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aprile 26, 2022

 SOCIALISTI CONTRO…….

Di Beppe Sarno

ll 20 ottobre 1914 la direzione nazionale del Partito socialista Italiano firmava un documento che aveva le seguenti conclusioni “in mezzo al fragore delle armi, innanzi all’orrore della guerra, noi socialisti d’Italia dobbiamo dire :il partito socialista è contro la guerra per la neutralità. Contro la guerra per la neutralità perchè così vuole il socialismo che per noi vive e per cui l’Internazionale oggi perita dovrà tornare vigorosamente a risorgere.” Il 24 novembre 1914 La sezione milanese del Partito Socialista Italiano chiedeva di espellere Benito Mussolini in disaccordo sulla sua tesi di intervento italiano nella Prima Guerra Mondiale al fianco dei Paesi della Triplice Intesa.

Matteotti, il disobbediente, l’unico a capire la pericolosità del fascismo, fu uno strenuo oppositore della guerra proponendo iniziative di boicottaggio,   bloccare i treni che portavano armi al fronte, lo sciopero generale  e contrastò in ogni modo il partito quando lanciò lo slogan “né aderire, né sabotare”

 Giuseppe Modigliani in un famoso discorso tenuto alla camera dei deputati il 9/11 dicembre 1914 , propose di indire uno sciopero generale contro l’entrata in guerra a fianco delle potenze dell’Intesa (Francia, Inghilterra, Russia) contro gli Imperi centrali (Germania, impero austro-ungarico). Karl Liebtnech In una relazione tenuta a Mannheim nel 1914 riportata nell’Avanti del 2 gennaio 1915 afferma testualmente “ il proletariato sa che le guerre che la classe capitalistica sta facendo per interesse proprio, sono proprio le guerre che più pesano sulle spalle della classe lavoratrice imponendole e più gravi sacrifici di lavoro e di denaro. Il proletariato sa che ogni guerra travolge i popoli in  un’onda di barbarie e di volgarità e la civiltà ne viene annientata per anni e anni….. il proletariato non può quindi non essere profondamente e consapevolmente contrario alla guerra ossia a tutta la politica espansionista. Il proletariato ha un nobilissimo compito di combattere il militarismo nel modo più energico anche in questa sua manifestazione di violenta espansione capitalista.”  E segue  “Ci   troviamo       quindi    di    fronte    alla    più grande  tragedia   delle storia   di   puro  carattere  capitalistico,   che   si   consuma   in  uno  sfondo  grigio  di  basse  passioni   e  di  appetiti   insoddisfatti,   senza luce di    pensiero   e   genialità   di   aspirazioni.    Si  tratta  di   borghesie  giunte   ormai, qua    o   là,  all’apogeo  della   loro   forza    e    del    loro   sviluppo,    bramoso     continuamente   di   dominio    e   di   guadagno,    che    esauriscono   la   loro   funzione   in    barbariche   piraterie   od   in   ignominiosi   mercati,    e    rinnegano   e  sconfessano   i  loro   principi   del   «   pacifismo »  e  dell’   «  equilibrio  »     mentre   vergognosamente      si    palleggiano     le   responsabilità” (L’Avanti  del 7 gennaio 1915). Mai il giornale socialista venne meno alla sua funzione di sentinella contro la guerra denunciandone quasi quotidianamente come una guerra voluta dal capitalismo contro gli interessi delle classi lavoratrici.

Turati non riuscì a controllare il partito e dopo la scissione del 1912, con l’uscita di Bissolati per le sue posizioni interventiste (Carlo Tognoli lo definisce: “un liberal ante litteram”)  dovette mantener una posizione equilibrata e prudente che si condensò nella famosa formula “non aderire, non sabotare”.

Nel 1910 si tenne a Copenaghen il congresso internazionale socialista ed il dibattito più importante del congresso fu sulla guerra. Quasi tutti i delegati  erano d’accordo che l’Internazionale dovesse sollecitare i propri deputati all’interno dei propri parlamenti decisioni aventi ad oggetto un accordo tra le grandi potenze per la riduzione degli armamenti e che tutte le controversie tra gli  Stati venissero sottoposte ad arbitrato internazionale. I socialisti italiani  con  il relatore Morgari proposero una risoluzione che invitasse tutti i partiti socialisti con rappresentanza parlamentare a proporre ai propri parlamenti una riduzione del 50% di tutti gli armamenti. Alla fine fu approvata una risoluzione presentata da Vailland e Keir Hardie con l’appoggio del partito laburista britannico e del partito socialista francese che affermava “tra tutti i mezzi da usare per prevenire e impedire la guerra, il Congresso considera particolarmente efficace lo sciopero generale degli operai, soprattutto nelle industrie che producono gli strumenti bellici (armi, munizioni, trasporti, etc) oltre all’agitazione e all’azione popolari nelle loro forme più attive.”

Anche il successivo  Congresso di Basilea nel novembre 1912 ebbe esclusivo l’argomento della guerra e soprattutto la posizione dei socialisti contro la guerra in corso nei Balcani per impedire che il conflitto si allargasse.

nel 1914 si tenne in Francia il Congresso dell’internazionale già fissato per Vienna, che non si era potuto tenere per l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando erede al trono austriaco. La risoluzione approvata dall’internazionale socialista invitava tutti i movimenti operai dei paesi interessati affinché la controversia austro-serba venisse composta tramite arbitrato.  il 31 luglio successivo Jan Iaures veniva assassinato da un giovane reazionario in un ristorante mentre teneva una riunione con i colleghi della redazione dell’Humanitè.

Diversa fu la posizione dei socialisti Del Belgio i quali per effetto dell’ultimatum del governo tedesco di ottenere l’autorizzazione a traversare il territorio Belga si schierarono praticamente dalla parte della difesa nazionale.  Gli stessi socialdemocratici tedeschi  votarono compatti a favore dei crediti di guerra. Lo stesso Karl Liebtnech si adeguò alla volontà della maggioranza del partito. Il famoso gruppo degli spartachisti composto da Rosa Luxembourg  nel 1916 votò contro  il rifinanziamento dei crediti di guerra e per questo motivo furono espulsi dal Partito. La nascita del USPD determinò in Germania l’esistenza di due partiti di ispirazione socialista. A questa seconda organizzazione aderirono i capo storici del socialismo radicale e successivamente anche la  lega degli spartachisti.  Va osservato che Karl Liebtnech in un successivo momento decise di rompere la fedeltà al partito e votò  da solo contro gli  stanziamenti per la guerra e motivò la sua posizione in uno scritto in cui affermava che la guerra era il risultato dell’ imperialismo capitalistico che avrebbe avvantaggiato solo le forze imperialistiche che l’avevano provocata, che sarebbe stata usata per schiacciare il movimento dei  lavoratori nei  paesi belligeranti. La Germania combatteva quella guerra non per legittima difesa ma con fini espansionistici.

Karl Kautsky in un articolo pubblicato in Italia dalla “Critica sociale” difese la scelta dei socialisti tedeschi affermando “Ogni nazione deve difendere la propria pelle, donde segue che il partito socialista di tutte le nazioni ha lo stesso diritto e lo stesso dovere di partecipare a questa difesa.”(Critica Sociale pag 375/2014). La “Critica” a commento dell’articolo scriveva “Kautsky, unificando governi e governati,  astrae dal fenomeno di classe e ……non risolve in dottrina quale deve essere la condotta dei socialisti a guerra scoppiata.” I socialisti italiani criticarono aspramente le scelte dei socialisti tedeschi di votare a favore dei crediti di guerra “ Il Partito socialista tedesco legato all’Internazionale, il quale con la sua tenace resistenza ai criminali del patriottismo ufficiale e imperiale soleva fare scuso alla Germania delle simpatie del proletariato internazionale. Ma il partito Socialista Tedesco ad un certo punto si mise a spezzare tutto ciò …lasciò compiere l’infamia della distruzione del Belgio, lasciò passare la distruzione delle città e l’assassinio collettivo dei neutri…Così il Partito socialista tedesco, ha servito la Germania con la stessa stolidità cieca del suo kaiser e dei suoi kaiseriani. “ e conclude “Quale orrore! Quale delitto contro la patria, contro l’Umanità! ()Critica sociale 1915 p. 165/166)

In Inghilterra nel periodo precedente la prima guerra mondiale non c’era un  partito socialista che potesse essere paragonato ai partiti socialisti di massa che c’erano in Francia, Germania, Austria, Italia. Certo c’era la Fabian Society, l’0ILP il Partito Laburista da cui nacque in seguito ad una scissione il Brithis Socialist Party. In Inghilterra nel period0 19010-1914  vi furono una catena di scioperi mai visti in precedenza ma tutti riguardavano in buona sostanza rivendicazioni salariali e sulle condizioni di vita dei lavoratori. Il personaggio più vicino ai socialisti della seconda internazionale fu sicuramente Keir Hardie. Devoto internazionalista diventò un ardente sostenitore dello sciopero generale per impedire la guerra.  Secondo Franco Astengo “In Gran Bretagna la resistenza alla guerra è più forte: si dimette il presidente del gruppo parlamentare laburista Mac Donald e quattro deputati dell’Indipendent Labour Party votano contro: ma la grande maggioranza dei dirigenti delle trade unions, la maggioranza del British Socialist Party e numerosi fabiani (ancorché la società fabiana non prenda ufficialmente posizione) approvano.” Anche se storicamente rappresenta la verità è pur vero che Ramsay Mac Donald era un personaggio ambiguo ed il suo atteggiamento contro la guerra non fu sempre chiaro. Dal 1929 al 1931 divenne primo ministro del secondo governo  laburista.

Altrettanto ambiguo il comportamento dei menscevichi in Russia divisi fra l’avversione alla guerra e quelli che invece appoggiarono le scelte dello Zar.

