Posts tagged ‘situazione carceraria’

settembre 16, 2022

Ancora sulla strana morte di Francesco Di Dio

intervista di Antonella Ricciardi

Nella seguente, nuova incisiva testimonianza, Maria Rosa Di Dio, zia del detenuto siciliano Francesco Di Dio, mette in luce maggiormente aspetti irregolari del modo in cui è stata gestita la vicenda del giovane. Una ingiustificata ed inspiegata mancanza della perizia medico-legale di parte, richiesta dalla famiglia, ha comportato una nuova perizia, che accusa una “mano ignota” che possa avere causato la morte di Francesco, per motivi attualmente non del tutto chiariti, al momento; certo è, però che Francesco era stato discriminato dai vertici del carcere di Opera, la cui direzione sanitaria, soprattutto, non si era mossa per trasferirlo all’esterno, garantendogli almeno gli arresti ospedalieri: il minimo indispensabile, in caso di patologie significative, ma comunque qualcosa di meglio, molto meglio, del rimanere in cella, con mancanza di cure specialistiche. Ricordiamo che, con la circolare 21 del marzo 2020, in piena pandemia, erano stati ampliati i poteri delle direzioni delle carceri, per collocazioni extramurarie, quindi esterne al carcere, di persone con le più varie patologie, quando di un certo rilievo, anche per sfoltire i penitenziari, maggiormente a rischio, con il sovraffollamento, di un estendersi dell’epidemia. Una circolare che aveva suscitato polemiche improntate al giustizialismo, data la scarcerazione di circa 300 persone, condannate per mafie, anche non collaboranti con la giustizia. Va detto, però, che si trattava solitamente di collocazioni comunque detentive, e che non si erano verificate evasioni rispetto a quelle collocazioni alternative; pochi mesi dopo la circolare, anche Raffaele Cutolo, nonostante la mancata revoca del 41 bis ed il mancato differimento della pena (misure criticate in modo motivato da organizzazioni per i diritti umani, data l’estinzione dell’organizzazione di appartenenza e le gravi condizioni di salute), era stato però ammesso ad una misura nei fatti equivalente ad un differimento: nel suo caso, per iniziativa delle direzione sanitaria del carcere di Parma, era stato trasferito negli ultimi mesi della sua vita, tra 2020 e 2021, agli arresti ospedalieri in un reparto detentivo di un centro di cura esterno: l’’Ospedale Civile Maggiore di Parma, che è anche Clinica Universitaria, da cui era stato poi confermato non dimissibile; una misura, quindi, di correttezza e civiltà, che, invece, era purtroppo mancata nel caso di Francesco. Tornando invece alla direzione sanitaria del carcere di Opera, è illuminante ricordare che il suo operato, nel caso di Francesco Di Dio, era stato contestato dalla dottoressa Catalano, primaria dell’Ospedale Sacco di Milano, che aveva considerato scorretta la collocazione carceraria di Francesco, che pure aveva bisogno di cure specialistiche. Maria Di Dio, quindi, chiede che le indagini più serie rischiarino la tragica vicenda, la cui oscurità è aggravata dalla mancata chiamata a testimonianza degli ex compagni di sventura di Francesco: un tempo nella Stidda, poi nella non violenza. Sia Francesco Di Dio che i suoi compagni ad Opera non avevano collaborato con la giustizia, per non coinvolgere altre persone nel loro dramma; tutti i compagni di Francesco avevano gradualmente avuto accesso a liberazione almeno parziale, in nome di una visione più lungimirante del recupero della persona. Solo Francesco, tra loro, era stato escluso da attenuazioni del grado di intensità della pena, eppure si era ravveduto nell’anima: un pentimento vero, differente da una collaborazione con la giustizia interessata, da parte di persone spesso più colpevoli (tra cui vari capi della Stidda di un tempo), e che, comunque, non la fanno gratis. Francesco era stato condannato all’ergastolo, rivelatosi successivamente nella sua terribile variante ostativa, a 18 anni; una condanna durissima, per una pena che, a volte, non viene condivisa neanche da familiari di vittime. Ricordiamo, su altri casi, ma comunque eloquenti, le posizioni di generosità mirabile, straordinaria, di Agnese Moro (figlia dello statista Aldo), che affermava che l’ergastolo fosse come buttare via qualcuno, e che lei non volesse buttare via nessuno. Un ergastolo, nel caso di Francesco Di Dio, trasformato, a parere della zia, in una condanna a morte di fatto, dopo 30 anni di torture mentali e fisiche, data anche la mancata corretta gestione di terapie antidolorifiche in carcere: una situazione che era stata deplorata dalla stessa dottoressa Catalano.

1)Partiamo da una premessa: nel giugno 2021 era stata presentata una denuncia, in cui un perito nominato dalla famiglia sostiene la tesi di un soffocamento dovuto a cause esterne ai danni di tuo nipote, Francesco Di Dio: tale documento, che attesta questa posizione del medico, è stato presentato anche perchè, a suo tempo, quando si era svolta l’autopsia, l’anno prima, un altro medico di parte, nominato dalla famiglia, Corradin, non aveva firmato la relazione collegiale con gli altri medici. Addirittura, la relazione di Corradin non risulta essere stata depositata nel fascicolo al pubblico ministero, per cui non c’è prova che esista una relazione di Corradin depositata all’epoca. Puoi spiegare maggiormente questa situazione?

Nel giugno del 2021 abbiamo nominato un nuovo medico legale, perchè il primo medico legale Matteo Corradin, quello che ha fatto l’autopsia, non ha depositato la relazione medico legale nel fascicolo del p.m. Christian Barilli nel 2020, durante le indagini preliminari, che sono durate otto mesi.  Inoltre non ha firmato la perizia medico legale collegiale e in uno degli esami non ha presenziato. In quel momento, nonostante il dolore della perdita del mio caro nipote Franco e l’amarezza che il medico legale Matteo Corradin avesse compromessi-danneggiati esami irripetibili art. Cpp360, abbiamo pensato di nominare un nuovo medico legale. La cosa ancora più strana è che durante le indagini preliminari, ripeto durate otto mesi, nessuno si è accorto che mancava la perizia di parte: né l’ex avv. difensore Eliana Zecca nè tantomeno il p.m Christian Barilli che era il capo delle indagini. Cosa pensare? Non hanno letto? Non hanno fatto bene il loro lavoro o altro?

Non so cosa pensare. La risposta ce la deve dare il nuovo capo delle indagini del tribunale di Milano. 

Di fatto noi ci siamo ritrovati senza perizia medico legale, non esisteva!!

Comunque noi abbiamo nominato un nuovo medico legale, il quale ha sostenuto, sia verbalmente che per iscritto, che Franco è morto per soffocamento dovuto a cause esterne e quindi dopo un anno e tre mesi abbiamo presentato denuncia a settembre 2021. Noi vogliamo sapere cosa è successo a mio nipote Francesco Di Dio   il 03/06/2020 dentro il carcere di Opera-Milano, perché in uno Stato di Diritto è giusto che noi cittadini rispettiamo lo Stato ma altrettanto rispetto chiediamo noi cittadini. 

2) Tu e l’attuale avvocato, Daniel Monni, siete effettivamente arrivati ad un dato dirimente, di cui il precedente avvocato, ed il pm che in precedenza si era occupato del caso, non avevano appunto fatto menzione: la questione non sembra essere stata notata, o sollevata. Quanto cambiano adesso le cose? Cosa pensi possa implicare per il nuovo procedimento giudiziario?

Sì, io e l’avv. Monni ci siamo arrivati subito e senza nessun impedimento che mancava la perizia medico legale di parte, tanto che l’avv. Monni mi ha detto subito che dovevamo nominare un nuovo perito, in quanto il medico legale Matteo Corradin, che ha eseguito l’autopsia, non aveva depositato la perizia medico legale di parte nel fascicolo del pm Barilli, non aveva firmato la relazione medico legale collegiale e non aveva presenziato ad un esame e che le indagini si erano concluse con la richiesta di archiviazione con la mancanza di questi atti  importantissimi. Invece l’ex avv. di fiducia Eliana Zecca non ha notato e non ha sollevato il problema che mancava la “perizia medico legale di parte”, che Corradin non aveva firmato la relazione medica legale collegiale e quando è arrivata la richiesta di archiviazione da parte del PM Barilli, mi disse “sig.ra è tutto chiaro”!!  E quindi noi non potevamo fare niente, solo accettare l’archiviazione della morte di mio nipote.

