicenda, se non erro anche il “Graffio” contattò il mio avvocato, all’epoca, perché voleva fare un’intervista, ma io dissi assolutamente no, perchè non sono Michele Misseri, non mi metto in mostra così, poi non sapevamo ancora in che modo sarebbe andato il processo: che cosa vengo a fare? E quindi rifiutai. Tornando al linciaggio, c’è stato, verso di me, verso mia figlia, verso i familiari, i conoscenti…verso tutti…ma tutt’ora, oggi. Ora ti spiego una situazione che mi era accaduta l’anno scorso: ero entrata in un bar, a prendere un caffè, durante l’orario di servizio, e fuori, a fianco al bar, c’era una cosiddetta signora, che fumava una sigaretta, che parlava con un mio collega; parlavo anch’io con questo mio collega. Si parlava con questo collega del fatto del covid, non stanno facendo niente per gli ospedali, non stanno facendo niente per le persone anziane, e io dissi: “Se è per questo, non stanno facendo niente nemmeno per i detenuti”. Questa signora si volta verso di me e mi dice: “Fosse per me, potrebbero morire tutti, i detenuti: perchè sono la feccia dell’umanità, sono quelli che sporcano il Paese”. Io la guardai in faccia, e le dissi: “Forse stai parlando così perchè non hai nessuno, o non conosci nessuno, o comunque non hai nè marito nè figli”; lei rispose: “Sì, in effetti, sono single: non ho marito nè figli”. Le dissi: “Se avessi dei figli, potresti pensare che un giorno potrebbero commettere un errore, e comunque, anche se non hai figli e non hai marito, nessuno ti dà questa autorevolezza, di dover parlare in questa maniera”. Abbiamo avuto un bruttissimo battibecco: questo mi ha fatto pensare tantissimo: come può la gente pensare in maniera così brutta, così cattiva, spregevole.

Allora,  se anche non si avesse qualcuno in carcere, c’è da considerare: comunque sia, il carcere dà lavoro, dà lavoro alla polizia penitenziaria, dà lavoro agli educatori,  dà lavoro agli assistenti sociali, dà lavoro a magistrati, avvocati,, e quant’altro; è comunque un luogo dove non stanno solamente i detenuti, chi ha commesso un reato: è un luogo dove tanta gente la mattina ci va a lavorare, e la sera torna a casa… Per cui, voglio dire, di che stiamo parlando? E se non ci fossero i detenuti? Tutta quella gente, che faceva? Tutti contadini, o tutti operatori ecologici, come me? Che lavoro facevano? Cioè, non si riesce a riflettere abbastanza che c’è un mondo dentro il carcere, c’è un mondo. E non necessariamente chi sta in carcere è una brutta persona, come non necessariamente chi è libero è una brava persona. C’è tanta gente che è fuori, fa reati, e non viene arrestata, libera…ma non vuol dire questo che sia una brava persona. Quello cioè che voglio far capire io è che si sia in carcere perchè si è fatto un reato, si sia stati scoperti, o ci si è consegnati da soli. Non andare in carcere non vuol dire essere bravi; non andare in carcere, molte volte, vuol dire anche essere furbi, essere ricchi, e potersi pagare qualsiasi cosa, e non farsi prendere mai…cioè non necessariamente che chi è fuori è bravo, e chi è dentro è cattivo. Vedi, Antonella, ti faccio un esempio: io ho 49 anni, e sono nata in una famiglia atipica, in quanto comunque ero maltrattata, ho subito abusi di tutti i tipi, di tutti i generi, fin da piccola, fin dalla tenera età: dai cinque ai dodici anni, e sono scappata via di casa, sono stata per strada. Ho subito di tutto nella mia vita, nella mia infanzia. Poi, ho avuto i miei figli, sono diventata adulta; questo non mi ha portata a incattivirmi, di tutto quello che avevo passato io, di farlo passare sui miei figli: assolutamente no. Anzi, io ho cercato di riparare quegli errori che erano stati fatti su di me…ovviamente che mi hanno lasciato lo strascico, che mi hanno lasciato l’amaro, quando ci penso e quando mi ricordo quello che ho passato, quello che ho subito…ma comunque sia io ho voluto dare la parte diversa ai miei figli: ho voluto dare la presenza, l’amore, l’educazione, la famiglia, la pace, il lavoro. Proprio questo ho voluto dare ai miei figli: non si giustifica quindi che queste persone parlino con spietatezza dei detenuti, perchè comunque il male si deve troncare. Anche io potevo continuare la strada di alcuni familiari non sempre corretti, ma non volevo certo fare strage degli altri, non volevo certo il male dei miei figli, piuttosto ho voluto dire non va bene al male. Se non è andato bene per me, perchè lo dovrei fare ai miei figli? Il male va stoppato; mio marito, pure se ha fatto del male, è stato involontariamente, e voglio dire a certe persone: la soluzione mica è fare del male a lui? Poi altri lo faranno a voi: che cosa s’innesca, che cosa s’innesca? Per questo, il male va fermato.