Nel maggio 1915 i socialisti italiani Lanciarono d’accordo con gli svizzeri “un appello per una conferenza socialista internazionale, rivolto a tutti i partiti, organizzazioni operaie, gruppi che erano rimasti fedeli ai vecchi principi dell’internazionale e che erano disposti abbattersi contro la politica di pace interna per la lotta di classe, che per un’azione unitaria dei socialisti in tutti i paesi contro la guerra. Il punto di sintesi sulla posizione dei socialisti controlla guerra fu trovato a Zimmerwald uno Svizzera dove si tenne una conferenza internazionale a cui parteciparlo i rappresentanti di 42 partiti socialisti nazionali dovuto Italia, Svizzera, Olanda, Svezia Norvegia Russia Polonia Romania Bulgaria. Ero presente anche per la Russia bolscevichi  e menscevichi e socialisti rivoluzionari di sinistra. la conferenza di Zimmerwald viene indicata come la madre della terza internazionale. Il documento finale recitava “Questa guerra non è la nostra guerra” e impegnava tutti i socialisti “a condurre un’incessante agitazione per la pace e costringere i governi a porre fine al massacro”. E concludeva “I socialisti dei paesi belligeranti hanno il dovere di condurre questa lotta con ardore ed energia; i socialisti dei paesi neutri hanno il dovere di sostenere con mezzi efficaci i loro fratelli in questa lotta contro la barbarie sanguinosa.

Mai fu nella storia una missione più nobile e più urgente. Non vi sono sforzi e sacrifici troppo grandi per raggiungere questo scopo: la pace fra gli uomini. Operai e operaie, madri e padri, vedove e orfani, feriti e storpiati, a voi tutti, vittime della guerra, noi diciamo: al di sopra dei campi di battaglia, al di sopra delle campagne e delle città devastate: Proletari di tutti i paesi unitevi!”

Malgrado il documento fosse approvato all’unanimità Lenin ed altri cinque delegati (Zinoviev, Radek (delegato di Brema), Hoglund e Nerman (rappresentanti dell’estrema sinistra scandinava) e il delegato lettone Winter.) presentarono un documento con lo scopo di  spostare a  sinistra il dibattito fra i socialisti. Nel documento si leggeva “La guerra che da più di un anno devasta l’Europa è una guerra imperialista per lo sfruttamento economico di nuovi mercati, per la conquista delle fonti di materie prime, per lo stanziamento di capitali. La guerra è un prodotto dello sviluppo economico che vincola economicamente tutto il mondo e lascia al tempo stesso sussistere i gruppi capitalisti costituitisi in unità nazionali, e divisi dall’antagonismo dei loro interessi. Col tentativo di dissimulare il vero carattere della guerra, la borghesia ed i governi, i quali pretendono che si tratti di una guerra per l’indipendenza, di una guerra che è stata loro imposta, non fanno che trarre in inganno il proletariato, perché in realtà lo scopo della guerra è proprio l’oppressione dei popoli e di paesi stranieri. Lo stesso è delle leggende che attribuiscono ad essa il ruolo di difesa della democrazia, mentre invece l’imperialismo significa dominio più brutale del grande capitalismo e della reazione politica. ……(sequitur)” Lenin e i suoi compagni non volevano che l’Internazionale si limitasse a promuovere Azioni di lotta per la pace, ma con quel documento si voleva spingere a s far nascere in ogni paese la guerra civile per realizzare la rivoluzione socialista. L’obbiettivo fu raggiunto nella successiva conferenza di Khiental, sempre in Svizzera le cui conclusioni furono che non si sarebbe potuta raggiungere la pace senza una rivoluzione socialista che portasse al potere la classe operaia.

Inutile proseguire fino ai giorni nostri per dimostrare che i socialisti storicamente sono allineati contro la guerra e per la neutralità. Il novecento con le sue disastrose guerre è costellato da grandi martiri socialisti e comunisti che hanno dato la loro vita per la pace e contro la guerra.

Nella sciagurata guerra a cui stiamo assistendo nei resoconti giornalistici come un sequel televisivo in cui tutti i media sono schierati in maniera acritica dalla parte dell’Ucraina e che dipingono Putin come un pazzo assassinio assetato di sangue, come socialista non ho dubbio a schierami con Matteotti, Modigliani, Turati e gli innumerevoli personaggi che hanno speso la loro vita per combattere il pensiero unico dominate dei fautori della guerra e mi sentirei se fosse possibile farlo pronto a firmare senza riserve il documento approvato alla Conferenza di Zimmerwald. Mi sentirei molto più a mio agio nei panni di un socialista di inizi novecento con la cravatta rossa svolazzante a predicare per le neutralità e contro la guerra.

Il neutralismo dei socialisti non è non può essere un neutralismo passivo, impotente, ma viceversa un neutralismo vivi, attuale , duttile pronto a prendere iniziative, pronto a discutere con chiunque e sempre dalla parte dei più deboli.

Nessuno vuole la pace non la vuole al momento Putin il ci ministro della difesa dice che non è arrivato il momento per una trattiva di pace non  la vuole Zelesky, il quel oltre a chiedere più armi vuole solo continuare la guerra invocando la terza guerra mondiale. Di fatto questa guerra è il frutto di una diversa interpretazione del capitalismo da una parte un regime basato su un capitalismo oligarchico dall’altro un paese che ambisce ad entrare nel consesso del capitalismo occidentale. Sulla base di questa la guerra mediatica in corso, ancora più efficace forse delle bombe impone un consenso sulla guerra di maniera tale che tutte le categorie sociali di ogni nazione siano unite dallo scopo di parteggiare per una parte o per l’altra. Il frutto di questa guerra è un nazionalismo esasperato e la guerra diventa soltanto uno strumento di offesa e difesa, mentre invece questa guerra la decidono solo le classi dirigenti, nello stesso tempo le classi subalterne sono chiamate ad una anomala collaborazione, pena essere definiti fascisti o filo putiniani mettendo da parte ogni rivendicazione e calpestando ogni diritto. Si accetta senza fiatare l’aumento del costo dell’energia, del carburante, le limitazioni delle libertà, i sacrifici economici per mandare armi alla nazione amica. Si chiama in causa la democrazia, l’interesse della civiltà occidentale. Qualcuno ha detto se Putin occupa l’Ucraina poi verrà il nostro turno. La gente è chiamata a difendere la civiltà occidentale dalla minaccia del mostro russo. La vittoria dell’Ucraina, per Draghi e i suoi amici, è la vittoria della democrazia. All’inizio della pandemia si diceva “tutti insieme ce la faremo” si sperava in un mondo migliore. Sappiamo com’è andata. I ricchi più ricchi e i poveri in mezzo a una strada.

La verità da quello che si legge sui giornali e si vede per televisione e che non si innesca una trattativa  di pace perché Zelesky non vuole la pace: l’obbiettivo di Zelesky è la guerra. La vuole perché il suo sodale american Biden vuole lo scontro con la Russia per vederla finalmente sconfitta. Quando Gorbaciov voleva smantellare l’Urss e sostituirla con una federazione di stati socialdemocratici, l’occidente,  a parte i socialisti, e Craxi questo lo capì, preferì appoggiare il colpo di Stato di Eltsin.

Le multinazionali, appoggiate dal governo americano in prima fila, pensavano che un fantoccio come Eltsin e la corruzione dilagante in Russia avrebbe consentito loro di arricchirsi ed impadronirsi di interi stati e le ricche risorse  naturali che esse avevano. Il disegno non è riuscito ed allora oggi si ripropone quel progetto con la guerra. L’obbiettivo di Zelesky è la guerra non l’indipendenza del suo popolo ed egli usa lo spettacolo delle migliaia di morti come scudo umano per attirare il consenso sulle sue scelte. Dal canto suo Biden accecato dalla sua sete di potere insieme all’0ingilterra ed all’Italia soffia sul fuoco di questa guerra che deve divampare  sempre più ardentemente- La destra americana a sua volta lascia fare Biden in questa sua folle corsa verso la distruzione. A suo tempo i mezzi di comunicazione di massa faranno il loro mestiere convincevo il popolo americano che questa è una guerra ingiusta e che costa troppo ai contribuenti americani e Biden sarà disarcionato dal cavallo del potere. Purtroppo non succederà molto presto.

La  guerra non darà un risultato rispondente alle aspettative di coloro che aspettano il trionfo del diritto e della democrazia  e l’eliminazione di tutte le cause di futuri conflitti. Anzi più andremo avanti nel conflitto e peggio sarà. La Francia e la Germania hanno inteso che è giunto il momento di prendere le distanze dal loro alleato d’oltreoceano perché hanno capito che è follia volere accrescere le stragi che vediamo per le vie di Mariupol e farci trascinare ancora di più in un conflitto che non risolve alcun   problema dei lavoratori ma ne genera altri e ancora più gravi. L’Europa deve in questo momento dimostrare di essere autonoma dall’America e costringere Putin ad accettare una trattativa di pace basata su reciproche concessioni. Deve essere l’Europa per quel poco o molto di credito che ha nei confronti della Russia di Putin di farsi garante della pace laddove si raggiungesse un risultato dalla trattiva. Sappiamo bene che il nostro governo, asservito acriticamente su posizioni filoamericane non ha alcuna credibilità internazionale, laddove storicamente invece le nostre diplomazie primeggiavano. Dobbiamo quindi trovare gli strumenti per convincere il governo Francese e quello tedesco anche in considerazione che la Francia ha la presidenza del Consiglio dell’Unione Europea a chiedere n a Putin un immediato cessate il fuoco, su tutta la linea con interposizione di forze ONU prevalentemente europee, l’apertura di una conferenza di pace sulla configurazione internazionale dei territori contesi, la rinuncia definitva dell’Ucraina ad entrare nella Nato, con dichiarazione epslicita sulla sua neutralità, il ritiro delle sanzioni contro la Russia con un contributo della Russia a devolvere una parte degli introiti della vendita del gas a favore dell’’Ucraina per la sua ricostruzione.

Ni socialisti italiani siamo ormai una piccola pattuglia ma sulla guerra, come ho provato a dimostrare abbiamo le idee chiare. Dobbiamo quindi avere la forza di gridare e farci ascoltare  per convincere ad uscire all’orrore di questa guerra e riuscire a fermarla dimostrando concretamente il nostro antimilitarismo e il nostro internazionalismo. Contro il populismo ed il nazionalismo sostituiamo i doveri della solidarietà internazionale fra i popoli.  

aprile 24, 2022

Chi è Volodymyr Zelensky?

di Daniele Kalidou Maffione

Breve storia del leader profetizzato della “resistenza” ucraina.