L’avv. Zecca non è la prima incongruenza che non ha notato, tante che in passato mi sono domandata ma questo avv. è nostro difensore o è l’avv. difensore del carcere di Opera?

Quindi l’ho cambiata perché non ho avuto più fiducia e perché per lei dovevamo chiudere.

Per come stanno le cose l’avv. Zecca e il medico legale andrebbero denunciati per risarcimento perché non hanno fatto bene il loro lavoro e a noi hanno procurato un danno enorme. Tante è vero per come stanno le cose non escludo di chiedere al pm una nuova autopsia.

3) Le testimonianze sulla morte di Francesco potevano essere meglio approfondite, e perchè, a tuo avviso?

No, non ritengo che potevano essere approfondite, non dovevano fare neanche quella di Feliciello. Sono dubbie le risposte dei detenuti perché vivono in uno stato di repressione: non sono liberi di dire e fare. Come ritengo dubbia la testimonianza di Domenico Feliciello, perché Franco ha sempre detto che di fronte alla sua cella c’era Orazio Paolello,  non Domenico Feliciello, detenuto invece per camorra. 

Un articolo che parla di Domenico Feliciello ha dell’incredibile: commenta il fatto che non gli hanno dato il permesso premio per vedere la famiglia fuori dal carcere senza mettere in risalto la vera notizia, che gli hanno tolto il 41 bis, che è quasi impossibile togliere, specialmente quanto si tratta di boss. Tutto questo a due anni dalla morte di mio nipote Franco.

Ha attinenza? Non lo so, però mi fa pensare, in quanto il carcere di Opera non è impermeabile a certi reati, come la droga che circola dentro.

4) Cosa propendi possa essere accaduto a Francesco, ed in quali circostanze?

Credo nella relazione medico legale del dottor Rizzino, il nuovo medico legale di parte: Franco è morto per mancanza di ossigenazione causata dall’esterno, cioè Franco è stato ucciso dentro il carcere mentre era in custodia dello Stato.

Ritorno a dire che il carcere di Opera non è impermeabile a certi reati. Es: la droga che circola all’interno.

Poi, penso Franco a chi dava fastidio? E perché i suoi ex compagni di sezione non hanno evidenziato certe anomalie? Per farlo riposare in pace gli dovete la verità, è l’unica cosa che gli possiamo dare. 

Nell’ultima telefonata ho sentito Franco agitato, gli abbiamo chiesto cosa hai? Lui, come al solito rispose nulla.

Secondo me verosimilmente aveva capito, non è stato un omicidio di impeto ma premeditato. 

L’ora potrebbe essere stata dopo pranzo quando le celle sono aperte.

Franco, forse si trovava già in cella, hanno fatto l’omicidio e poi l’hanno chiuso all’interno.

5) Quali aspetti sono più importanti da ricordare del calvario di Francesco, anche per evitare che anche altri detenuti siano vittime di analoghe situazioni di disumanità nel trattamento?

Gli aspetti più importanti del calvario di Franco, iniziano da subito, quando lo hanno arrestato. Franco aveva diciotto anni e due mesi, un ragazzino, e faceva uso di sostanze stupefacenti. Io, non dico che non abbia sbagliato ma dovevano considerare la giovane età e l’uso di sostanze stupefacenti. Non era un boss ma l’hanno condannato come se lo fosse, solo perché un giornale, la Repubblica, l’aveva indicato come tale. Una relazione di polizia aveva usato quell’articolo per esprimersi contro benefici a suo favore.  Ad un ragazzino gli hanno fatto vivere l’esperienza dell’Asinara, dove deportavano tutti i boss. Il momento più tragico l’ha vissuto nel carcere di Carinola dove iniziò ad avere dolore al piede ed i medici del carcere di Carinola lo curarono per ben tre mesi come lombosciatalgia con dolori indicibili, lo portarono in ospedale solo quando fu grave, con il piede in cancrena e la febbre a 40 gradi, a rischio della vita. Io, che non sono medico se dopo 15 gg non ho risultati o miglioramenti penso che la cura non è giusta, invece i medici del carcere di Carinola hanno continuato imperterriti con la cura della lombosciatalgia. Alla fine hanno dovuto amputare il piede perché in ospedale glielo hanno portato troppo in ritardo.

Altro momento veramente disumano fu durante la pandemia, con la circolare 21 del 2020, per cui il direttore del carcere Silvio Di Gregorio aveva il potere di mettere fuori senza nessuna istanza chi stava male e così fece, mise fuori tanti detenuti tranne Franco, di tutti quelli che mise fuori nessuno è morto, è morto Franco che lasciarono in carcere. Noi, famiglia Di Dio, in quel periodo dicevamo perché il direttore del carcere di Opera non aveva fatto uscire Franco!! Allora, visto che non ci aveva pensato Silvio Di Gregorio, in quel periodo facemmo istanza per arresti ospedalieri, la direzione sanitaria del carcere di Opera ha scritto nero su bianco che Franco stava bene. Nonostante Franco avesse una gran voglia di vita perché praticamente non ha vissuto nulla della vita esterna.  Il carcere di Opera è stato atroce con Franco. 

Quando è morto hanno detto che aveva diverse patologie ma si sono dimenticati di dire che per Franco una delle patologie che aveva era una grave carenze di vitamina D. Vitamina che he come sappiamo si produce con l’esposizione al Sole: siccome per 30 anni non ha visto né cielo ne terra, è normale che gli sia venuta questa patologia e altre dovute sempre alla  lunga detenzione. Se l’anima soffre il corpo urla il dolore. Mio nipote è stato condannato a morte a 18 anni, un ragazzo sepolto vivo per ben 30 anni. Tutti sbagliamo e tutti dobbiamo avere una seconda possibilità; a Franco non gliela hanno data, non hanno applicato su Franco giustizia ma vendetta. Un essere umano si deve riabilitare come dice la nostra Costituzione, non affossare e terrorizzare.  

Infine era disumano leggere negli occhi di Franco il terrore. 

Franco aveva capito che aveva sbagliato e si era ravveduto nella sua anima.

A noi manca una parte della nostra famiglia ed è un dolore che non passa mai, dobbiamo convivere giorno dopo giorno con questo dolore e insieme a Franco hanno fatto male anche a noi. E ancora da morto gli fanno del male perché cercano di occultare la verità, una prova è la mancanza della perizia medico legale di parte.

I

agosto 17, 2022

Cosimo D’Aggiano

 di Antonella Ricciardi.

L’appello di Antonella Casafina prende le mosse da un caso specifico, pur avendo un valore più generale, universale: il marito, Cosimo D’Aggiano, è stato coinvolto in una tragica colluttazione che ha portato, involontariamente, alla morte di un uomo, Cataldo Pignatale. Cosimo D’Aggiano, secondo la documentata ricostruzione di Antonella Casafina, alterato mentalmente dalla droga, chiedeva  un passaggio, preso dal panico poiché doveva rientrare a casa ad una certa ora,  per vincoli giudiziari legati a piccoli reati connessi alla tossicodipendenza; non vi erano più mezzi pubblici disponibili, da Faggiano a Taranto: aveva cercato di ottenerlo appunto da Pignatale, sotto la minaccia di un taglierino, che era in realtà un suo strumento di lavoro: il comprensibile panico dello sventurato Cataldo Pignatale aveva portato, quindi, al ferimento mortale della stessa vittima. Un omicidio, quindi, forse preterintenzionale, certamente non premeditato; Lo stesso D’Aggiano era stato ferito nella colluttazione, dalla reazione dello sventurato Pignatale…Tanto che i carabinieri, quando era stato condotto in carcere, avevano precisato di non avere picchiato loro il D’Aggiano. Omicidio quindi, involontario. Cosimo D’Aggiano, che si era costituito dopo la tragedia, era stato condannato inizialmente all’ergastolo, in un processo in cui si era fortemente fatta sentire la pressione esasperata del pubblico; pena poi ridotta a trent’anni; una pena, quindi, meno estrema, pur non tenendo conto di diverse situazioni che potevano essere considerate attenuanti. Pena, comunque, accettata con serenità e forza d’animo da Cosimo D’Aggiano, il cui pentimento interiore è profondamente presente nella coscienza; Cosimo D’Aggiano chiede, però, di poterla scontare con dignità, magari lavorando perfino gratis, se necessario. Attualmente, invece, Cosimo D’Aggiano si trova nel carcere di Foggia, dove, a lui e ad altri detenuti, sono drammaticamente precluse le attività di recupero previste dalla legge stessa: tra topi, scarafaggi e blatte, in una inattività che rischia di fare impazzire. Il carcere registra un record di suicidi; inoltre, allarmante anche la situazione sanitaria, per cui, in troppi casi  le cure prestate sono troppo poche: minime e non specialistiche, mentre in molti casi sono necessarie cure esterne come denunciato dai medici.  Sette finora sono stati i rigetti della richiesta di trasferimento: pratiche spesso istruite con notevole ritardo. La famiglia D’Aggiano-Casafina accetta assolutamente che vi sia una pena, ma chiede che possa venire vissuta con dignità, in un carcere differente da quello di Foggia. Lo sa bene Antonella Casafina, che, con straordinaria umanità, esprime una mirabile filosofia, per non aggiungere male al male: la guida l’amore per un uomo che non vuole abbandonare, nel momento più difficile della sua vita.