giugno 19, 2022

Quando verrà tempo di partire.

di  Beppe Sarno

Bertold Brecht, in questa poesia  dal titolo “La guerra che verrà”, ci ammonisce sul significato della guerra.

La guerra che verrà

non è la prima.

 Prima ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.

Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente egualmente.

Il mio amico Stefano è stato definito “pacifista Putiniano”, definizione che non significa nulla dato che i due termini mal si conciliano. Mia moglie molto più simpaticamente lo ha definito “cazzone americano”, che  nel suo immaginario significa sognatore, utopista.

Per Marx l’ideologia socialista è “scientifica” e la sua coscienza trasforma la classe operaia da fatto puramente economico-sociale a fatto politico; l’ideologia, però, intesa come un sistema di idee  è “falsa coscienza” della realtà nella misura in cui chi la elabora e chi la usa non tengono conto che la sua stessa elaborazione è stata condizionata dalle strutture. In questo senso ha ragione Ferdinando Pastore quando definisce i tre leader andati in pellegrinaggio da Zelesky “Quei bravi ragazzi che consegnano la guerra.” In questo senso l’ideologia diventa alienazione: “le idee dominanti in una data epoca sono quelle della classe dominante”.

L’ideologia potrebbe essere definita un insieme di valori “mitici” che si presenta come spiegazione del tutto e che si afferma nonostante le smentite della pratica quotidiana e come tale una risposta scientifica degenerata. Non siamo d’accordo con questa definizione di ideologia nella misura in cui non ci sentiamo ammalati di ideologismo nel senso che non ci estraniamo dai problemi concreti attraverso un richiamo formale a formule legate ai sacri principi del socialismo.

L’ideologia socialista ha costituito storicamente il superamento dell’utopia socialista. Kautsky,  in Italia Costa, Turati e tanti altri ne sono la testimonianza. L’utopia ha segnato un tappa importante nella storia del pensiero socialista e non solo  e parte da lontano: essa nasce dal Rinascimento con Moro, Campanella, Bacone. Essa porta naturalmente una profonda carica rivoluzionaria e di protesta, possiede l’illuminante capacità di contrapporre la razionalità delle idee all’irrazionalità dei fatti. L’utopia è evasione dalla realtà perché pretende di insegnare ai fatti come avrebbero dovuto accadere senza curarsi di sapere perché sono come sono.

L’utopia è arrogante!

L’utopia come insieme di idee guida non sa adattarsi al proprio tempo sia come modello puro razionale sia come fine ultimo senza alcuna verifica pratica. Quando l’utopia invece si adatta al proprio tempo e si propone come un insieme di idee guida in vista di un tempo futuro allora l’utopia diventa ideologia. L’utopia non si consuma con l’offesa del tempo, la carica di speranza che essa porta rimane intatta nel tempo. L’ideologia invece si spegne. Ci rendiamo quindi conto perché le ideologie della forze politiche presenti in Italia sono entrate in crisi perché, in questa fase di rapide trasformazioni   della realtà nessuna di esse sa spiegare tutta la realtà. Il pragmatismo uccide ogni ideologia.