●Nasce nel 1978 a Kryvyj Rih, in Ucraina meridionale.

Cresce in una famiglia di origini ebraiche. La sua prima lingua non è l’ucraino, ma il russo.

● Si laurea in giurisprudenza all’Università Economica Nazionale di Kyiv, poi persegue la carriera di attore.

● Nel 2003, insieme a Serhiy Shefir e Boris Shefir, Zelensky diviene il fondatore di 𝗞𝘃𝗮𝗿𝘁𝗮𝗹 𝟵𝟱 𝗦𝘁𝘂𝗱𝗶𝗼, società attiva nel settore dell’intrattenimento televisivo sulle emittenti ucraine, che produce film, cartoni animati e serie tv.

● Tra le serie più note di Kvartal 95 c’è <<Sluha Narodu>> (Servitore del Popolo).

In essa, Zelensky interpreta un professore del liceo che stanco della corruzione in politica, viene inaspettatamente eletto presidente dell’Ucraina.

● Nel 2017, Zelensky annuncia la fondazione di un suo partito: <<Servitore del popolo>>, rifacendosi alla popolare serie tv.

● Il 31 dicembre 2018, all’apice della sua carriera, Zelensky annuncia la sua candidatura alle elezioni presidenziali del marzo dell’anno successivo.

𝗜 𝗽𝘂𝗻𝘁𝗶 𝗳𝗼𝗿𝘁𝗶 𝗱𝗲𝗹 𝘀𝘂𝗼 𝗽𝗿𝗼𝗴𝗿𝗮𝗺𝗺𝗮 𝘀𝗼𝗻𝗼 𝗹𝗮 𝘀𝘂𝗮 𝗽𝗼𝗽𝗼𝗹𝗮𝗿𝗶𝘁𝗮̀, 𝗹𝗮 𝗹𝗼𝘁𝘁𝗮 𝗮𝗹𝗹𝗮 𝗰𝗼𝗿𝗿𝘂𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲, 𝗹𝗮 𝗹𝗶𝗺𝗶𝘁𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗼 𝘀𝘁𝗿𝗮𝗽𝗼𝘁𝗲𝗿𝗲 𝗱𝗲𝗴𝗹𝗶 𝗼𝗹𝗶𝗴𝗮𝗿𝗰𝗵𝗶 𝗲 – 𝗮𝗹𝗺𝗲𝗻𝗼 𝗶𝗻 𝗾𝘂𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗳𝗮𝘀𝗲- 𝘂𝗻𝗮 𝘀𝗼𝗿𝘁𝗮 𝗱𝗶 𝗲𝗾𝘂𝗶𝗱𝗶𝘀𝘁𝗮𝗻𝘇𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹’𝗨𝗰𝗿𝗮𝗶𝗻𝗮 𝘁𝗿𝗮 𝗥𝘂𝘀𝘀𝗶𝗮 𝗲 𝗦𝘁𝗮𝘁𝗶 𝗨𝗻𝗶𝘁𝗶.

● Proprio in questo periodo, la società d’intrattenimento fondata da Zelensky, la Kvartal 95, registra un anomalo flusso di finanziamenti, gestiti attraverso società off-shore con sedi in paradisi fiscali, per un ammontare di 𝟰𝟬 𝗺𝗶𝗹𝗶𝗼𝗻𝗶 𝗱𝗶 𝗱𝗼𝗹𝗹𝗮𝗿𝗶.

● Il principale sovvenzionatore della campagna di Zelensky sarebbe Igor Kolomoyskyi, potente uomo d’affari dal triplo passaporto ucraino, cipriota e israeliano, già sponsor delle serie televisive del comico, nonché uno dei principali oligarchi dell’Ucraina.

● 𝗦𝗲𝗰𝗼𝗻𝗱𝗼 𝗾𝘂𝗮𝗻𝘁𝗼 𝗲𝗺𝗲𝗿𝘀𝗼 𝗱𝗮𝗶 𝗣𝗮𝗻𝗱𝗼𝗿𝗮 𝗣𝗮𝗽𝗲𝗿𝘀 (𝗣𝗣), 𝗹𝗮 𝗽𝗶𝘂̀ 𝗴𝗿𝗮𝗻𝗱𝗲 𝗶𝗻𝗰𝗵𝗶𝗲𝘀𝘁𝗮 𝗴𝗶𝗼𝗿𝗻𝗮𝗹𝗶𝘀𝘁𝗶𝗰𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝘀𝘁𝗼𝗿𝗶𝗮, pubblicata la prima volta a ottobre 2021 dal Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi (ICJI), le transazioni verso Kvartal 95 sarebbero avvenute quando Igor Kolomoyskyi era ancora proprietario di 𝗣𝗿𝗶𝘃𝗮𝘁𝗕𝗮𝗻𝗸, la più importante banca in Ucraina, coinvolta in un caso di bancarotta fraudolenta e investimenti illeciti.

● 𝗜𝗴𝗼𝗿 𝗞𝗼𝗹𝗼𝗺𝗼𝘆𝘀𝗸𝘆, 𝗮𝗻𝗰𝗵’𝗲𝘀𝘀𝗼 𝗱𝗶 𝗼𝗿𝗶𝗴𝗶𝗻𝗶 𝗲𝗯𝗿𝗮𝗶𝗰𝗵𝗲, 𝗲̀ 𝘀𝘁𝗮𝘁𝗼 𝘂𝗻𝗼 𝗱𝗲𝗶 𝗽𝗿𝗶𝗻𝗰𝗶𝗽𝗮𝗹𝗶 𝗳𝗶𝗻𝗮𝗻𝘇𝗶𝗮𝘁𝗼𝗿𝗶 𝗱𝗶 𝗮𝗹𝗰𝘂𝗻𝗶 𝗱𝗲𝗶 𝗴𝗿𝘂𝗽𝗽𝗶 𝗽𝗮𝗿𝗮𝗺𝗶𝗹𝗶𝘁𝗮𝗿𝗶 𝗻𝗲𝗼𝗻𝗮𝘇𝗶𝘀𝘁𝗶 𝗲𝗱 𝘂𝗹𝘁𝗿𝗮-𝗻𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗮𝗹𝗶𝘀𝘁𝗶 che, nel 2014, hanno rovesciato il governo Janukovich, in seguito a violente manifestazioni filoccidentali conosciute col nome di “Euromaidan”.

● 𝗤𝘂𝗲𝘀𝘁𝗶 𝗴𝗿𝘂𝗽𝗽𝗶 𝗽𝗮𝗿𝗮𝗺𝗶𝗹𝗶𝘁𝗮𝗿𝗶 𝗰𝗵𝗲 𝘀𝗶 𝗽𝗿𝗲𝘀𝗲𝗻𝘁𝗮𝗻𝗼 𝗮𝗹𝗹’𝗼𝗽𝗶𝗻𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗽𝘂𝗯𝗯𝗹𝗶𝗰𝗮 𝗼𝗰𝗰𝗶𝗱𝗲𝗻𝘁𝗮𝗹𝗲 𝗰𝗼𝗺𝗲 “𝗽𝗮𝘁𝗿𝗶𝗼𝘁𝗶”, 𝘀𝗼𝗻𝗼 𝗯𝗮𝘁𝘁𝗮𝗴𝗹𝗶𝗼𝗻𝗶 𝗽𝗿𝗶𝘃𝗮𝘁𝗶 𝗰𝗵𝗲 𝗼𝘁𝘁𝗲𝗻𝗴𝗼𝗻𝗼 𝗳𝗶𝗻𝗮𝗻𝘇𝗶𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗶 𝗱𝗮 𝗼𝗹𝗶𝗴𝗮𝗿𝗰𝗵𝗶.

Ovvero, unità militari accusate di crimini di guerra da parte di Amnesty International, ma anche dalle Nazioni Unite.

Anche secondo quanto riportato da Reuters, Pravyj Sektor, i Battaglioni Azov e Aidar, sono stati fondati in parte grazie all’aiuto dell’oligarca Kolomoysky.

● Nell’aprile 2019, Zelensky viene eletto Presidente dell’Ucraina, battendo nettamente al ballottaggio il presidente uscente, Petro Poroschenko.

● Zelensky provvede subito a distribuire incarichi governativi ai soci di Kvartal 95, la sua società di intrattenimento.

Ivan Bakanov, già direttore della società, diventa il capo dei Servizi Segreti dell’Ucraina, mentre Serhiy Shefir viene battezzato primo assistente del presidente.

● L’ex comico si trova subito a fronteggiare una brutta rogna: il coinvolgimento di Hunter Biden, figlio dell’attuale Presidente USA, nella Burisma Holdings, la maggiore compagnia energetica dell’Ucraina, attiva sia sul mercato del gas e del petrolio.

𝗗𝗮 𝘁𝗲𝗺𝗽𝗼, 𝗕𝘂𝗿𝗶𝘀𝗺𝗮 𝗲𝗿𝗮 𝗯𝗮𝗹𝘇𝗮𝘁𝗮 𝗮𝗴𝗹𝗶 𝗼𝗻𝗼𝗿𝗶 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗲 𝗰𝗿𝗼𝗻𝗮𝗰𝗵𝗲 𝗽𝗲𝗿 𝗲𝘀𝘀𝗲𝗿𝗲 𝗿𝗶𝗲𝗻𝘁𝗿𝗮𝘁𝗮 𝗶𝗻 𝘂𝗻 𝗴𝗶𝗿𝗼 𝗱𝗶 𝘁𝗮𝗻𝗴𝗲𝗻𝘁𝗶 𝗲 𝗰𝗼𝗿𝗿𝘂𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗰𝗵𝗲 𝗰𝗼𝗶𝗻𝘃𝗼𝗹𝗴𝗲𝘃𝗮𝗻𝗼 𝗽𝗼𝗹𝗶𝘁𝗶𝗰𝗶 𝗲𝗱 𝗲𝘀𝗽𝗼𝗻𝗲𝗻𝘁𝗶 𝗱𝗶 𝗽𝗼𝘁𝗲𝗿𝗲 𝗱𝗲𝗹𝗹’𝗨𝗰𝗿𝗮𝗶𝗻𝗮.