Antonella Casafina aveva già vissuto momenti molto bui: nata in una famiglia disastrata, in cui gli abusi di tutti i tipi erano pane quotidiano, ha impostato la sua via secondo parametri che prendono le distanze proprio dal male subito, impegnandosi per dare invece bene ai suoi figli ed alla società, in generale. Impegnandosi, così, nei lavori più duri, pur di vivere in modo dignitoso e onesto. (attualmente è operatrice ecologica), Antonella Casafina comunica, così, una immagine differente di Cosimo D’Aggiano. Si chiarisce, in particolare, quanto Cosimo D’Aggiano, la cui indole, quando non alterato dalla droga, era pacifica ed altruista, per cui era prima impensabile un omicidio, abbia avuto un percorso in cui aveva cercato molte volte di uscire dalla tossicodipendenza, e di lavorare operosamente. Orfano di madre a soli 15 anni, con rapporti tormentati con la matrigna ed il padre, che si era allontanato, nonostante l’amore che pure c’era, Cosimo aveva cercato punti di riferimento in persone più grandi, che purtroppo lo avevano sviato con la droga. Cosimo D’Aggiano aveva trovato nuova serenità proprio grazie all’amore di Antonella Casafina, ragazza madre all’epoca ventenne, e con due bambini piccolissimi, con la quale aveva avuto a sua volta due figli. La figura materna era stata ricordata a Cosimo nella suocera, accudita con dedizione affettuosa; inoltre, il giovane si era effettivamente impegnato in numerosi lavori, con buona volontà, tra cui trattorista, macellaio, muratore, operatore ecologico ed addetto alle pulizie dei condomini, giardiniere, bracciante. Purtroppo però, e nonostante i ricoveri al Sert, a tratti il mostro della dipendenza da droga, prima eroina, poi cocaina, tornava a devastare la sua vita.

C’è qualcosa di non abbastanza rimarcato in precedenza dalla stampa sul caso di tuo marito, e qual è stata la dinamica esatta del tragico reato per il quale era stato poi condannato tuo marito?

Dal volontariato nella protezione civile era molto apprezzato. Purtroppo a fine 2013 Cosimo ha una brutta ricaduta nei problemi di tossicodipendenza in cui era già incorso, e non si riesce a far riprendere il controllo della situazione, in quanto il SERT che lo seguiva prese con superficialità la mia richiesta di aiuto, poiché mi ero resa conto che mio marito aveva dei problemi ed andava aiutato subito, ma venni liquidata. Mi venne detto che era tutto sotto controllo e che erano solo tutte mie paranoie. Purtroppo nel luglio 2014 l'epilogo peggiore paventato da me si è verificato. Mio marito, Cosimo (Mimmo) D'Aggiano, per procurarsi la cocaina, si recava in Taranto, dove, dopo averne fatto uso, perdeva la cognizione del tempo, e resosi conto verso le 22 che non avrebbe fatto in tempo a tornare a casa (distante 35km) per mancanza di mezzi pubblici (essendo sottoposto a sorveglianza doveva trovarsi nel domicilio alle 22), ebbe una crisi di panico… Dopo aver abusato di cocaina e in preda alle allucinazioni si introdusse in una vettura con un uomo all’interno: minacciandolo con un taglierino gli chiese un passaggio a casa. Voleva solo un passaggio. Voleva solo tornare a casa. Quest’uomo anch’egli in preda allo spavento, ovviamente preso dal panico si diresse in tutt’ altra direzione, portando Cosimo ad essere ancora più nervoso. L'uomo si fermò in una stradina di campagna ormai a notte inoltrata, scese dall’auto e tentò di chiudere dentro Cosimo e chiamare i carabinieri. 

A quel punto Cosimo scese dall’auto e iniziarono a lottare: purtroppo quest’uomo ebbe la peggio, venendo ferito a morte dal taglierino che il D’Aggiano aveva sempre con sé, come attrezzo da lavoro, (premetto anche che l’intento del D’Aggiano non era la rapina in quanto era nella sua disponibilità un bancomat.) Purtroppo Cosimo non si era reso conto che l’uomo era morto subito, causa una emorragia, dovuta al taglio vicino la gola e tentava di mettere l’uomo in auto per prestargli soccorso, ma non ci riusciva visto anche il suo stato psicofisico. La storia proseguì, con il D’Aggiano che telefonò al figlio maggiore, spiegando in maniera confusa l’accaduto e chiedendo di andarlo a prendere. Nel frattempo mi avvisarono, ed a mia volta chiamai i carabinieri e li avvisai della decisione di mio marito di costituirsi.

Puoi spiegare qualcosa del percorso di tentativi di disintossicazione dalla droga di tuo marito?

Mio marito si trovava sotto l’effetto di stupefacenti, perchè lui, comunque, era un tossicodipendente, seguito dal Sert, e comunque, in quel periodo, si trovava sotto forte pressione, in quanto era ricaduto. , Quindi, in un certo senso, si sentiva in colpa, si vergognava… ma nello stesso tempo si sentiva preso da questo schifo che è la tossicodipendenza. Quindi era in conflitto: era in conflitto con la famiglia, con noi: infatti, in quel periodo litigavamo, perchè io cercavo di spronarlo a farsi sentire con Sert, da psicologi e quant’altro. Io ho chiesto aiuto al Sert, ho chiesto all’Uepe, ma sono stata presa sottogamba, alla leggera. Io avevo capito che mio marito non stava bene, in quanto, conoscendolo, vedevo che sembrava un’altra persona. Sembrava come se, in realtà, fosse doppio, e anche mia figlia, in realtà, se ne accorgeva: in un episodio, dove tornò a casa, e mia figlia era con sua cugina in cucina, stette pochi minuti, mio marito, in casa, poi uscì di nuovo, e mia figlia disse a sua cugina: “Quello non era mio padre”. E la cuginetta le rispose: “Ma che stai dicendo? Io lo vedo sempre uguale”, ma mia figlia rispose: “Quello non è più mio padre”, cioè, per noi che lo conoscevamo, si vedeva chiaramente che non stava bene. E avrei voluto veramente che qualcuno ci aiutasse, ci tendesse una mano, si schierasse dalla mia parte, ma purtroppo è stato tutto contro di me, tutto contro di noi”.

Il processo si è svolto in un clima surriscaldato da una forte pressione di una parte dell’opinione pubblica; puoi raccontare qualcosa di alcuni toni che richiamano i linciaggi, utilizzati in alcuni commenti sul web? Toni che andavano oltre la legittima richiesta di giustizia, ma che, a volte, auspicavano reati violenti perfino ai danni di voi, familiari innocenti.