Il Marxismo, di fronte a queste situazioni storiche contingenti può essere, viceversa, ancora la somma di quelle idee guida che esprime principi etici e politici ancora validi: “lotta dei lavoratori collegati internazionalmente contro il regime capitalistico; superamento di ogni divisione di classe, che non potrebbe essere completo e senza residui se l’iniziativa non fosse assunta dalla classe lavoratrice appunto perché è la classe sfruttata per eccellenza, la classe che, sentendo in sé, per la riduzione dell’uomo  a salariato, cioè a merce-lavoro, la negazione della sua umanità, aspira al grande atto storico di liberazione del mondo; di qui l’esigenza della conquista dei poteri pubblici come mezzo di abolizione della proprietà capitalistica e di riorganizzazione della produzione sociale, non più in vista del profitto privato, ma dei bisogni sociali. Sono caduchi questi principi? A noi non pare affatto!”

Certo il Marxismo va concepito come momento di ricerca, come un patrimonio problematico da analizzare  e da dibattere. L’internazionalismo non è più quello della seconda internazionale, il capitalismo è mutato è diventato sempre più aggressivo, si è globalizzato. La classe operaia come può essere oggi definita ed identificata?  E’ chiaro, però, che l’apporto del marxismo  e della cultura conseguente e successiva diventa fondamentale per capire i fenomeni del nostro tempo.  La necessità dell’ideologia nasce quindi dalla costatazione che in una società fortemente ideologizzata dal sistema capitalistico internazionale questa non può essere scalzata con la semplice politica delle cose e delle iniziative virtuose. Dire che è necessario un dibattito fortemente ideologico significa ribadire il principio che “la classe proletaria diventando arma materiale della filosofia, che è la sua arma spirituale, da all’ideale etico una concretezza storica e lo fa passare dall’utopia sul terreno dell’azione realizzatrice”. (Rodolfo Mondolfo in Critica Sociale 1924, nr 1). Assistiamo oggi inermi ad una deideologizzazione per indurre la gente a non pensare, a non discutere di politica: “qui non si parla di politica “e frasi del tipo “ ma i socialisti esistono ancora?”  “ Draghi ci salverà!” . L’unico scopo di queste frasi ad effetto è quello conservatore di non mutare lo status quo.

Il socialismo mira all’abolizione della miseria e a creare uomini liberi e uguali rendendo al lavoro quella dignità scritta nella nostra Costituzione. L’ideologia liberista tende invece a espellere queste ambizioni cancellando dalla storia il socialismo definendolo un’utopia irrealizzabile e dannosa per la società.

Un precisa ideologia socialista viceversa ci avverte che, malgrado la pubblicità sui giornali mass media, televisioni e altri strumenti di manipolazione di massa ci faccia vedere il mondo come il miglior mondo possibile, il nostro destino di uomini è in mano altrui. Combattiamo guerre che non vorremmo combattere, ignoriamo guerre che fanno milioni di morti. Senza idee non si cambia la storia, non si interpreta e non si modifica la realtà. Giochiamo a scacchi con la morte e non  sappiamo che alla fine perderemo la partita.

E’ vero l’ideologia senza la politica dele cose è un esercizio teorico, ma la politica delle cose senza ideologia è cieca e si lascia prendere per mano; i valori non calati nella realtà quotidiana diventano esercizi di retorica, ma il pragmatismo senza ideali diventa mero opportunismo.

Per mutare la realtà  per vedere “il sol dell’avvenire” occorre una lettura dialettica del reale filtrato dall’utopia diventata ideologia perché se non abbiamo nostre idee ci accadrà ciò che Bertold Brecht (per chiudere come abbiamo aperto), ha previsto

“molti non sapranno

Che il loro nemico

Cammina alla loro testa,

che la voce che li comanda

è la voce del nemico

e colui che parla del nemico egli stesso è il nemico.

giugno 13, 2022

Heri dicebamus!

Di Beppe Sarno

Si narra di un monaco spagnolo docente di diritto canonico  nell’Università di Siviglia, che avendo passato lunghi anni prigioniero dei mori, chiuso in una fortezza, dopo aver riconquistato la libertà sia tornato immediatamente al suo posto e, riaperto il testo nel punto in cui lo aveva lasciato prima della sofferta  prigionia, abbia ripreso tranquillamente le lezioni con la  consueta formula heri dicebamus…..