A completamento di ciò, per il lavoro di consulente di quella società, dal 2014 al 2019, Hunter Biden ha percepito 𝟱𝟬 𝗺𝗶𝗹𝗮 𝗱𝗼𝗹𝗹𝗮𝗿𝗶 𝗮𝗹 𝗺𝗲𝘀𝗲.

● Donald Trump, all’epoca presidente degli USA, aveva affermato che Joe Biden -suo competitor nella lotta per l’investitura alla Casa Bianca- avesse chiesto il licenziamento di un procuratore ucraino che indagava sul figlio, in modo da proteggerlo. Nonostante le pressioni di Trump, 𝗭𝗲𝗹𝗲𝗻𝘀𝗸𝘆 𝘀𝗶 𝗿𝗶𝗳𝗶𝘂𝘁𝗼̀ 𝗱𝗶 𝗮𝗽𝗿𝗶𝗿𝗲 𝘂𝗻’𝗶𝗻𝗰𝗵𝗶𝗲𝘀𝘁𝗮 𝗮𝗹 𝗿𝗶𝗴𝘂𝗮𝗿𝗱𝗼.

In tutta risposta, Trump decise di bloccare gli aiuti economici e militari degli USA destinati all’Ucraina.

● Nacque così l’Ucrainagate, che si è trascinato per tutta la campagna elettorale delle presidenziali USA nel corso del 2020, fino all’elezione di Joe Biden.

● A testimoniare i buoni rapporti tra l’attuale inquilino della Casa Bianca e Zelensky sono state le parole pronunciate dal presidente ucraino nel dicembre 2020, quando Joe Biden è stato eletto Presidente degli Stati Uniti: <<Lui conosce l’Ucraina meglio del precedente presidente e aiuterà davvero a risolvere la guerra nel Donbass e a porre fine all’occupazione del nostro territorio>>.

● Nel giugno 2021, alcuni giornalisti britannici hanno pubblicato un documentario: “𝘼 𝙇𝙊𝙏 𝙊𝙁 𝙃𝙊𝙏 𝘼𝙄𝙍, 𝙒𝙝𝙤’𝙨 𝙩𝙚𝙡𝙡𝙞𝙣𝙜 𝙩𝙝𝙚 𝙩𝙧𝙪𝙩𝙝 𝙞𝙣 𝙩𝙝𝙚 𝘽𝙪𝙧𝙞𝙨𝙢𝙖 𝙜𝙖𝙨 𝙨𝙘𝙖𝙣𝙙𝙖𝙡?”.

Nel documentario si sostiene la teoria secondo cui l’amministratore della compagnia del gas Burisma avesse bisogno di Hunter Biden per due motivi: da un lato per non ricevere formalmente sanzioni, dall’altro per poter riciclare i soldi sporchi che la compagnia aveva fatto negli anni precedenti.

● Joe Biden si è impegnato a perseguire una politica americana tutta concentrata nel far riprendere all’Ucraina le zone del Donbass, attualmente dichiarate da Putin “Repubbliche riconosciute dalla Russia”.

L’interesse per quelle aree sarebbe stato innescato dal fatto che 𝙡’𝙖𝙧𝙚𝙖 𝙙𝙞 𝘿𝙤𝙣𝙚𝙨𝙥𝙩 𝙚̀ 𝙧𝙞𝙘𝙘𝙖 𝙙𝙞 𝙜𝙞𝙖𝙘𝙞𝙢𝙚𝙣𝙩𝙞 𝙙𝙞 𝙜𝙖𝙨 𝙖𝙣𝙘𝙤𝙧𝙖 𝙞𝙣𝙚𝙨𝙥𝙡𝙤𝙧𝙖𝙩𝙞 𝙛𝙞𝙣𝙞𝙩𝙞 𝙣𝙚𝙡 𝙢𝙞𝙧𝙞𝙣𝙤 𝙙𝙚𝙡𝙡𝙖 𝘽𝙪𝙧𝙞𝙨𝙢𝙖 𝙃𝙤𝙡𝙙𝙞𝙣𝙜𝙨.

● Anche Kolomoysky ha forti interessi sul Donbass, motivo per cui il suo esercito privato di organizzazioni neonaziste, in parte inquadrate nell’Esercito ucraino, dal 2015 𝗵𝗮 𝘀𝘁𝗲𝗿𝗺𝗶𝗻𝗮𝘁𝗼 𝗰𝗶𝗿𝗰𝗮 𝟭𝟲 𝗺𝗶𝗹𝗮 𝗿𝘂𝘀𝘀𝗼𝗳𝗼𝗻𝗶 𝗻𝗲𝗹 𝘀𝗶𝗹𝗲𝗻𝘇𝗶𝗼 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗰𝗼𝗺𝘂𝗻𝗶𝘁𝗮̀ 𝗶𝗻𝘁𝗲𝗿𝗻𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗮𝗹𝗲.

● In base a quanto emerso nel Pandora Papers e riportato dal “𝗧𝗵𝗲 𝗚𝘂𝗮𝗿𝗱𝗶𝗮𝗻” 𝗱𝗲𝗹 𝟯 𝗼𝘁𝘁𝗼𝗯𝗿𝗲 𝟮𝟬𝟮𝟭, Zelensky detiene quote azionarie di tre società off-shore. Una di queste, Film Heritage, è registrata in Belize.

Dalla documentazione spicca che Film Heritage detiene il 25% delle quote societarie di Davegra, azienda con sede a Cipro.

● A sua volta, Davegra possiede Maltex Multicapital Corp, società registrata nel paradiso fiscale delle Isole Vergini Britanniche. Zelensky e i fratelli Shefir detenevano ciascuno il 25% delle quote societarie.

● Circa sei settimane dopo la vittoria di Zelensky, nel 2019, l’avvocato di Kvartal 95 ha siglato un ulteriore documento. Si legge che Maltex avrebbe continuato a pagare i dividendi alla società di Zelensky, la Film Heritage, nonostante quest’ultima non possedesse più alcuna azione della società. Dal 2019, unica proprietaria di Film Heritage è Olena, moglie di Zelensky.

🔎 𝗟𝗲𝗴𝗮𝗺𝗶 𝗰𝗼𝗻 𝗼𝗹𝗶𝗴𝗮𝗿𝗰𝗵𝗶, finanziamenti illeciti, introiti miliardari, armi e soldi ai neonazisti.

🔎 𝗟𝗮 𝗿𝗲𝘁𝗲 𝗱𝗶 𝗰𝗼𝗺𝗽𝗮𝗴𝗻𝗶𝗲 𝗻𝗲𝗶 𝗽𝗮𝗿𝗮𝗱𝗶𝘀𝗶 𝗳𝗶𝘀𝗰𝗮𝗹𝗶 sarebbe stata messa su da Zelensky e dai suoi soci nella società di produzione televisiva Kvartal 95 già nel 2012.

🔎 𝗨𝗻 𝗱𝗶𝗰𝗵𝗶𝗮𝗿𝗮𝘁𝗼 𝗶𝗻𝘁𝗲𝗿𝗲𝘀𝘀𝗲 𝗮 𝗳𝗮𝗿 𝗮𝗱𝗲𝗿𝗶𝗿𝗲 𝗹’𝗨𝗰𝗿𝗮𝗶𝗻𝗮 𝗮𝗹𝗹𝗮 𝗡𝗔𝗧𝗢, piazzando basi missilistiche americane ai confini della Russia, invocando la no-fly zone e l’uso della bomba atomica.

Alla luce di questi fatti, resta da chiedersi se il presidente ucraino sia davvero l’eroe che i mass media occidentali stanno rappresentando.

~Grazie al compagno Daniele Kalidou Maffione che martedì ha pubblicato questo post pieno di informazioni importanti e vere, che meritano di essere condivise.

Psquale Andreozzi

aprile 24, 2022

Uscire dalla crisi verso un orizzonte socialista

di Alberto Angeli

L’invasione dell’Ucraina sta mettendo a repentaglio l’assetto economico e finanziario internazionale.  E’ quanto ha affermato il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nel suo intervento a “Economia e Società, Disuguaglianze e democrazia, quale futuro per un capitalismo democratico?” E’ l’eco di quanto affermano altri istituti monetari e finanziari internazionali, i quali insistono anch’essi sul fatto che l’economia mondiale è entrata in un periodo di intensa incertezza poiché la guerra russa si combina con una inarrestabile pandemia, concorrendo così ad alimentare una rapida inflazione e a rendere più incerta una già fragile ripresa globale. Si tratta di una combinazione difficile che induce molti analisti a considerarla  una sfida , impegnandosi  intanto a ridurre l’inflazione senza però rallentare la crescita, non però così tanto da far scivolare l’economia in una recessione. Che ci sia incertezza lo dicono le previsioni delle organizzazioni internazionali e dei cosiddetti gruppi di analisti, i quali mettono in conto una riduzione della crescita e del commercio e, a causa della guerra, interruzioni alle forniture globali di energia, materie prime e forniture di cereali, e i blocchi sulle banchine della Cina di migliaia di container allo scopo di contenere le ondate di pandemia di coronavirus.

Una informativa allarmante proviene dal Fondo monetario internazionale, durante la sessione di martedì scorso nello svolgimento del suo World Economic Outlook sulla previsione della crisi, che rileva la possibilità che la produzione globale potrebbe rallentare quest’anno al 3,6%, dal 6,1% nel 2021. Sicuramente, un declassamento rispetto alle previsioni di gennaio del 4,4 per cento di crescita per quest’anno, un aggravamento delle prospettive economiche globali in parte dovute all’aggressione russa dell’Ucraina, riporta il documento finale, e in parte dalla lentezza della ripresa dell’economia globale spossata dalla pandemia del Covid 19. Nulla fa presagire che le cose possano migliorare nel breve periodo, soprattutto se non si giungerà presto ad un accordo di tregua a cui piegare Putin e quindi offrire una motivazione alle potenze occidentali a frenare le pressioni sulla Russia con le sanzioni. Questo perché è proprio a causa delle sanzioni che gli shock dei prezzi e dell’offerta si stanno già materializzando, aumentando le pressioni inflazionistiche globali, creando rischi per gli equilibri esterni e minando la ripresa, con gravi ripercussioni sulla parte più povera del mondo e sull’aumento delle disuguaglianze.