Riguardo il processo, sì, effettivamente si sarebbe dovuto svolgere in un’altra sede, magari fuori regione: perchè comunque è stato fatto un processo con i giornalisti, l’opinione pubblica: era tutto molto cattivo, tutto contro d noi. Io capisco comunque che non era qualcosa di facile, era un reato grave: comunque sia, era tutto accentuato: questo me lo disse anche il mio avvocato dell’epoca, infatti mi spiegò: “Non ti spaventare, non ti atterrire, perchè in primo grado prenderà certamente l’ergastolo, perchè comunque l’opinione pubblica è terribile, è tremenda”. Questa persona, la vittima, era molto conosciuta nella città di Taranto, aveva fatto beneficenza, e comunque era di buona famiglia, era stimato, era quant’altro… Poteva permettersi i migliori avvocati, di tutto. E quindi, se mettiamo sulla bilancia una persona del genere, e mettiamo sulla bilancia un paesano, tossicodipendente, contadino, senza arte nè parte, la bilancia pende tutta dall’altra parte: è ovvio che era tutto contro mio marito, e ne ero consapevole. E proprio per questo volevo che i giudici fossero imparziali, che giudicassero la situazione com’è andata, da tutti i punti di vista. Ho chiesto di sequestrare le telecamere, che erano sul fotovoltaico dove è successo, dopo, purtroppo, lo sfortunato incidente. Purtroppo, la sfortuna ha voluto che le telecamere erano disattivate. Io ho cercato di fare vedere la vicenda sotto l’aspetto effettivo, ma purtroppo era tutto contro di me. E quindi, il processo si è svolto sotto queste premesse, e già sapevo che sarebbe andato tutto male; inoltre, io e la mia famiglia, i miei familiari, la mia bambina, eravamo sotto attacchi molto cattivi, violenti, verbali. Figurati che in un giorno in cui io ero in caserma, perchè volevo capire, poichè io ero all’oscuro di tutto, un carabiniere mi disse: “Corri a casa, corri a casa, che se vengono i familiari, ti picchiano”. Allora io andai a casa, e mentre andavo, mi chiedevo: “Perchè mai devono picchiarmi? Che ho fatto, che è successo?” Cioè il clima era proprio agitato, e però di persone ce n’erano tante, che conoscevano Mimmo com’era, che mi mandavano messaggi in privato, però non si esponevano, giustamente, perchè c’era un linciaggio mediatico: spaventoso, spaventoso… di tutto e di più. Ripeto, anche sulla mia bambina, sui miei figli: sono stati chiamati “progenie di vipere”..

Durante il processo, io non sono mai andata, perché, dicevo, se vado durante il processo, e sento altre cose, rischio di svenire sicuramente. Per questo, non ci sono mai andata; però, mi ha raccontato l’avvocato in che clima si è tenuto, e che era tutto contro di lui, ovviamente…perchè era un pregiudicato, perchè aveva avuto degli altri reati violenti per via della tossicodipendenza, e così via. Allora io ho richiesto una visita medica dal Vito Fazi di Lecce, da uno specialista. Ho richiesto questa visita: questa perizia è stata fatta, però…non è stata ammessa, perchè in pratica mio marito, anche dopo l’arresto, non lo vedevo nelle giuste condizioni: lo vedevo confuso, lo vedevo che si scordava le cose, mentre parlavamo mi diceva una versione, me ne diceva un’altra. Poi pensa che, da Sava a Manduria, che ci sono, sì, e no, sei kilometri, nella caserma di Sava mi ha dato una versione, nella caserma a Manduria mi ha dato un’altra versione, quando sono andata a trovarlo a Taranto me ne ha data un’altra, dopo pochi giorni, a Lecce un’altra ancora. E quindi era confuso; qualcuno potrebbe dire vabbè, è bugiardo, ma non aveva intenzione di dire cose false, ma nei fatti confondeva le date… Alle volte, mia figlia, la grande, mi guardava, e mi diceva: “Mamma, papà non sta bene”. Poi anche tutt’ora, che son passati molti anni, molte cose le ha rimosse, non ricorda…ma non cose relative all’omicidio, relative proprio alla nostra vita in comune: è come se ci fosse qualcosa che lui ogni tanto ha cancellato.

C’è qualche precedente specifico che ha peggiorato la situazione giudiziaria di Cosimo, che forse doveva essere chiarita meglio?

Sì, c’è un precedente specifico, che deve essere chiarito, che riguarda la posizione specifica di mio marito; secondo me, è stato quello che ha aggravato la situazione, perchè mio marito è stato preso per una persona violenta, irascibile, e quant’altro: nel 2009, commise un reato, inizialmente valutato in tentato omicidio, poi ridotto a lesioni gravi. Tanto che per quell’arresto, mio marito ha preso otto anni e due mesi: si è fatto, sì e no, due mesi di carcere, poi ha scontato tutto fuori. Ed è stato quello il periodo in cui lui è cambiato: è stato benissimo.

Il problema sul caso del 2014, invece, a è che, pur avendo le attenuanti, a mio marito, non sono state proprio riconosciute; anzi, il giudice disse, durante l’udienza, sul fatto che si era consegnato, e quant’altro, aveva detto: “Adesso che cosa vuole, una medaglia?” E quindi le attenuanti non sono state proprio prese in considerazione, bensì sono state aggiunte le aggravanti; aggravanti che io contesto, che sono state contestate, ma non sono cadute.

Ora ti racconto il fatto del 2009: in quell’anno, una persona, anche questa tossicodipendente, purtroppo (ora per fortuna non lo è più), venne a trovarci. Nel mio paese, come in tutti i paesi, ci sono le prostitute, in campagna. Una sera, mio marito, e questa persona, con la mia macchina, andarono a comprare cocaina, per usarla, e si appartarono per usarla. Questa donna, vedendo due uomini, in campagna, che si avvicinano con la macchina, aveva pensato che stavano andando lì per lei, ha aperto lo sportello e si è seduta in macchina. Ovviamente, avendo paura di essere visti con una prostituta in macchina, l’altra persona ha aperto lo sportello, e mio marito l’ha spinta per farla scendere. Andando un punto indietro, bisogna dire che questo purtroppo era il suo modus operandi, in quanto un mio collega, andando in campagna, a raccogliere le olive, a fare i lavori, un giorno mi stava raccontando che andò lì e purtroppo questa donna entrò in macchina e non voleva scendere, dicendo: “Questa è zona mia, che sei venuto a fare?” Ed altro. Tornando alla situazione con mio marito, la signora è caduta, e cadendo ha sbattuto per terra. Ora, l’altro uomo, con mio marito, sono scappati; l’altra persona era  incensurata, mio marito si è preso la colpa di tutto… che poi c’è da dire, che la signora, quando è stata portata in ospedale, ha fatto il riconoscimento: non si sapeva che era mio marito, non si sapeva niente…ha indicato tutt’altra persona, che noi conoscevamo, anche…e mio marito si è sentito in dovere di aiutarla. La macchina era la mia, comunque mio marito ha detto: “Sì, sono stato io”, però comunque non ha detto dell’altra persona.  Ha detto solo che era andato lì, e stop. Poi, ha preso la condanna: ha preso otto anni e due mesi, è stato sì e no tre-quattro mesi in carcere, e poi ne è uscito. Anche in quel periodo ci furono voci infondate, fuori controllo: che andava con le prostitute, che voleva ammazzarla. Naturalmente non era così; lei aveva solo delle escoriazioni sulle mani, ma venne dipinta come se fosse stata in fin di vita: cosa che non era. Evidentemente, il giudice lì, vendendo che era una prostituta, ha visto le cose come stavano. Infatti, lei voleva anche il risarcimento, il suo avvocato voleva anche il risarcimento, perchè lei non aveva potuto lavorare, non aveva potuto svolgere il suo servizio, ma il giudice disse no, niente di fatto. Adesso, quando invece è successo, nel 2014, l’omicidio, purtroppo, si è andato a ritroso a riprendere questo episodio, che ha influito in modo pesante sulla situazione, perchè è stato detto: “Ecco, aveva aggredito un’altra persona, ecco era una persona violenta, ha fatto questo, ha fatto quello”. Certo, non era la stessa cosa: e perchè allora per quel caso hanno dato otto anni e mesi, e nell’altro trent’anni? Perchè uno era un ingegnere e lei era una prostituta? E’ che nell’applicazione della legge italiana, dico io, si sono fatti due pesi e due misure.

In che modo attualmente Cosimo si pone nei confronti del suo reato e della sua pena? Quali i suoi reali sentimenti, che forse hanno avuto poco spazio sulla stampa? Sull’onda di emozioni certamente comprensibili, ma unilaterali.