Così dopo l’ubriacatura referendaria che ha fatto sognare Salvini di sottomettere finalmente la magistratura al potere politico trasformando i PM in cani da guardia della politica e le altre amenità promesse dai quesiti referendari in ossequio al verbo di Licio Gelli,  riprendiamo la nostra discussione per testimoniare il nostro attaccamento alla democrazia, alla Costituzione, al pensiero socialista.

La nefasta influenza di Beppe Grillo sta istillando nella gente la convinzione che la nostra Repubblica debba trasformarsi da repubblica parlamentare in repubblica popolare. Seguendo questa logica si è provveduto alla riduzione del numero dei parlamentari mentre.  Secondo questi novelli populisti il Parlamento non risponderebbe più ai suoi compiti essendo un’istituzione vecchia da sostituire dall’intervento diretto dal popolo che così potrebbe partecipare direttamente all’amministrazione pubblica modernizzando il profilo ottocentesco della nostra democrazia. Giovanni Sartori nel 1994 già ci ammoniva affermando “Dio ci salvi, allora, dagli inesperti che ci propongono il governo dell’inesperto trionfante, dal cittadino premibottone”

Rosmini riteneva che i partiti fossero manifestazione di una società disunita e malata. Successivamente alcuni costituzionalisti ritennero di definirli “insieme di organi statali” necessari per lo svolgimento della vita parlamentare. Altri infine li consideravano come spontanee manifestazioni dell’opinione pubblica che non esprimono la volontà statale, ma preparano e favoriscono la formazione di tale volontà. Per tutti,  i partiti pur avendo rilevanza costituzionale dovevano rimanere strumenti di parte tutelati costituzionalmente dall’art. 18 necessari per concorrere democraticamente a determinare la politica nazionale secondo l’art. 49 della Costituzione.

Seguendo il pensiero di Kelsen (La lotta per il diritto!)la  funzione dei parlamenti non è quella di preparare il popolo, ma quella di consentire al popolo di partecipare all’esercizio del suo potere “sovrano”.

Ecco perché i partiti vengono finanziati dallo Stato attraverso i rimborsi in relazione alle spese elettorali sostenute per le campagne per il rinnovo del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, del Parlamento europeo e dei consigli regionali. Inoltre la legge del 2017,  consente esclusivamente ai partiti  di ottenere la destinazione volontaria del due per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche su precisa scelta del contribuente, e di ottenere erogazioni liberali dei privati, che possono così usufruire delle detrazioni fiscali.

Per il marxismo i sindacati e i partiti sono indispensabili e  Marx nel 1852 si allontanò dal partito preferendo dedicarsi ai suoi lavori teorici per essere più utile “alla lotta della classe lavoratrice”. Marx si schierò contro “la Lega dei comunisti” perché ritenne  al pari di Engels il partito “una banda di seguaci passivi di chi li guidava” e che non  rappresentava la coscienza del proletariato. Marx ed Engels però, poi parteciparono alla fondazione della seconda internazionale ritenendo quindi indispensabile il partito come strumento per la trasformazione delle cose e il raggiungimento dell’obbiettivo della costruzione della società socialista.

Oggi assistiamo ad una prevalenza del potere esecutivo esasperato dal nostro Presidente del Consiglio che ritiene il parlamento poco meno che un’inutile istituzione, ricorrendo sempre a provvedimenti d’urgenza determinati dalla necessità di assumere decisioni senza i tempi lunghi causati da un dibattito parlamentare. E’ stato così per i provvedimenti sulla pandemia è stato e sarà così per i provvedimenti riguardo la nostra entrata in guerra a fianco dell’Ucraina in dispregio dell’art.11 della Costituzione e le  determinazioni economiche che ci chiede l’Europa. E’ così che lo Stato da strumento che garantisce la convivenza tra i “consociati” che agiscono per determinati scopi, si trasforma in un poderoso mezzo di aggressione ed i oppressione, contraddicendo se stesso e rinnegando i principi espressi nella nostra Costituzione, definita figlia della Resistenza.