E’ sempre lo sesso FMI a ricordarci come l’aumento dei prezzi in tutto il mondo non mostra segni di diminuzione, e anche se i problemi della catena di approvvigionamento dovessero  attenuarsi le previsioni mettono in conto che l’inflazione rimarrà elevata per tutto l’anno, proiettandola al 5,7% nelle economie avanzate e all’8,7% nei mercati emergenti. Già ora l’inflazione ha raggiunto l’8,5% negli Stati Uniti,  mentre in Italia è al 6,2%, il ritmo più veloce in 12 mesi dal 1981. Mentre la Banca Mondiale ha avvertito come a causa della persistente pandemia, i lockdwon di Covid-19 in Cina e l’aumento dell’inflazione potrebbero amplificare la disuguaglianza di reddito e i tassi di povertà, rivedendo al ribasso la sua previsione di crescita per il 2022 al 3,2% dal 4,1%. A queste previsioni si associa la Banca dei regolamenti internazionali, secondo cui più della metà delle economie emergenti ha tassi di inflazione superiori al 7%. E il 60 per cento delle “economie avanzate”, compresi gli Stati Uniti e l’area dell’euro, manifesta un’inflazione superiore al 5%. Una situazione resa ancora più cupa dal fatto che si aggiungono i problemi del mercato azionario, con previsioni di crisi e chiusure di banche, mentre il conflitto ha già causato picchi vertiginosi nei prezzi dell’energia  e sta inducendo l’Europa ad aumentare le sue spese militari sacrificando la parte sociale più esposta alla catena della crisi inflazionistica, che colpisce redditi, risparmi e spinge verso la povertà milioni di famiglie e sottrae risorse alla formazione e all’assistenza già fortemente stressata dalla pandemia virale che non accenna a ritirarsi.

Le restrizioni stanno nuovamente interrompendo le catene di approvvigionamento globali di elettronica, parti di automobili e di altri beni , riducendo le importazioni cinesi di petrolio, cibo e beni di consumo. Ancora, nonostante che la Cina sia il più grande importatore di petrolio al mondo, eppure, secondo IL FMI, si registra un forte raffreddamento della domanda, che ha indotto la scorsa settimana l’Agenzia internazionale per l’energia a ridurre le sue previsioni di crescita della domanda di petrolio per quest’anno a 1,9 milioni di barili al giorno, dai 5,6 milioni di barili/giorno dello scorso anno. Gli stessi dati mostrano che la crescita economica Cinese e le vendite al dettaglio segnala un rallentamento, poiché il governo impone ampi lockdown per debellare il coronavirus e le restrizioni stanno nuovamente interrompendo le catene di approvvigionamento globali di elettronica, parti di automobili e altri beni, riducendo le importazioni cinesi.

E, come prevedibile, le sanzioni imposte per punire Mosca minacciano anche di far precipitare le economie europee in recessione. La scorsa settimana, studi dei principali istituti economici tedeschi hanno previsto che un divieto europeo totale sulle importazioni di energia russe causerebbe una contrazione della produzione Tedesca del 2,2% l’anno prossimo e spingerebbe l’inflazione al 7,3%; un danno di oltre 400 mld di euro, un record per la Germania del dopoguerra. Ma risultati negativi su economia e inflazione sono parte delle previsioni per tutti i paesi dell’Europa, per cui dobbiamo aspettarci dalla crisi economica un incremento della povertà, un taglio ai redditi e alle pensioni e un aumento delle disuguaglianze, se non saranno adottati tempestivi e opportuni provvedimenti di sostegno alla parte più esposta della popolazione, seguendo la strada di far pagare a quanti ingrassano le loro fortune speculando sulla crisi.

Questa dovrebbe essere l’occasione, ammesso che il mondo non scivoli verso una guerra senza vincitori, per ripensare il modello economico capitalistico cercando di interpretare il dispaccio che ci proviene da un mondo in fiamme e alle prese con una guerra che, una volta terminata, ne cambierà l’ordine geopolitico e economico, ma non modificherà in nulla la matrice del potere finanziario, economico e  politico.  E dovrebbe essere un ripensamento da svolgere dentro un pensiero di un nuovo socialismo, che si carichi delle aspettative di quella parte di mondo che questa combinazione di crisi pandoeconomica ha impoverito e annichilito nel suo desiderio di pace e libertà.

aprile 24, 2022

RESISTENZA E REPUBBLICA

di Franco Astengo

La retorica mainstream sulla guerra, la polemica distruttiva verso l’ANPI, il goffo tentativo di distorcere la realtà storica della Resistenza Italiana ci hanno privato, in questo drammatico 2022, di poter esplicitare fino in fondo la storia e il senso di quello che fu il momento fondativo della nostra Repubblica.

La Resistenza come guerra civile, come individuato a suo tempo da Claudio Pavone nel suo fondamentale saggio sulla “moralità della Resistenza”, è stata percorsa da una categoria di fondo, quella della “non legittimità” nell’origine del potere statuale del fascismo e quindi dalla necessità “storica” del combattere quel potere distinguendo tra Nazione (Patria) e Stato .

Il ventennio era stato così percorso da una lotta antifascista sicuramente minoritaria nei numeri e i cui protagonisti anch’essi divisi nelle opzioni ideali proprio secondo lo schema poi usato da Pavone e successivamente dal più recente lavoro di Franzinelli e Flores.

Al momento dello scoppio della guerra era entrata in scena, nella coscienza di molti, la categoria del “tradimento”: tra grandi tormenti ideali infatti l’antifascismo italiano era stato percorso dalla convinzione che fosse necessaria la sconfitta militare per eliminare il fascismo.

I comunisti(e anche gli azionisti, mi pare) non nutrirono dubbi al proposito (alcuni, pur nel dramma, tirarono un sospiro di sollievo quando iniziò l’operazione Barbarossa) ma in altri settori dell’antifascismo sicuramente il problema si pose.

La questione del “tradimento” entrò potentemente nel dibattito dell’epoca alla data dell’8 settembre: la “fedeltà” era posta su tre piani, quella della continuità antifascista per chi l’avesse conservata con coerenza durante il ventennio, quella del mantenere il giuramento al Re (nonostante la fellonia della fuga), quella di stare dalla parte della “Nazione (Patria) ” che era stata e tornava ad essere quella fascista.

Una generazione intera si trovò di fronte ad un vero e proprio “spartiacque morale” e dopo vent’anni di fascismo ci fu chi trovò intelligenza e coraggio per compiere una scelta che poteva anche essere considerata come contraria alla Patria.

Esaminando i vari aspetti riguardanti le scelte e le opere resistenziali Flores e Franzinelli affrontano questo quadro con grande vigore: anche i punti che, sotto l’aspetto di una certa agiografia possono essere considerati come “scomodi”sono valutati tenendo sempre ben conto l’elemento della reciprocità dell’accusa di aver tradito lanciata da entrambe le parti in lotta.

L’appoggio all’invasione tedesca è la ragione per la quale la Repubblica di Salò non può essere considerata parte della continuità dello Stato: aver intuito questo elemento contribuendo al riconoscimento del governo Badoglio come governo legittimo nella linea di prosecuzione dell’identità statuale è stato il grande merito del CLN (o almeno della maggioranza dei suoi componenti) e della “svolta” togliattiana.

La scelta del riconoscimento del governo Badoglio e la formazione della Resistenza consentirono una rilegittimazione dello Stato assolutamente decisiva per l’avvenire, anche se la legittimazione della Patria fu conquistata soltanto al momento della Liberazione delle grandi città del Nord da parte dei partigiani

Non si tratta di una distinzione capziosa: il 25 aprile Stato e Patria si ricongiunsero ponendo le basi per la formazione di una democrazia posta al di fuori da un binario di mera prosecuzione con quello che era stato l’antico Stato liberale frutto dell’incompleto Risorgimento (come ben intuito da Gramsci nei “Quaderni”).

La gran parte della classe operaia non ebbe tentennamenti: nelle 5 giornate di Napoli, a Roma a Porta San Paolo, al Nord nelle grandi fabbriche a partire dagli scioperi del Novembre 1943, poi del Marzo 1944 fino al segnale dell’insurrezione generale del 24-25 aprile dato con il suono delle sirene di fabbrica.

L’esito del 25 aprile consentì di ricostruire la democrazia e arrivare nel giro di pochi mesi a libere elezioni nel marzo – aprile 1946 quelle amministrative, il 2 giugno elezioni per l’assemblea costituente e referendum istituzionale.

Le contraddizioni non mancarono e il testo di Flores e Franzinelli ma rimane il dato prevalente di uno Stato ricongiunto alla Nazione (Patria) che poteva ben essere considerato, a questo punto, come sorto dalla Resistenza.