Attualmente Mimmo, nei confronti della sua pena, si pone con molta serenità, in quanto, già dall’inizio, sapeva che doveva essere condannato e doveva scontare una pena: su questo non c’è dubbio. Lui l’ha presa appunto con serenità, con rassegnazione, ma anche con forza, con determinazione, con speranza…e con forza anche da parte di tutti noi, certo. Lui si pone così nei confronti della sua pena: non ha mia voluto scappare dai suoi doveri, da ciò che lui doveva fare, e quindi, anche se su qualche singolo aspetto poteva pensarla diversamente, ha sempre accettato di buon grado tutto questo. L’unica cosa è che lui vorrebbe poter scontare la sua pena in modo umano, in modo dignitoso: vorrebbe poter contribuire in modo dignitoso alla famiglia, alla società: vorrebbe poter lavorare, anche gratuitamente; vorrebbe potere fare dei lavori per la società, per il carcere, per qualsiasi cosa, naturalmente per noi della famiglia. Vorrebbe poter fare i colloqui, sì, e nello stesso tempo potere avere tutto ciò che la legge consente: cosa che purtroppo, essendo lui ristretto a Foggia, non può fare nulla di tutto questo, anzi… Questo lo fa sentire inutile, lo fa sentire di peso, lo fa sentire mortificato, più di quanto dovrebbe esserlo.

Vi siete sentiti soprattutto abbandonati in questa disavventura, avete avuto anche vicinanza da volontari, associazioni, singoli?

Diciamo che, quando è successo tutto questo, noi siamo stati quasi totalmente abbandonati: sia da volontari, associazioni, sia da singoli; hanno preso le distanze, assolutamente. Diciamo che tra i pochi che ci sono rimasti accanto, ci sono le persone che lo conoscevano veramente, le persone che lo hanno conosciuto come lavoratore, come vicino di casa, come amico. Sì, da questo punto di vista ci sono rimaste accanto: sia all’inizio, sia anche adesso, dopo otto anni, c’è gente che, una-due volte a settimana, manda messaggi anche dalla Francia, ho avuto anche aiuti economici di suoi amici, che mi hanno aiutata, senza chieder nulla. Diversi hanno cercato di aiutarlo in qualche maniera; c’è mia nipote che vive in America, lei, poveretta, non sapeva nulla di leggi italiane, mi aveva chiesto a quanto ammontava la cauzione, per poter pagare, ma io le ho detto che in Italia non esiste cauzione. Tra coloro che lo conoscevano, e mi è stata accanto, ci sono stati anche gli edicolanti del mio paese, che non hanno esposto locandine e quant’altro, per non turbare i ragazzi, in particolare la bambina: solamente uno su dieci, ma ci sono stati. Gli altri, che ci hanno attaccato, erano estranei: soprattutto nei centri piccolo, parlano solo per dare aria ai polmoni, e basta.

C’è qualcosa che desideri evidenziare in più su questa vicenda, e sul suo significato generale?

Sulla stampa, diciamo che su alcune questioni non è stato detto niente di vero; si sa che i giornalisti comunque devono aumentare le cose, in modo da poter vendere il giornale, e per rendere più appetibili le notizie, questo sì… Però, molte volte, il quadro che ne è venuto fuori non era raffigurante mio marito, assolutamente no: non era come lo abbiamo vissuto noi. Non gli sarei rimasta accanto, con una condanna così alta, se non fosse stato una persona così amorevole, così buona… Che ti devo dire, io vorrei che tu parlassi con mia madre, che è un’anziana donna di 81 anni; lei dice sempre: “Quello che mi ha fatto Mimmo, non mi hanno fatto i miei figli…” . Mio marito, ogni pomeriggio, andava da mia madre, per lavarle i piedi, per tagliarle le unghie, cioè per cose che, magari, le mie sorelle non fanno. Mio marito era così, ma non perchè gli venisse chiesto: lui amava queste cose. Certe volte io lo chiamavo, quando tornava dal lavoro, e gli chiedevo: “Dove sei?” e lui diceva: “Sono dalla mamma”. Io chiedevo: “Ma sei sposato con la mamma?”, così, scherzando, perchè era fatto così, cioè tutti i giorni doveva passare dalla mamma, per vedere, chiedere: “Stai bene, hai bisogno di qualcosa? Cioè era fatto così; se stava a letto a dormire, e lo chiamava un estraneo, per dire: “Mi è scoppiata una ruota”, lui correva. Era fatto così, questo non è stato detto, non è stato detto. Questo non giustifica l’atto, non voglio dire che visto che era una brava persona si giustifichi, no, però voglio dire a certe persone: “Non è giusto che dipingete una persona per quella che non è”. Non era un leone ruggente che andava in giro cercando di divorare qualcuno: lui non voleva uccidere questa persona, non aveva niente contro questa persona, non la conosceva nemmeno. Gli sono state date le aggravanti per futili motivi, ma i futili motivi non c’erano, perchè non c’erano proprio motivi, perchè lui non voleva uccidere. Ci si può chiedere: “Ma perchè era lì con il taglierino?” Ma voi non lo conoscete, lui andava sempre in giro con giraviti e taglierini; ce li aveva sempre, perchè, dovunque si trovava, lo chiamavano di qua, di là. Non aveva intenzione di rapine ed altro, anche perchè è stato trovato tutto in macchina, nella macchina di quest’uomo. E quest’uomo è morto, ma se fosse vivo lo direbbe. Perchè mio marito non voleva niente, quest’uomo diceva: “Prendi il portafogli, prendi il computer”, ma mio marito continuava a dire: “Voglio tornare a casa”. Mio marito aveva un bancomat, mio marito aveva un suo budget. Non ha senso che lui è andato lì ed ha ammazzato questa persona, e gli hanno messo i futili motivi: non c’erano motivi, non c’era alcun motivo. Quello che il giudice non è riuscito a capire e l’avvocato non è riuscito a spiegare, non lo so, o quant’altro, era che è stato purtroppo un incidente: un maledetto incidente; sono state delle coincidenze che si sono messe insieme, un destino, non lo so… Perchè comunque, se quest’uomo gli avesse dato questo questo maledetto passaggio, quest’uomo era vivo, era vivo. E poi, se anche non gli voleva dare il passaggio, se scappava dall’auto e andava via poteva andare diversamente, ma rimanere a litigare con qualcuno che non si conosce…e se mio marito avesse avuto una pistola?  Ma armi da fuoco non ne aveva, benchè la vittima non lo potesse sapere… E comunque, non è stata rimarcata questa situazione: mio marito non voleva uccidere nessuno, voleva solo tornare a casa.

Attualmente Cosimo, che accetta in modo costruttivo la sua pena, vede ostacoli al suo percorso di recupero, sancito anche dall’articolo 27 della Costituzione: puoi esporre cosa sia accaduto e cosa auspicate?”

La situazione attuale di mio marito in carcere è una situazione pessima e tragica. Come ho già detto, lui si trova nel carcere di Foggia, dove si è recluso da circa due anni… E a Foggia non lavora, non frequenta corsi, niente, nè scuole, non fa colloqui con l’educatore, con l’educatrice, nè psicologo; non ha possibilità di curarsi nella mente, con qualcosa di psicologico, ma nemmeno nel corpo perchè là non si va oltre la tachipirina. E’  tragica per il covid, vabbè, perchè è pieno; non hanno frigoriferi, per poter avere un biccher d’acqua fresca in questo periodo. Non effettua colloqui, perchè siamo lontani; non ci sono ventilatori, non c’è alcuna possibilità di reinserimento, di fare un giusto percorso, di fare niente. Può stare solamente in cella, quasi 24 ore su 24, a pensare e a uscire fuori di testa. Questa è la situazione oggi. Io mi auguravo che comunque scontasse una pena, come è giusto, e anche voluto da lui, ma in un carcere dove lui non considerasse il suo tempo, un tempo perso, ma quantomeno poter contribuire a un aiuto alla famiglia, a un sostentamento, a un reinserimento, a un percorso: questo è quanto.