Se si può teorizzare una società senza partiti perché composti per lo più di ladri, malfattori, corrotti e superpagati dai contribuenti, nella pratica i partiti sono inevitabili  nella misura in cui un partito è l’unione di persone che attorno ad un problema politico hanno unità di pensiero ed identiche opinioni (idem sentire de republica). I partiti di massa sono stati il cuore pulsante di milioni  di lavoratori contribuendo a trasformare una società distrutta dalla guerra, dall’invasione tedesca e dal fascismo a realizzare riforme, a costruire una società industriale a creare un benessere diffuso portando l’Italia ad essere una delle prime potenze economiche mondiali. Molti nel corso della storia della nostra Repubblica  hanno criticato i patititi politici  perché trasformati in elites di capi che abbandonando il metodo democratico   “non sono più scuola di democrazia.” E come ebbe a dire Basso finirono per “assolvere male il loro compito di favorire il popolo nel suo effettivo esercizio del suo potere sovrano.”

Il problema è che mentre la mafia, la criminalità organizzata si sono adattati alle sfide della società moderna lo Stato e i Partiti sono rimasti inermi. Ciò spiega la crisi dei partiti, che mentre diventano potenti nei confronti dello Stato, lo occupano con i suoi uomini, ne condizionano le scelte, perdono la fiducia dei loro elettori, perdono la partecipazione degli iscritti, la preparazione delle classi dirigenti, il  ricambio e selezione dei quadri e l’ efficienza operativa. Ciò spiega alla fine la crisi del Parlamento svuotato delle sue funzioni  a vantaggio del governo,  dei nuovi centri di potere pubblico  e privato, della trasformazione delle Regioni in piccoli principati ma anche dello stesso Governo semiparalizzato da un amministrazione inadeguata dalla incompetenza dei funzionari, dalle influenze dei gruppi di pressione pubblici e privati, dalle istituzioni finanziarie internazionali.

Diceva Nenni che di fronte ad uno Stato  in sfacelo che usa le maniere forti con i deboli e  cede di fronte ai poteri forti non si può andare avanti,  ma prendere  atto della situazione e da lì ricominciare.

Se lo stato democratico non provvede prima ai bisogni del “sovrano” occorre apire un fronte di lotta per far si che “il sovrano” cioè i cittadini abbiano concretamente la possibilità di esercitare la libertà che la Costituzione garantisce loro.  Il fondamento della nostra democrazia sono l’istruzione ed il lavoro, essi sono diritti e doveri che indicano allo stato e cioè ” rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Con questo articolo viene precisata la vera natura dello Stato quello di limitare la libertà teorica degli individui per il loro effettivo vantaggio. In questa visione lo stato deve fare in modo chela scuola non sia un’agenzia che prepara i nuovi sfruttati e  il lavoro non sia un merce ma un diritto e  un dovere sociale allo stesso tempo. Lo dice con grande lungimiranza  Papa Francesco.

In questo quadro i partiti politici sono la espressione naturale e necessaria della vita politica. Una democrazia diretta non è pensabile nella situazione storica che viviamo. In questa situazione  i partiti sono inevitabili come strumento di concentrazione della volontà popolare.  E’ lecito allora domandarsi perché i Parlamento non è più un organo rappresentativo ma un diaframma che separa la volontà politica dalla volontà generale. Si può rispondere che la crisi che attraversa la democrazia parlamentare è stata accentuata per rispondere alle emergenze determinate dalla pandemia e dalla crisi economica e  il governo guidato da Mario Draghi ha avuto gioco facile a ribaltare i ruoli per cui è stato l’esecutivo a dettare l’agenda politica ai membri di camera e senato e non il contrario.

Se l’emergenza, però, non è un valido motivo per giustificare la forzatura delle regole democratiche è pur vero che i partiti per come sono strutturati oggi sono destinati a subire lo stato delle cose se non si comincia a riformarli dal basso attraverso un coinvolgimento della base attraverso il dibattito riapprodandosi dei temi di cui la gente sente il bisogno di discutere. Un lavoro difficile destinato magari a molti insuccessi però  se è vero che la democrazia non significa partecipazione diretta, ma solo indiretta del popolo al governo della cosa pubblica è pur vero che il governo riceve autorità e potere dal basso e non dall’alto.  Ripartendo dai bisogni della gente un partito diventerà  portatore di un programma. Beppe Grillo lanciò l’idea, non sua, che i parlamentari venissero scelti attraverso un sorteggio  e alcuni invece prevedono che in futuro si possa votare usando il computer. Questo significa far morire la speranza di un cambiamento dei rapporti di forza all’interno di uno Stato, significa chiedere alla gente di rassegnarsi all’idea che lo Stato è uno strumento tecnico per assecondare i disegni del mercato che diventa a sua volta “sovrano” in sostituzione del popolo.  Marco pannella nel 1993 sintetizzò questi concetto con la frase “chiudere i partiti”.