A questo punto però sorge una domanda rivolta nel senso di approfondire il concetto di rilegittimazione dello Stato. La Repubblica è nata solo dalla Resistenza, sciogliendo il nodo del “tradimento” oppure anche dalla crisi del tipo di “Stato – Nazione” (Patria) costruito dal fascismo? La crisi del fascismo colpì più la nazione (Patria) che lo Stato di cui molto fu conservato, come scrive ancora Franzinelli in un suo recentissimo saggio: l’Italia è stata com’è ben noto, zona di frontiera tra il blocco occidentale e quello orientale, ed è stata attraversata al suo interno da una sorta d’invisibile confine che ne ha condizionato lo sviluppo democratico addirittura dividendo il sistema politico in due sottosistemi: l’arco costituzionale e l’arco di governo al riguardo del quale vigeva la “conventio ad excludendum” rivolta agli opposti estremismi anche se PCI e MSI furono di volta in volta associati alla maggioranza (Governo Tambroni 1960, governo Andreotti 1978). Il tipo di democrazia repubblicana disegnato dalla Costituzione fu pensato come adatto a quel tipo di situazione mentre al momento della caduta del Muro si era ritenuto che ormai si potesse superare quel tipo di assetto e riunificare il sistema politico “sbloccandolo”. Invece il tema della rilegittimazione dello Stato e la differenza tra il concetto di Stato e quello di Patria erano ancora d’attualità e non risolvibile in una prospettiva sovranazionale come molti avevano ritenuto potesse essere possibile. Oggi si può dire che tutto sommato è ancora valido il tipo di mediazione raggiunto dai grandi partiti di massa prima tra l’8 settembre e il 25 aprile e poi tra il 25 aprile 1945 e il 18 aprile 1948. Una mediazione tutto sommato ancora valida perché la Repubblica è quella nata dalla Resistenza riunificando con grande difficoltà e molte incertezze Stato e Nazione (Patria). La sparizione dei partiti che avevano realizzato, essenzialmente attraverso il lavoro della Costituente, quel momento unitario non ha lasciato comunque nessuna nuova possibilità di legittimazione per un’eventuale “Seconda Repubblica” che si era pensato di fondare modificando il sistema elettorale e aderendo al processo di presunta unificazione europea sull’onda dell’euforia del grande equivoco della “fine della storia”. La Resistenza come fatto fondativo e costituente invece non ha avuto eredi e l’eterna transizione che è seguita all’89 ne è ancora testimonianza. Tentare di modificare quest’assetto primario magari cambiando la Costituzione ha via via causato una fragilità del sistema che dovrebbe rappresentare l’immediata preoccupazione di un ceto politico sempre più in difficoltà nella sua capacità di esprimere assieme identità per i diversi soggetti e valori riunificanti che rendano Stato e Nazione (Patria) soggetti credibili agli occhi delle nuove generazioni.

aprile 23, 2022

IL FASCISMO LIBERALE!

di Ferdinando Pastore

“Lo Stato deve essere ridotto alla forma più semplice. Esso deve avere un buon esercito, una buona polizia, un ordinamento giudiziario che funzioni bene, fare una politica estera intonata alle esigenze della nazione: tutto il resto deve essere abbandonato all’attività privata.” La frase non è stata pronunciata da un vecchio signorotto liberale, tutto decoro e commercio sapiente, bensì, senza che nessuno si sorprenda, da Benito Mussolini, appena prima di marciare su Roma, durante un battibecco con il consunto Giolitti. Certo poi da Duce non mantenne in pieno le promesse, un po’ anglofone come spirito, per ricercare, con altri mezzi, la protezione del capitale dalle minacce pianificatrici del socialismo.

Il fascismo, quindi, nelle sue intenzioni, aveva un approccio laico riguardo il ruolo dello Stato. Mastodontico l’apparato per ciò che concerne la promozione culturale e il monopolio della forza, ma snello quando si trattava di affari. Forse per questo motivo la sua affermazione non lasciava insonni l’Inghilterra e gli Stati Uniti, con i loro Governi così attenti nel non mostrare insofferenza per l’Italia fascistizzata. In fondo al tunnel della soppressione democratica, si poteva trovare la luce, tanto vitale per i liberali, della spoliticizzazione dell’economia.

Qualche anno più tardi, nella Germania Hitleriana, giuristi ed economisti, di regime e non, si interrogavano sulla fallacia del modello liberale delle origini, nella critica a ciò che risultava loro davvero intollerabile. Il sistema della democrazia di massa, spinta dalle conseguenze nefaste della Grande Guerra, tutte dazi e suffragio universale, aveva imbarbarito gli Stati Uniti con il suo New Deal. L’antidoto, per Eucken e Bhöm incipriati dall’autorevolezza di Carl Schmitt, si trovava nel concepire una Costituzione economica equivalente a quella politica ma, nella sostanza, destinata a svuotare di senso la seconda. Mai più Stato minimo, ma intervento attivo dei Governi a tutela della concorrenza. La Germania post-nazista si diede una lucidata su queste basi dottrinarie.

Sempre in quegli anni, altri filosofi dei mercati, in realtà poco inclini nello studiare numeri ma più rigorosi nel concepire una teoria organica delle istituzioni post-imperiali, sentimentalmente vedovi dell’espansione Asburgica così razionalmente cosmopolita, si spingevano ancora più il là. Ciò che conta è assicurare che il flusso dei capitali scorra senza ostacoli e che lo Stato non si lasci ricattare dalle pulsioni particolaristiche del popolo, magari con la poco raziocinante piena occupazione. Hayek, von Mises, Robbins, Röpke delinearono un doppio binario. La democrazia nazionale si manteneva a livello ornamentale, mentre organi sovranazionali inchiodavano le scelte di politica economica al pilota automatico.

La democrazia, quindi, non era una preferenza idealistica, ma una semplice comodità funzionale. Il suffragio universale avrebbe, nei limiti della gerarchia economica, evitato il nascere di fastidiose rivolte. Ma se la democrazia avesse accentuato il proprio carattere popolare ecco che allora una dittatura liberaleggiante si sarebbe fatta preferire. L’importante era sconfiggere l’influenza delle masse popolari organizzate. Le quali o venivano assorbite spontaneamente dal sistema o potevano essere tranquillamente perseguitate da un autoritarismo feroce ma economicamente libertario.

Bisogna comprendere che sul pensiero di questi demiurghi del neo-liberalismo, si è costruita tutta l’architettura istituzionale della globalizzazione dei mercati, in parte fedele all’anarco/capitalismo americano ma soprattutto ligia nel rendere fattuali le idee post-democratiche dei suoi vecchi sacerdoti europei. Il Cile di Pinochet fu l’occasione d’oro per sperimentare questo nuovo sentimento élitario, dove privatizzazioni selvagge e pareggi di bilancio accompagnavano, senza paracaduti, i lanci degli oppositori politici dagli aerei in volo sull’Oceano. Pochi anni dopo arrivarono la Thatcher e Regan a condire le liberal -democrazie con salse anti-popolari.

Ma perché questo autoritarismo liberale fosse accolto con entusiasmo dalle masse, occorreva renderlo allettante. Una spoliticizzazione così capillare della società non avrebbe mai potuto affrancarsi dalle reminiscenze delle lotte per i diritti. Bastava capovolgere la narrazione. I diritti diventavano privilegi parassitari. Freni tirati all’evoluzionismo individuale che si esaltava nel mercato. In una pedagogia del merito concorrenziale che delineava un nuovo popolo eletto, non più ingraziato dai tratti somatici razziali ma reso unico dalle capacità manageriali. Chi dimostrava di non sapersi spendere nella lotta quotidiana per la sopravvivenza era chiamato fuori dalla democrazia.

Quel popolo eletto poteva crogiolarsi nel pretendere il diritto ad avere diritti soggettivi, in un’esaltazione capricciosa della libertà, dove la libera scelta diventava esercizio di crescita personale ma che contemporaneamente giustificava il giudizio di indegnità per i deboli. Con questo stratagemma la discorsività fascista tornava ad emanciparsi come buon senso comune ma slegata dal moralismo conservatore dei tempi andati, tutto onorabilità, decoro e manganello. Il disprezzo per le classi popolari assumeva un contorno progressista e le campagne di rieducazione ingentilite da un parsimonioso anelito di civilizzazione paternalista.

Essenziale far dissolvere a quel punto qualsiasi riferimento storico al fascismo di un tempo. Perché nella crisi della globalizzazione quella forma di autoritarismo avrebbe potuto tornare ad essere pietanza commestibile. Il rischio di rivivere pulsioni solidaristiche, nell’alveo delle democrazie a capitalismo avanzato, doveva essere stroncato sul nascere, con le buone o con le cattive. Occorreva una grande operazione culturale. Il fascismo è stata una dittatura come le altre. Equiparabile al comunismo per esempio. I connotati delle dittature si misurano sull’espansione dei diritti civili e sul libero commercio. Tutto ciò che rievocava, secondo le linee guida del sogno manageriale, una postura arcaicizzante era di per sé totalitario.

Il regalo confezionato per le masse era un darwinismo rammodernato, rilevabile a suon di benchmarking. Chi non osa sfidare la performance e quindi sé stessi, non possiede alcuna cittadinanza. Questo tipo di approccio all’esistenza è facilmente trasportabile verso una furia bellicista. Da crociata contemporanea. E verso valori consoni all’autoritarismo anonimo dei poteri senza volto delle super conventicole internazionali. Un fascismo che perde quella ritualità dei gruppuscoli nostalgici ma che si riaffaccia in una veste ragionevole. Liberalismo e fascismo, come avvenne nel secolo scorso, trovano un punto di equilibrio, ancor più insidioso di quello precedente. Perché declinato in senso progressista ed evolutivo. Difendere con le armi la società aperta e proteggere i mercati dalla democrazia. Una storia lunga che in Ucraina ha trovato i propri eroi da consegnare a una nuova epica mistica. La svastica è il simbolo del sole.