Manca la volontà di adeguare queste strutture, di mettere personale, di far sì che le cose siano più vivibili. Ce ne sono tante cose che vengono in mente a me, persona diciamo, fra virgolette, ignorante, che si potrebbero fare, con un po’ di volontà, e per rendere la pena più agibile, sia per loro che per i familiari. Comunque, ripeto, gli istituti di pena, le carceri, sono luoghi dove le persone vanno a scontare una pena che gli è stata inflitta dal giudice, e va bene così, ma non è un luogo dove si vada per essere puniti giornalmente.  Invece, nei fatti sono luoghi dove la dignità viene mortificata, per la mancanza di acqua, la mancanza di doccia, la mancanza di ventilatori, si vive fra sporcizia, blatte e topi… se si hanno soldi ti compri da mangiare, se no guardi il Sole, quando esce e quando entra… E tutte queste cose qua non ci dovrebbero essere in un mondo civile, in un Paese civile, anche con le persone che hanno sbagliato. Vediamo un po’ i canili (ed io sono un’animalista convinta): non è che possiamo dire, vabbè, sono cani, e li teniamo rinchiusi nelle gabbie roventi, senz’acqua, senza niente: e questo non si fa… E questo non si fa nemmeno per i detenuti, che comunque sono persone che hanno sbagliato, ma sono comunque sempre persone. Quindi, se noi non gli abbiamo dato la pena di morte, e gli abbiamo dato una pena da scontare, gliela dobbiamo far scontare questa pena, ma in modo dignitoso, altrimenti a questo punto si rimette la pena di morte, si uccide e ci si toglie il pensiero, ma a che cosa serve? Questa situazione non si deve accettare.  Poi, i detenuti, a mio parere, creano comunque un’entrata allo Stato: lascia perdere gli avvocati, e quant’altro, quelli che comunque ci mangiano sopra, ma anche nelle carceri, perchè i familiari portano il cibo, i familiari portano i soldi per quello che serve, addirittura se una persona si fa male, ha bisogno di gesso, di un tutore, lo deve comprare, e se non ha i soldi, non lo comprano e non glielo mettono, ma di cosa si sta parlando? Non è garantito niente, io penso che sia la mancanza di volontà, assolutamente…perchè, con un po’ di volontà, non dico che tutto andrebbe bene, però il 60%, il 70% di questi problemi andrebbero risolti subito, e con facilità…Però, manca l’interesse, manca la volontà, perchè comunque i nostri politici sono quasi tutti giustizialisti…finchè non capitano loro  in certe situazioni, perchè quando capitano a loro, accidenti….Però c’è anche da dire che quando capita a loro, loro ce li hanno i soldi per vivere una vita dignitosa là dentro, mentre noi familiari facciamo i salti mortali per poter mandare 50 euro a settimana, per poter far la spesa. Non va bene questo, non va bene, non è così, perchè comunque, se mio marito ha sbagliato, la pena la deve pagare lui, non la devo pagare io.  Per dirtene una, mio marito sono due anni che è in attesa di fare un intervento alla coliciste: lo portano in ospedale, gli fanno fare la flebo, per i dolori, e lo riportano in carcere; riguardo questo intervento, l’ultima volta il medico aveva detto: “Si deve fare assolutamente”, c’è il rischio, a parte che gli venga una colica là dentro, che finchè si organizza la scorta, ci voglia tempo,  finchè si porta in ospedale, come arriva, come non arriva, non lo sappiamo. Per cui sono due anni che mio marito ha bisogno di fare questo intervento di colecisti, e non viene portato in ospedale…cioè sono tante di quelle cose, tante. L’ultima volta aveva bisogno degli occhiali, e sono stata io a comprargli gli occhiali, fargli la richiesta, a spedirglieli…cioè no, non va bene così. Mio marito ha fatto tanto bene, a tutti: tantissima gente se lo ricorda; poi ha fatto un errore grande, accidenti, però non è giusto che per quell’unico errore si debba cancellare tutta la sua vita, in cui ha fatto del bene. Nonostante che lui avesse problemi, però cercava sempre di aiutare gli altri. Sì, sono di parte, è mio marito, lo amo, però anche se fosse un estraneo…cioè non è che parlo così singolarmente: quanto dico vale anche per altre persone.

Forse sono strana io, però sono stata sempre così, non solo perchè mi ci trovo dentro. Anche nei fatti di cronaca, io guardo sempre l’altro lato, non so perchè, se è questione di empatia, se è questione che sono nata “sbagliata”, sono nata “dall’altra parte”, non lo so. Però…io guardo sempre l’altro lato: io mi chiedo sempre: “Perché è successo? Come mai? Cosa è scattato, cosa non è scattato?  Che cosa poteva essere fatto, che cosa è cambiato? Io credo che c’è sempre qualcosa oltre le apparenze. Tranne nei casi in cui una persona abbia problemi mentali conclamati, non è che una persona si alza al mattino, e dice, vabbè divento cattivo, e incomincio a fare del male a tutti: non credo in questa cosa; io credo che comunque ognuno di noi è portato a fare del bene, è portato a fare del male. Anche una persona bravissima e buonissima, in tutta la sua vita, sotto, magari esasperazione, sotto dolore, sotto rabbia, sotto sofferenza, può anche commettere qualcosa che, guardandosi indietro, direbbe io non l’avrei mai fatto, questo.

Vorrei aggiungere che non c’è la pena di morte, ma c’è la morte di pena, quindi non è particolarmente differente; non c’è la pena di morte, perchè non si muore subito, ma comunque c’è la morte di pena, persone che ci muoiono lì dentro. In carcere ci sono persone ultranovantenni, ci sono persone in fin di vita, terminali…cioè, quindi, non c’è la pena di morte, ma c’è la morte per pena… Quindi, un po’ di umanità ci deve essere, soprattutto per chi giudica, perchè chi giudica, lo fa verso persone che hanno fatto qualche misfatto, non è che possono giudicare persone che non hanno fatto niente. Verso quelle persone ci vogliono soprattutto un po’ di amore, un po’ di empatia. Non possono neanche venire a dire, nel caso specifico: “Come l’amore che ha avuto tuo marito nei confronti di quel ragazzo?”:

Tornando al linciaggio mediatico, sì, con Facebook, con messenger, ma poi basta leggere su Google, per vedere quello che hanno scritto i giornalisti, della storia, della vicenda, se non erro anche il “Graffio” contattò il mio avvocato, all’epoca, perché voleva fare un’intervista, ma io dissi assolutamente no, perchè non sono Michele Misseri, non mi metto in mostra così, poi non sapevamo ancora in che modo sarebbe andato il processo: che cosa vengo a fare? E quindi rifiutai. Tornando al linciaggio, c’è stato, verso di me, verso mia figlia, verso i familiari, i conoscenti…verso tutti…ma tutt’ora, oggi. Ora ti spiego una situazione che mi era accaduta l’anno scorso: ero entrata in un bar, a prendere un caffè, durante l’orario di servizio, e fuori, a fianco al bar, c’era una cosiddetta signora, che fumava una sigaretta, che parlava con un mio collega; parlavo anch’io con questo mio collega. Si parlava con questo collega del fatto del covid, non stanno facendo niente per gli ospedali, non stanno facendo niente per le persone anziane, e io dissi: “Se è per questo, non stanno facendo niente nemmeno per i detenuti”. Questa signora si volta verso di me e mi dice: “Fosse per me, potrebbero morire tutti, i detenuti: perchè sono la feccia dell’umanità, sono quelli che sporcano il Paese”. Io la guardai in faccia, e le dissi: “Forse stai parlando così perchè non hai nessuno, o non conosci nessuno, o comunque non hai nè marito nè figli”; lei rispose: “Sì, in effetti, sono single: non ho marito nè figli”. Le dissi: “Se avessi dei figli, potresti pensare che un giorno potrebbero commettere un errore, e comunque, anche se non hai figli e non hai marito, nessuno ti dà questa autorevolezza, di dover parlare in questa maniera”. Abbiamo avuto un bruttissimo battibecco: questo mi ha fatto pensare tantissimo: come può la gente pensare in maniera così brutta, così cattiva, spregevole.