I partiti viceversa non vanno chiusi ma bisogna avere la forza di riaprirli per ridare speranza alla gente e per  ridefinire il ruolo del parlamento come libera espressione della democrazia  dandogli  quella centralità che sempre ha avuto nella  storia della nostra Repubblica. Pietro Ingrao in un suo libro  (”Crisi e riforma del Parlamento“, dialoghi con N. Bobbio e introduzione di L. Ferrajoli)  metteva in luce come, prima degli anni ottanta, il Parlamento fosse davvero la sede di un confronto alto tra le forze politiche e, come spiega Ferrajoli nel suo saggio introduttivo, “lo fu perché le battaglie parlamentari erano tutte sorrette da grandi mobilitazioni popolari, quali espressioni politiche di altrettante lotte sociali”.

Ridare consapevolezza agli italiani che essi sono “ popolo sovrano” significa ridare alla gente la speranza che attraverso la sua mobilitazione tutto può cambiare ed è possibile invertire questa involuzione democratica che stiamo vivendo al momento attuale. Con la difesa della  democrazia e della  centralità del Parlamento infine  si riabilita la politica come azione collettiva che rifonda la rappresentanza sulla base di rinnovati radicamenti sociali. 

giugno 4, 2022

RICCARDO LOMBARDI TRA MARX E KEYNES

di Giuseppe Giudice

Lombardi fu certamente uno dei primi uomini della sinistra che lesse approfonditamente Keynes. Ma il keynesismo di Lombardi era quello “di sinistra” – i postkeynesiani di Cambridge : Joan Robinson, Nicholas Kaldor, in particolare , di orientamento socialista rispetto al liberale Keynes. Quindi in Lombardi credo che si sia operata una sintesi tra il suo marxismo eterodosso ed il postkeynesismo. Che poi è alla base della sua ben nota teoria della Riforme di struttura come mezzo per una transizione democratica e graduale verso il socialismo. Di qui , anche la sua opposizione alla “politica dei redditi ” di Ugo La Malfa volta alla razionalizzazione del neocapitalismo e non al suo superamento. La prospettiva del Lombardi, a cavallo , tra gli anni 50 e 60, consisteva nella “politica di piano” o programmazione democratica che avrebbe dovuto orientare il processo di sviluppo dell’economia italiana , tramite l’intervento pubblico, verso parametri diversi ed alternativi rispetto al neocapitalismo. Da sottolineare , che anche tra i postkeynesiani inglesi il concetto di programmazione era un punto di forza. Dopo il 1968 Lombardi integrò nel suo schema teorico anche parte della teoria dei contropoteri , in particolare quella di Panzieri. Anche se egli non fu mai un “gauchiste” nondimeno dà centralità al movimento di massa, come leva essenziale per la modifica dei rapporti di potere nell’economia e nella società . Del resto è del 1968 il libro di Gilles Martnet “la conquista dei poteri” in cui viene coniato il termine riformismo rivoluzionario che Lombardi fece proprio. In Lombardi e Martnet non basta avere in mano le leve del potere pubblico: esso va radicalmente trasformato tramite un profondo processo di democratizzazione dell’apparato statale, in grado di permettere una trasformazione in senso democratico e socialista della società. Quindi il socialismo come processo dal basso, nella dialettica tra poteri e contropoteri, nel quadro della democrazia costituzionale repubblicana. In cui la socializzazione dell’economia si accompagna alla socializzazione del potere. Lombardi ha sempre difeso l’idea del sindacalismo confederale, nella forma specifica del “sindacato dei consigli”. Riteneva importante , ma non esaustiva la spinta alla crescita salariale, come fattore di ampliamento del mercato interno. Ma altrettanto decisiva la modifica profonda dell’organizzazione del lavoro. “Catene di montaggio socialiste” non esistono, ripeteva dire. E da Panzieri acquisiva la tesi della non neutralità dello sviluppo tecnologico ed anche il superamento dei residui economisti e produttivisti presenti in una certa ortodossia marxista. Certo il Marx che prediligeva era quello del Capitale e dei Grundrisse, il Marx critico dell’economia politica e non il marxismo inteso inteso come filosofia deterministica della storia. E non da dimenticare la sua forte insistenza sulla riduzione dell’orario di lavoro. Di qui l’attualità di Lombardi per un faticoso processo di ricostruzione della sinistra (che oggi appare quasi impossibile in Italia). Del resto il mondo pare andare in una direzione opposta a quella immaginata da Lombardi. Ma emergono, qua e là , delle controtendenze. Del resto in Melenchon e Corbyn appaiono molti temi sviluppati da Riccardo Lombardi