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aprile 22, 2022

ANCORA SU MELENCHON ….

di Giuseppe Giudice

Mi ripeterò, ma poichè , nei dibattiti televisivi, molti tendono a mettere sullo stesso piano Melenchon e la La Pen, cosa assurda, ma costantemente ripetuta anche da molti esponenti del PD. Secondo tale narrazione sia la sinistra radicale (e socialista) di Melenchon , che la estrema destra, nazionalista e reazionaria della Le Pen, sarebbero entrambi forze “antistema”. Bisognerebbe innanzi tutto chiedersi cosa si intende per “sistema” . Se essere radicalmente critici verso il capitalismo odierno significa essere antistema, anche il PSI degli anni 70 lo era. Nello statuto si dice a chiare lettere nella dichiarazione dei principi “(il partito -PSI – combatte per una società liberata dalle contraddizioni e dalle coercizioni del sistema capitalitico, in cui il libero sviluppo di ciascuno è la condizione del libero sviluppo di tutti”. Se per sistema intendiamo questo, la La Pen non è assolutamente anti-sistema. La sua posizione non è affatto conflittuale con il capitalismo (e come potrebbe essere!). Il suo , è, nella migliore delle ipotesi un neogollismo (ma con forti tinte razziste e xenofobe). Fautrice di un capitalismo sciovinista, fondato su una società fortemente gerarchizzata ed autoritaria nella gestione politica. Non a caso immagina una democrazia autoritaria con il rafforzamento del presidenzialismo. Il suo programma è l’opposto di quello di Melenchon, fortemente conflittuale con il capitalismo ma da un punto di vista socialista e democratico. Basta far riferimento alla sua intenzione di abolire il presidenzialismo, ed alla introduzione del sistema proporzionale. Alla socializzazione dei servizi pubblici (Ferrovie, energia, acqua, gas, poste) e di settori industiali di importanza strategica. Sviluppare la democrazia economica con il controllo democratico dei lavoratori nelle imprese; ridurre a 32 ore – a parità di retribuzione – l’orario di lavoro (progetto insito nella stessa tradizione del socialismo francese); pensione minima a 1400 euro mensili, ridurre a 60 anni l’età pensionabile. Un vasto programma di investimenti pubblici per trasformazione ecologica dell’economia, in grado di dare un lavoro sicuro e ben pagato ad una vasta platea. Il programma è l’opposto della Le Pen. Forse l’unico punto di contatto è sulle pensioni. Ma la visione del welfare dei socialisti è l’opposto della cosiddetta “destra sociale”. Per i socialisti il welfare è uno strumento di emancipazione della classe lavoratrice e di modifica dei rapporti di potere nella società. Per la destra radicale è solo uno strumento di controllo sociale dall’alto. La Le Pen è perfettamente funzionale ad un certo tipo di capitalismo (qualcosa di simile ad Erdogan). Il socialismo democratico è per sua natura fortemente conflittuale con il capitalismo ed il suo sistema di valori. Certo la socialdemocrazia (in larga parte) ha abbandonato la critica al capitalismo, sia pure nella versione di una sua forte riforma in senso sociale. Ritorna Riccardo Lombardi è l’idea di superare in forma democratica il capitalismo. Del resto la riduzione dei consensi (oggi solo il PSOE e la SPD sono abbondantemente sopra il 20%) parla chiaro. Corbyn lo mise ben in evidenza, in una conferenza ad Amsterdam nel 2017 (da presidente del Labour):” se i socialisti europei non recuperano la loro missione di trasformare la società e di combattere l’establishment capitalistico, perdono voti a favore della destra populista e reazionaria. Il vero modo per combatterla efficacemente è tornare ad essere socialisti”. Melenchon è alternativo a Macron ed antagonista alla Le Pen. E’ probabile che Macron vinca (sia pur di poco) le elezioni. Ma governerà una Francia profondamente divisa. Le sue politiche sono e restano alternative a noi socialisti.

2Francesco Matrone e 1 altra persona

aprile 21, 2022

BELLA CIAO!

di Ferdinando Pastore

Bella Ciao non è stato un canto della Resistenza. Ne è diventato simbolo postumo. Viena descritta la storia di un fiore. Quindi di una rinascita, di una nuova vita nel gelo della morte. Il fiore è un monito per tutte le genti che passeranno, quel bel fior di pace, di consapevolezza per la nascita del terrore. Monito perché lo spreco della vita in nome dell’egoismo non si ripeta mai più. La libertà conquistata è una libertà piena, di concordia con la natura. Non un capriccio libertario individuale, non un’erba voglio, ma una dimensione di salvezza dalla paura, dalla fame, dal cinismo, dallo sgretolamento della speranza. Il testo non assomiglia ai canti di lotta operai, possiede un recondito afflato spirituale. E non è una canzone di guerra. Esalta la vita nella sua essenza più profonda. Quella che costruisce vita e speranza. Di conseguenza non è un canto di guerra né un canto di lotta, ma un canto politico sì.

Col tempo quelle parole, ripetute meccanicamente, hanno perso il loro intimo significato. Bella Ciao è stata confezionata per ogni evenienza. Nella sistematica opera di immiserimento della lotta partigiana, di ciò che politicamente e socialmente ha significato, è diventata prodotto buono per ogni contesto. Fino a diffondersi come colonna sonora di un gruppo di rapinatori in una serie televisiva.

Il potere più insidioso del capitalismo è quello di far assorbire ogni aspetto dell’umanità ai propri scopi. Di commercializzare all’infinito ogni spazio dell’esistenza. Così da far perdere qualsiasi significato alle cose se non quello del valore di scambio. Perché, per il capitalismo, gli esseri umani vivono solo per glorificare il proprio tendenziale egoismo.

Così Bella Ciao diventa un brand. Riutilizzabile per qualsiasi scopo. E lo si può vendere anche nella sua versione fascista. Perché proprio ciò che cantano gli ucraini sulle note di Bella Ciao contraddice il significato originario di quel canto sulla Liberazione e diventa un inno dai propositi fascisti.

“Quei nemici maledetti che la nostra terra invadono

I nemici maledetti senza pietà li distruggiamo”

“E i javelin e i bayraktar combattono per l’Ucraina e uccidono i russi”

“Presto li distruggeremo

E conquisteremo la nostra libertà

E ci sarà di nuovo la pace”

Il fascismo si annida dietro queste parole. La volontà di annientamento feroce dei “nemici maledetti” non conosce alcuna pietà. L’esaltazione per le armi (javelin e bayraktar) che uccidono i russi, sostituisce il fiore della speranza e quindi di riscatto per l’intera umanità.

Diventa un canto di fierezza allucinatoria per la guerra. Presupposto perché la retorica fascista ritorni in auge, e venga riconsiderata buon senso comune. Discorsività letteraria.

Seguendo la medesima traccia non sorprende la tenacia con cui alcune formazioni politiche vorrebbero sventolare le bandiere della NATO in occasione della celebrazione del 25 Aprile.

Il processo di soppressione, nell’immaginario collettivo, dei valori della lotta partigiana, che non erano valori bellicisti, è ormai avviato da tempo.

Già nel contrasto alla Costituzione, risultato politico di quella visione che considerò i motivi sociali e culturali che portarono il fascismo all’apice della mentalità occidentale, si è vista la tenacia con cui quel modello doveva essere cancellato dalle coscienze.

Oggi si fa un passo in avanti. Per difendere il “mondo libero” quella grammatica fascista può tornare utile.

Così si stupra un inno di pace e lo si reinventa canto cupo di cieca violenza. Nel quale i teschi potranno essere sbandierati in nome della libertà. Da sempre quel nazionalismo razziale che oggi si ammanta di cosmopolitismo, ha elevato la libertà senza aggettivi a condizione per la volontà di potenza. E non ha mai parlato di Pace e Giustizia. Quel nazionalismo oggi incarnato nei cosiddetti valori europei che definiscono il confine tra Bene e Male. Nazionalismo cosmopolita dove o l’estraneo si assoggetta nell’assimilazione o verrà combattuto fino all’ultimo respiro della Ragione.

Potrebbe essere un primo piano raffigurante fiore e natura
aprile 19, 2022

LA NEUTRALITA’ ATTIVA DI RICCARDO LOMBARDI.

di Giuseppe Giudice

Il caro compagno Lombardi ha sempre avuto una posizione neutralista in politica estera. Era la sua posizione nel 1948 , alternativa sia al frontismo di Nenni e Morarandi, da un lato, che all’atlantismo di Saragat (che fino a tre anni prima era anch’egli neutralista). Era la posizione di molte parti della socialdemocrazia europea. La posizione di Kurt Schumacher , che rifondò la SPD nel 1945 (dopo aver trascorso 13 anni in un lager nazista); era la posizioone di una parte consistente (Bevan, Foot) del laburismo inglese. Nenni giustificò il suo filo-sovietismo nel nome del concetto di “unità di classe” . In quella fase , secondo lui, la unità della classse operaia imponeva lo schierarsi con l’URSS. Indubbiamente, quella posizione, sacrificò moltissimo alla autonomia ed alla specificità socialista, nella sinistra. Ma consentì di far mantenere un forte radicamento operaio e popolare al PSI, che pose le basi dell’autonomismo socialista dopo i fatti d’Ungheria. Anche se , per pagare pegno all’entrata nel governo di centro-sinistra , il PSI accettò la la NATO intesa come alleanza geograficamente e politicamente limitata. Del resto Berlinguer 13 anni dopo , accettò l'”ombrello protettivo della Nato”. C’è comunque da sottolineare che il PSI si mantenne molto distante dall’Atlantismo ideologico” del PSDI. Che fu una delle cause del fallimento dell’unificazione. Lombardi comunque continuò a rimanere sostanzialmente un neutralista. Ma in cosa consisteva il neutralismo di Lombardi? Era innanzi tutto un netto rifiuto dell'”atlantismo ideologico”, come “scelta di civiltà” (quella idea che ha portato alla mistificazione dell'”esportazione della democrazia”). Vi era in lui l’idea che europeismo ed atlantismo erano progetti contraddiottori, in quanto sanciva la piena subordinazione dell’Europa Occidentale agli USA non solo sul piano militare ma anche sui quello ideologico. E comunque Lombardi era un socialista occidentale ma non atlantico. Vedeva bene la differenza tra il concetto di occidente radicato in Europa, e quello declinato dagli USA. E vedete , non esiste neanche, una unità anglosassone. Questa era una idea dei conservatori da Churchill al Johnson. Non dei socialisti inglesi. Se è vero che il liberismo nasce in Inghilterra (ma ancora prima in Olanda), in questo paese (contemporaneamente alla Francia) nasce il movimento operaio e socialista. Nasce il movimento sindacale. La GB laburista vara il welfare universalistico, pubblico e gratuito, l’economia mista, la programmazione economica frutto della scuola post-keynesiana di Cambridge. Sviluppa il concetto di democrazia industriale. Nulla di più lontano dal modello economico e sociale USA. Ma torniamo a Lombardi. La sua idea di neutralismo era sostanzialmente vicina a quelli attuati dalla Svezia e dell’Austria socialdemocratiche. Nell’occidente, ma fuori dalla Nato. Vedeva, inoltre nell’Europa Occidentale il luogo privilegiato dove avviare una transizione democratica al socialismo, tramite un modello alternativo nel modo di produrre e consumare, che avrebbe reso possibile lo sviluppo del Terzo Mondo, ponendo fine allo sfruttamento imperialistico delle risorse. Anche se non accettò mai le ipotesi terzomondiste , il III mondo rimase sempre un oggetto costante di interesse. Per ultimo: Lombardi fu uno dei critici più acuti del leninismo e dei suoi sviluppi. Era un marxista laico ed eterodosso. La sua critica ai regimi sovietici si fondava non solo sul carattere dispotico e dittatoriale di quei sistemi, ma cercava di individuarne le basi strutturali. In definitiva l’URSS e i satelliti non erano paesi socialisti. Ma regimi di classe, fondate sul dominio organico di classe della burocrazie e della nomenclatura sulla società e l’economia…un tesi che richiama la previsione di . In conclusione, il neutralismo di Lombardi, oggi lo porrebbe in netta antitesi al ritorno all'”atlantismo ideologico” , quello che ha portato l’allargamento della Nato ad est (in cui è forte la componente relativa ai profitti fatti con la crescita delle spese militari), contro la subalternità dell’Europa agli USA. Senza alcun dubbio Lombardi sarebbe stato un critico feroce del regime reazionario, neo-zarista e del capitalismo oligarchico di Putin. Avrebbe condannato in modo netto l’invasione dell’Ucraina (ma, se mi consentite non avrebbe avuto fiducia in Zelensky). Anche se avrebbe riconosciuto il diritto di resistenza, sarebbe stato , senza alcun dubbio contrario all’escalation militare , ed al bellicismo di certi paesi europei. E per una soluzione negoziata del conflitto. Avrebbe visto , con chiarezza, che l’alternativa sarebbe stata la III guerra mondiale.