Allora,  se anche non si avesse qualcuno in carcere, c’è da considerare: comunque sia, il carcere dà lavoro, dà lavoro alla polizia penitenziaria, dà lavoro agli educatori,  dà lavoro agli assistenti sociali, dà lavoro a magistrati, avvocati,, e quant’altro; è comunque un luogo dove non stanno solamente i detenuti, chi ha commesso un reato: è un luogo dove tanta gente la mattina ci va a lavorare, e la sera torna a casa… Per cui, voglio dire, di che stiamo parlando? E se non ci fossero i detenuti? Tutta quella gente, che faceva? Tutti contadini, o tutti operatori ecologici, come me? Che lavoro facevano? Cioè, non si riesce a riflettere abbastanza che c’è un mondo dentro il carcere, c’è un mondo. E non necessariamente chi sta in carcere è una brutta persona, come non necessariamente chi è libero è una brava persona. C’è tanta gente che è fuori, fa reati, e non viene arrestata, libera…ma non vuol dire questo che sia una brava persona. Quello cioè che voglio far capire io è che si sia in carcere perchè si è fatto un reato, si sia stati scoperti, o ci si è consegnati da soli. Non andare in carcere non vuol dire essere bravi; non andare in carcere, molte volte, vuol dire anche essere furbi, essere ricchi, e potersi pagare qualsiasi cosa, e non farsi prendere mai…cioè non necessariamente che chi è fuori è bravo, e chi è dentro è cattivo. Vedi, Antonella, ti faccio un esempio: io ho 49 anni, e sono nata in una famiglia atipica, in quanto comunque ero maltrattata, ho subito abusi di tutti i tipi, di tutti i generi, fin da piccola, fin dalla tenera età: dai cinque ai dodici anni, e sono scappata via di casa, sono stata per strada. Ho subito di tutto nella mia vita, nella mia infanzia. Poi, ho avuto i miei figli, sono diventata adulta; questo non mi ha portata a incattivirmi, di tutto quello che avevo passato io, di farlo passare sui miei figli: assolutamente no. Anzi, io ho cercato di riparare quegli errori che erano stati fatti su di me…ovviamente che mi hanno lasciato lo strascico, che mi hanno lasciato l’amaro, quando ci penso e quando mi ricordo quello che ho passato, quello che ho subito…ma comunque sia io ho voluto dare la parte diversa ai miei figli: ho voluto dare la presenza, l’amore, l’educazione, la famiglia, la pace, il lavoro. Proprio questo ho voluto dare ai miei figli: non si giustifica quindi che queste persone parlino con spietatezza dei detenuti, perchè comunque il male si deve troncare. Anche io potevo continuare la strada di alcuni familiari non sempre corretti, ma non volevo certo fare strage degli altri, non volevo certo il male dei miei figli, piuttosto ho voluto dire non va bene al male. Se non è andato bene per me, perchè lo dovrei fare ai miei figli? Il male va stoppato; mio marito, pure se ha fatto del male, è stato involontariamente, e voglio dire a certe persone: la soluzione mica è fare del male a lui? Poi altri lo faranno a voi: che cosa s’innesca, che cosa s’innesca? Per questo, il male va fermato.

marzo 27, 2022

Il misterioso caso della morte di Francesco Di Dio!

Intervista di  Antonella Ricciardi

Francesco Di Dio è deceduto nel carcere di Opera il 3 giugno 2020.

Dopo una iniziale ipotesi di omicidio colposo, s’indaga per una possibile azione di soffocamento esterno e di alterazione della scena del ritrovamento del corpo.

Risulta che sia stata distrutta la registrazione della videosorveglianza, nonostante la corretta e documentata richiesta nei tempi previsti. Tale distruzione è contraria alle indicazioni di un disciplinare della polizia penitenziaria, e la fasciatura, “gessatura” professionale ad un piede amputato di Francesco. La medicazione era normalmente opera di un infermiere del carcere, che operava più volte al giorno: l’unico a non avere ancora deposto, nonostante tutto. Nonostante il pentimento interiore, a Francesco sono stati negati tutti i benefici, malgrado indicazioni contrarie, recenti, della Corte Costituzionale.  A Francesco Di Dio, purtroppo, era stata negata, invece, perfino la detenzione ospedaliera. Gli errori di devianza nella Stidda, dovuti ad un disagio commesso a gravi problemi familiari e di tossicodipendenza, non dovevano precluderne diritto a salute, vita e reinserimento sociale; arresti ospedalieri.  L’odissea di Francesco viene così ripercorsa nelle parole della zia Maria.

Ricciardi: “Riguardo il caso di tuo nipote, Francesco Di Dio, purtroppo deceduto nel carcere di Opera il 3 giugno 2020, una situazione anomala riguarda la videosorveglianza, che è stata distrutta, nonostante fosse stata richiesta, correttamente entro i tre mesi richiesti. Cosa pensi di questa situazione, riguardo sue cause e possibili sviluppi?”

Di Dio: “Noi, famiglia Di Dio la richiesta della videosorveglianza l’abbiamo fatta fin da subito, quando è morto Francesco il 03/06/2020, telefonicamente tramite l’avvocato Eliana Zecca al direttore del carcere di Opera Silvio Di Gregorio.  Il 13 luglio 2020, dopo 40 giorni per iscritto, perciò entro i 90 giorni, e quindi i filmati erano “recuperabili”.

Silvio Di Gregorio risponde alla nostra richiesta il 6 novembre 2020, dopo 5 mesi, dicendo che le nostre richieste telefoniche sono avvenute in ritardo tra l’evento della morte e la nostra richiesta della videosorveglianza: assolutamente falso!!

Perché le nostre richieste telefoniche sono avvenute addirittura prima che noi facessimo la richiesta per iscritto.

Inoltre ha omesso che noi la richiesta l’abbiamo fatto anche per iscritto. Una furberia di Silvio Di Gregorio.

Il disciplinare della polizia penitenziaria precisa che quando succede un fatto rilevante il filmato si deve mantenere per 120 giorni, quindi quattro mesi. Quando c’è reato sei mesi più 30 giorni e siccome quando è morto Francesco Di Dio hanno aperto un fascicolo per omicidio colposo rientra in tutti e due i casi.

Inoltre il disciplinare della polizia penitenziaria specifica che l’accesso alle telecamere ce l’hanno: il direttore del carcere Silvio Di Gregorio e il comandante della polizia penitenziaria Amerigo Fusco.

Chi non rispetta la legge va punito e questi signori non sono a casa loro, ed in malafede non ci hanno voluto dare il filmato.

Inoltre, desidero ricordare che a marzo 2020 nel carcere di Opera c’è stata una rivolta dei detenuti per problema covid: in quell’occasione il direttore del carcere di Opera ha conservato la videosorveglianza, mentre quando è morto mio nipote NO.

Silvio Di Gregorio ha adottato due pesi e due misure. I filmati per accusare i detenuti se li è conservati. I filmati per la morte di un detenuto, che è fatto rilevante, NO.”

Ricciardi: “Un altro aspetto cruciale riguarda la situazione della fasciatura del piede amputato di Francesco: lo stesso medico legale nota che si trattava di una medicazione complessa, dentro la quale sono stati trovati hashish, psicofarmaci, una chiavetta Usb con file musicali ed un filmato pornografico; la complessità della medicazione, professionale, fa pensare che non sia stata opera di Franco. Cosa pensi di questa situazione? Anche considerando che l’ infermiere risulta l’unica persona a non avere deposto.”

Di Dio: “Penso che il tipo di fasciatura è stata fatta da una figura professionale specializzata qual è l’infermiere ed è lui che l’ha fatta il giorno che è morto mio nipote Francesco, ed è ancora lui che ci deve dire chi ha messo gli psicofarmaci, l’hashish e la chiavetta USB nel piede di Francesco.

Francesco è come se avesse avuto un piede rotto, un piede ingessato, fatta di tante garze e fasciature e cotone; fa pensare che il tutto sia stato nascosto prima che gli facessero la fasciatura complessa, perché in un piede ingessato non si può arrivare a nascondere nulla e soprattutto all’avampiede, che non ci si può arrivare con la mano a prendere o lasciare qualcosa e poi la fasciatura è stata trovata senza sgualciture e squarciature, ma intatta. Se li avesse nascoste lui, li avrebbe nascosti lateralmente nel piede, e non certamente nella cicatrice dell’amputazione, che era una parte dolorante e sensibile. Quando camminava e rintuzzava la cicatrice nella carta con cui riempiva la scarpa provava dolore: era una parte del suo corpo che lui non avrebbe provato ulteriormente.

Personalmente non gli ho mai visto una fasciatura di quel tipo su Francesco quando andavamo a fare i colloqui, gli ho sempre trovato una sola fascia senza cotone e garze; insomma, una fasciatura leggera.”