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giugno 2, 2022

Rassegnatevi alla Pace!

Di Beppe Sarno

Il governo Draghi ha inviato una proposta di pace fra Ucraina e Russia giudicata insoddisfacente dai vertici Russi. Contemporaneamente violando l’art.11 della Costituzione  Draghi continua a inviare armi  dei più svariati tipi. Ovviamente il parlamento è tenuto all’oscuro della natura degli armamenti  inviati per motivi di sicurezza.  Certo è che le armi vengono spedite sotto il controllo del Comando Operativo di Vertice Interforze (Covi) guidato dal commissario straordinario generale Francesco Paolo Figliuolo. E si occuperà la Nato della consegna logistica sul territorio ucraino. Se aggiungiamo l’adesione alle sanzioni contro la Russia e la feroce battaglia mediatica che fanno apparire Zelesky e il battaglione di Azov come degli eroici combattenti e Putin come un Hitler con l’atomica possiamo affermare senza tema di smentita che l’Italia è in guerra contro la Russia al fianco di Zelesky. Eppure l’ineffabile presidente del consiglio al pari di tutti i leaders europei sono  ammirevoli per il loro commovente zelo per la pace; ogni capo di governo la propone ne delinea le generose condizioni e nello stesso tempo studia come affamare la Russia e il suo popolo. Ci si indigna e ci si stupisce  del fatto che Putin si ostini a ricusarla per una pervicace e fatale incontentabilità. Nel frattempo i combustibili raggiungono prezzi  record, le piccole e medie imprese lavorano a ritmi ridotti le materie prime mancano, i granai cominciano a svuotarsi. Tutto questo accade mentre il Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, proponendo nuove e più feroci sanzioni contro la Russia,   affabula gli interlocutori e dedica alla pace discorsi non meno obbliganti e piani di condizioni estremamente vantaggiose, a suo dire, per la Russia e per tutti i paesi d’Europa all’Ucraina oppressa con particolare riguardo alla causa delle democrazia, del diritto e della indipendenza dei popoli.

Tutte queste cose di cui la von der Leyen sembra avere l’esclusiva presenta un inconveniente, lieve ma decisivo, che l’Europa, il Regno Unito,  gli Usa  pur volendo la pace continuano ad alimentare la guerra inviando armi, uomini, consiglieri militari, applicando sanzioni e non si intendono con Putin che da parte sua continua a bombardare l’Ucraina.

E’ stato dimostrato che la famosa guerra dei trent’anni  durò tanto perché i condottieri dei popoli in guerra impiegarono tanto tempo per capire ciò che poi riconobbero essere stato chiaro per tutti sin dal primo momento e cioè che era perfettamente inutile cercare una decisione diversa da quella dettata dal primo anno di guerra e che gli altri ventinove anni furono spesi nel rincorrere ciò che si era fatto nel primo. Nel frattempo i morti, la fame e la carestia fecero milioni di vittime innocenti. Eppure appare chiaro a tutti l’inutilità di questa guerra. Deve estremamente eccitante per i soldati di un parte e dell’altra che combattono e muoiono, sapere che coloro che ritengono indispensabile la continuazione della guerra fino alla resa finale dell’uno o dell’altro contendente  e dei loro sacrifici sono anche dell’opinione che ci si potrebbe benissimo porre fine. I termini della questione che hanno generato questa guerra sono chiari: da una parte Putin  chiede l’indipendenza del Donbass e della Crimea dall’Ucraina sulla base della circostanza che sono stati di fatto legati alla Russia già da otto anni  e quindi si chiede cheKiev riconosca che le due regioni appartengono alla Russia. Inoltre la Russia ha chiesto la neutralità dell’intera Ucraina e quindi la dichiarazione formale che mai l’Ucraina entrerà nella Nato. Dal canto suo Zelesky mentre si dichiara disponibile a trattare sul modo di arrivare a un cessate il fuoco e pronto a discutere sui territori contesi dichiara “Questa guerra non finirà così. Scatenerà la guerra mondiale», aggiungendo che «Tutti coloro che sono venuti sulla nostra terra, tutti coloro che hanno dato gli ordini… sono tutti criminali di guerra». Difficile credere alla sincerità dell’uno e dell’altro anche perché se da una parte c’è l’America di Biden,  dall’altra c’è la Cina e ognuno sostiene  le rispettive ragioni dei contendenti. Intanto Biden fa sapere che se la Cina dovesse occupare Taiwan l’America è pronta a difenderla, dimenticando che Taiwan non è uno stato riconosciuto dagli USA. Ma si sa da sempre l’America è un paese che difende ed esporta democrazia per combattere “l’autoritarismo, la lotta alla corruzione e la promozione del rispetto dei diritti umani». La storia ci ammonisce del contrario e cioè che da una parte i popoli liberati il gusto della libertà prende il sopravvento sulla gratitudine dei liberatori sino a punto di  schierarsi contro questi ultimi, forse perché solitamente i liberatori hanno la strana tendenza a farsi pagare i loro disinteressati servizi con delle ipoteche  su quella libertà che fu la loro fatica.  Intanto assistiamo tutti ad un universale logoramento che ognuno della parti in causa progetta a danno dell’altro. Oggi giorno dai telegiornali nazionali, dai giornali, dai media sentiamo dire che è necessario logorare il nemico per giungere alla vittoria finale e mi domando che cosa ci sia  ancora da logorare per arrivare alla vittoria finale se è vero che oltre alle migliaia di morti  dall’una parte e dall’altra ci saranno gravissime ripercussioni economiche che pagheranno tutti, come universalmente riconosciuto. Pagheranno tutti: Ls Russia, l’Europa, gli Stati Uniti.  Quanto ci vorrà per l’Italia per ricostituire le ricchezze sprecate in questa assurda guerra? Per quel che ci riguarda il militarismo della signora Ursula von der Leyen santificata da  Mario Draghi che applaude soddisfatto, uscirà spezzato dalla guerra non per la eventuale vittoria o sconfitta del proprio campione, ma  per l’estenuazione alla quale  essa, complice il nostro Mario Draghi avrà ridotto il popolo che essa pretende di rappresentare: fabbriche chiuse, operai disoccupati, servizi sociali mortificati. D’altra parte, non mi sembra che chi si arma con rinnovato accanimento possa attribuire un significato democratico ed antimilitarista alla pretesa del disarmo altrui.  Questo poteva essere il punto di vista di Mefistofele nel duello fra Faust e Valentino.  D’altronde pretendere la pace come risultato esclusivo della guerra con la vittoria di uno dei contendenti significa voler  estirpare l’erba maligna della guerra lasciandone intatte le radici per le future rigerminazioni.  

Non c’è nessuno che crede sinceramente che l’Ucraina o la Russia siano in grado di assicurare la vittoria dell’uno sull’altro con un grande sacrificio di uomini e ricchezza nazionale perché se così fosse si potrebbe comprendere perché nessuno vuole la pace, ma dal momento che non è dimostrabile con assoluta certezza che una vittoria quale viene chiesta da Zelesky può essere ottenuta non solo cacciando i Russi dai territori occupati, ma obbligandoli ad arrendersi senza condizioni, domandiamoci se è logico porre termini che non si possono imporre fin che la guerra non sia stata vinta.

Moriranno ancora molti soldati, moriranno ancora molti civili, donne bambini, anziani ma alla fine ci si dovrà rendere conto che la guerra va fermata perché la vita non si arrenderà mai alle esigenze delle vittorie militari e per quanto ci si impegni sul piano del logoramento del nemico, la vita saboterà tuto questo perché la vita è vilmente ma irriducibilmente pacifista.