Ricciardi: “Altre anomalie riguardano l’ultima visualizzazione del filmino a luci rosse, certamente non visto da Francesco in quella occasione, poichè l’ultimo accesso risaliva al 2018.  Inoltre, era stato chiamato a testimoniare un detenuto, “vicino” di cella, che non risultava essere uno degli abitali vicini: un certo Feliciello. Cosa pensi possano significare tutti questi dati? Ci sono ipotesi e/o convinzioni che tu abbia maturato maggiormente al proposito?”

Di Dio: “Il perito nominato dal Tribunale di Milano ha scritto nero su bianco che il film per adulti è stato copiato il  18/09/ 2018, che è la stessa data dell’ultimo utilizzo. Molto probabilmente la chiavetta è stata sequestrata dalla polizia penitenziaria lo stesso giorno che è stato copiato il film per adulti e tenuto da loro fino al 03/06/2020, giorno  della morte del mio caro nipote Francesco e ricomparsa magicamente nel piede di mio nipote;  ed ecco che adesso spunta anche la complicità delle guardie nell’aver dato all’infermiere la chiavetta usb per inserirla nella fasciatura del piede.

Sempre il perito del Tribunale di Milano afferma che la chiavetta è stata utilizzata su più dispositivi, perciò non era di mio nipote.

Quando andavamo a fare i colloqui Francesco portava tanti dolcetti comprati in carcere ad Opera ed anche il caffè, noi gli dicevano che il caffè era fatto buono e mio nipote in quel momento iniziava ad elogiare il detenuto Orazio Paolello, che si trovava di fronte alla sua cella dicendo che l’aveva fatto lui.

La cosa molto strana è che il giorno della morte di mio nipote di fronte alla sua cella ci si trovava un certo Feliciello Domenico. Franco non ha mai parlato di Feliciello.

Infine un altra fatto molto strano è che Feliciello si trovasse nella sezione di Franco, in quanto Feliciello proveniente da un’associazione diversa di Franco.

Quando andavo in carcere, una signora mi ha spiegato che in carcere i detenuti li dividevano in base all’associazione di appartenenza per evitare che litigassero tra di loro.

Quindi il Feliciello era fuori luogo nella sezione di Franco, in quanto appartenente ad una diversa associazione.

In effetti non so cosa pensare sullo spostamento dei detenuti. Forse, Paolello è stato spostato per non fare vedere e per non fare sentire quello che succedeva.”

 Ricciardi: “La vicenda di tuo nipote è particolarmente straziante, per diversi aspetti, differenti, ma che s’intrecciano: gli venivano negate tutte le attenuazioni del grado d’intensità della pena, nonostante la buona condotta e la funzione rieducativa della pena, sancita dall’articolo 27 della Costituzione.  Cosa pensi di queste possibili responsabilità diffuse?

Di Dio: “La storia di mio nipote Francesco è straziante su diversi aspetti intanto perché è stato ucciso dentro il carcere di Opera mentre era in custodia dello Stato. 

Francesco è entrato in carcere quando aveva appena 18 anni, sano e pieno di vita e ce l’hanno restituito morto. Secondo l’art. 27 della Costituzione la pena deve costituire la limitazione della libertà e non deve essere contraria al senso di umanità.

Invece mio nipote è stato torturato umiliato anche davanti alla famiglia,

 non una volta ma tantissime volte.

Per Francesco abbiamo chiesto gli arresti ospedalieri, perché il carcere non è un ospedale e non ce li hanno concessi.

Quando chiedevamo gli arresti ospedalieri la direzione sanitaria del carcere ha risposto anche quindici giorni prima che Franco stava bene, adesso che è morto in carcere dice che stava male ed aveva tante patologie; insomma dicono quello che gli fa più comodo a secondo le circostanze e non la verità

La verità è che Franco aveva necessità di uscire dal carcere, tante volte le malattie si manifestano quando l’anima non ce la fa più a sopportare le atrocità, aveva diritto a una struttura alternativa per il morbo di Burger, che era un urlo alla sua disperazione. Noi gli leggevamo il terrore negli occhi, la polizia penitenziaria si intrometteva anche nelle videochiamate.

Il morbo di Burger è stato un urlo della sua anima, che nessuno ha voluto sentire.

Se Franco quando era piccolino ha sbagliato per devianza della droga e per altri disagi, lo Stato ha sbagliato doppiamente nei suoi confronti, perché si è vendicato su un ragazzino e non su un boss come l’aveva definito il giornale “la Repubblica” negli anni ‘90. Poi Franco si era ravveduto moralmente. Nella vita tutti sbagliamo e tutti  meritiamo una seconda possibilità di vita.”

 Ricciardi: “Due domande in una: cosa ti aspetti dalle indagini in corso? C’è altro che senti di esprimere riguardo questa vicenda, così altamente simbolica?”

Di Dio: “I primi otto mesi dopo la morte di Franco ci siamo affidati completamente alla giustizia italiana, senza presentare nessuna denuncia. Ma siamo stati delusi profondamente perché il Pm Cristian Barilli ha chiesto l’archiviazione.  Il caso di mio nipote non è stato archiviato perché il nostro medico legale ha affermato che Franco è morto per asfissia provato dall’esterno ed è passato al Tribunale di Milano. Noi da parte della Procura di Milano non sappiamo nulla, perché le indagini sono secretate.

Spero che il Tribunale di Milano prenda a cuore il dramma di  mio nipote e della sua i famiglia, affinché venga fuori la verità e i colpevoli consegnati alla giustizia e che dentro le carceri non succeda mai più quello che è successo a Francesco.

Non servono strutture nuove quando il carcere è criminale, invece serve innanzitutto togliere dal carcere chi ci lavora con mentalità criminale. Mi aspetto che Franco venga ricordato come martire della giustizia italiana, affinché vi sia un carcere più umano e corretto.

Il carcere dovrebbe essere contrario ad ogni forma di disumanità, ma purtroppo non è così, tutto ciò che dico è contemplato nella Costituzione. Ma alcuni lavoratori della polizia penitenziaria hanno una mentalità criminale superiore ai detenuti che invece di rieducarli, li ammazzano.

E’ un bene che si sappia quello che succede dentro le carceri.

Dentro le carceri deve essere affermato lo stato di diritto e non macellerie. Ovvio che non parlo di tutte le carceri ma quelli che ho visitato io sono simili; nel mio immaginario pensavo che il carcere di Opera, trovandosi a Milano, doveva essere più avanti come civiltà. Invece è il peggiore tra quelli che ho visitato ed in primis dovrebbe vergognarsi Silvio Di Gregorio e il comandante della polizia penitenziaria Amerigo Fusco.”

giugno 16, 2013

Nyt critica i Cie: sono come le carceri.



In un reportage il New York Times racconta la drammatica condizione di chi vive nei Cie, come quello romano di Ponte Galeria: non sono delle prigioni, ma si vive come in carcere.

I centri di identificazione ed espulsione (Cie) degli immigrati clandestini, come quello romano di Ponte Galeria, sono in realtà delle carceri. Lo ha scritto oggi con ampio rilievVisualizza altro

aprile 9, 2011

Fare sesso in carcere è un diritto!

Bernard Rappaz è diventato famoso in Svizzera e anche all’estero per i suoi scioperi della fame, che hanno messo a rischio la sua vita. Il coltivatore elvetico di marijuana è così diventato un simbolo delle lotte per i diritti dei detenuti, ed insieme ai suoi compagni di cella ha ora lanciato una nuova battaglia. Se uno può scioperare dalla fame per scelta, l’astensione al sesso, alle carezze e all’intimità con chi si vuole bene è invece coatta. Ecco perché il 58enne vallesano, insieme ad altri 29 prigionieri, hanno chiesto una stanza coniugale per poter incontrare le proprie compagne.

giugno 29, 2010

Ancora un suicidio in carcere: è il 32° dall’inizio dell’anno.

Ancora un suicidio nelle sovraffollate carceri italiane.

La notte scorsa – secondo quanto si e’ appreso – si e’ tolto la vita nel carcere circondariale di Giarre (Catania) Marcello Mento, detenuto comune di 37 anni.

Cosa ne pensa il ministro Alfano?

L’uomo e’ stato trovato impiccato con un cappio al collo alle sbarre della finestra del bagno della cella. Dall’inizio dell’anno – secondo il calcolo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – e’ il trentaduesimo detenuto che si toglie la vita.