aprile 16, 2022

Papa Francesco

L’odio, prima che sia troppo tardi, va estirpato dai cuori. E per farlo c’è bisogno di dialogo, di negoziato, di ascolto, di capacità e di creatività diplomatica, di politica lungimirante capace di costruire un nuovo sistema di convivenza che non sia più basato sulle armi, sulla potenza delle armi, sulla deterrenza. Ogni guerra rappresenta non soltanto una sconfitta della politica, ma anche una resa vergognosa di fronte alle forze del male.

Nel novembre 2019, a Hiroshima, città simbolo della Seconda guerra mondiale i cui abitanti furono trucidati, insieme a quelli di Nagasaki, da due bombe nucleari, ho ribadito che l’uso dell’energia atomica per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine, non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune. L’uso dell’energia atomica per fini di guerra è immorale, come allo stesso modo è immorale il possesso delle armi atomiche.

Chi poteva immaginare che meno di tre anni dopo lo spettro di una guerra nucleare si sarebbe affacciato in Europa? Così, passo dopo passo, ci avviamo verso la catastrofe. Pezzo dopo pezzo il mondo rischia di diventare il teatro di una unica Terza guerra mondiale. Cui si avvia come fosse ineluttabile.

Invece dobbiamo ripetere con forza: no, non è ineluttabile! No, la guerra non è ineluttabile! Quando ci lasciamo divorare da questo mostro rappresentato dalla guerra, quando permettiamo a questo mostro di alzare la testa e di guidare le nostre azioni, pèrdono tutti, distruggiamo le creature di Dio, commettiamo un sacrilegio e prepariamo un futuro di morte per i nostri figli e i nostri nipoti.La cupidigia, l’intolleranza, l’ambizione di potere, la violenza, sono motivi che spingono avanti la decisione bellica, e questi motivi sono spesso giustificati da un’ideologia bellica che dimentica l’incommensurabile dignità della vita umana, di ogni vita umana, e il rispetto e la cura che le dobbiamo.

Di fronte alle immagini di morte che ci arrivano dall’Ucraina è difficile sperare. Eppure ci sono segni di speranza. Ci sono milioni di persone che non aspirano alla guerra, che non giustificano la guerra, ma chiedono pace. Ci sono milioni di giovani che ci chiedono di fare di tutto, il possibile e l’impossibile, per fermare la guerra, per fermare le guerre. È pensando innanzitutto a loro, ai giovani, e ai bambini, che dobbiamo ripetere insieme: mai più la guerra. E insieme impegnarci a costruire un mondo che sia più pacifico perché più giusto, dove a trionfare sia la pace, non la follia della guerra; la giustizia e non l’ingiustizia della guerra; il perdono reciproco e non l’odio che divide e che ci fa vedere nell’altro, nel diverso da noi, un nemico.

Mi piace qui citare un pastore d’anime italiano, il venerabile don Tonino Bello, vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi, in Puglia, instancabile profeta di pace, il quale amava ripetere: i conflitti e tutte le guerre «trovano la loro radice nella dissolvenza dei volti».

Quando cancelliamo il volto dell’altro, allora possiamo far crepitare il rumore delle armi. Quando l’altro, il suo volto come il suo dolore, ce lo teniamo davanti agli occhi, allora non ci è permesso sfregiarne la dignità con la violenza. Nell’enciclica «Fratelli tutti» ho proposto di usare il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari per costituire un Fondo mondiale destinato a eliminare finalmente la fame e a favorire lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa. Rinnovo questa proposta anche oggi, soprattutto oggi. Perché la guerra va fermata, perché le guerre vanno fermate e si fermeranno soltanto se noi smetteremo di ‘alimentarle’.

Francesco

aprile 12, 2022

CHI E’ JEAN-LUC MELENCHON ….

di Giuseppe Giudice

E’ un socialista democratico di sinistra. Più o meno come Corbyn. Su di lui sono state scritte un mucchio di sciocchezze e falsificazioni. Corbyn è l’erede storico della sinistra laburista inglese di Tony Benn. E’ frutto della storia e della specificità del socialismo inglese, con una grande attenzione ai nuovi movimenti che stavano sorgendo a sinistra. Melechon, è un latino passionale. Ma con Corbyn condivide un grande carisma. Jea Luc è figlio della sinistra socialista democratica francese. Molto vicino politicamente a Lionel Jospin (nel cui governo fu ministro per la formazione professionale per due anni), dopo il 2002 fondò la corrente di sinistra nel PSF , opponendosi alle posizioni di Segolen Royale, che riteneva volesse portare il partito verso posizioni moderate social-liberali. E nel 2088 uscì dal partito in cui aveva militato per più di vent’anni, per fondare il Front de Gauche (che metteva insieme la sinistra socialista e i comunisti del PCF). Ma non ebbe successo. Hollande , nel 2012, alle presidenziali, presentò un programma molto avanzato, che riprendeva molti dei temi del periodo jospiniano. Dal ruolo centrale dell’intervento pubblico in economia, accompagnato dallo sviluppo della democrazia economica, ad una forte tassazione progressiva (fino al 70% del prelievo sullo scaglione più alto – roba da Olof Palme) , al rifiuto delle politiche di austerità. Ma il programma fu gradualmente rimangiato. Al socialdemocratico Ayroult , fu sostituito il blairiano Manuel Valls, come primo ministro. Ciò ha comportato la graduale, ma fatale, crisi del partito socialista , fino a farlo giungere al 7%, nel 2017. Nel 2012 era al 34% e ridivenne il primo partito operaio (sottraendo molti voti a Le Pen.) Questo ha favorito Melenchon , che liberatosi dal PCF, fondò la France Insoumisse , un movimento che si fondò sul suo carisma. E prese il 17% alle presidenziali. Ma questo movimento aveva dei limiti, nel senso della presenza della componente populista e “grillina” di Kuzmovic). Ma Kuzmovic abbandonò il partito, e non ebbe nessun fortuna politica. Lo abbandonò, perchè contestò a Melenchon la sua intenzione di ridare una chiara e netta collocazione a sinistra (lo ha confermato il politologo Marc Lazar) al movimento. Una sinistra di chiara e netta ispirazione socialista. Del resto Melenchon non ha mai smesso di dichiararsi orgogliosamente socialista. Ma contro le derive a destra di molte socialdemocrazie europee. In questo c’è un’altra assonanza con Corbyn. Un curioso aneddoto. Melenchon viene da una famiglia con una madre molto cattolica ed un padre massone. Dopo il divorzio dei genitori rimase con la madre. E quindi ha una formazione cattolica. Pur non essendo credente non ha mai rinnegato la sua formazione. Si iscrisse alla Massoneria , ma ne uscì nel 2019. Comunque veniamo al nucleo del suo programma. Uno degli elementi qualificanti qualificanti è il superamento del semipresidenzialismo e l’introduzione del proprzionale. Altri punti , in effetti , riflettono gli di Hollande del 2012: forte progressività fiscale, reintroduzione dell’imposta patrimoniale (del resto essa fu introdotta nel 1988 dal governo socialista di Rocard insime al reddito di base). Socializzazione di tutti i beni pubblici (Ferrovie, Acqua, Poste, Gas, Energia) e di settori stategici dell’economia. Sviluppo della democrazia economica con l’estensione del controllo dei lavoratori sulle imprese sia pubbliche che private. Riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore settimanali (a parità di retribuzione (oltre che nel programma di Corbyn , questo elemento è forte nella tradizione del socialismo francese – Jospin introdusse le 35 ore – che era un obbiettivo intermedio. Verso le 32 ore) . Aumento del salario minimo orario, pensione a 60 anni, grandi investimenti pubblici per trasformazione ecologica dell’economia , con creazione di posti di lavoro a tempo indeterminato e ben retribuiti. Ho citato solo i punti più importanti. Ma con questi punti , il compagno Jean-Luc ha sottratto molti voti all’estrema destra. Bisogna essere socialisti coerenti per combattere il populismo reazionario. Una altra annotazione : Melenchon (ma insieme con altri suoi vecchi compagni socialisti come Jospin e sua moglie) è contrario alla GPA che non considera affatto un diritto civile, ma solo mercificazione. L’accusa di essere filo-putin (come quella di essere antisemita) è ridicola. Melenchon è sempre stato un critico radicale del regime di Putin, del suo capitalismo oligarchico, delle gravissime disuguaglianze sociali prodotte, del carattere dispotico ed antidemocratico del regime. E contro l’invasione dell’Ucraina. Certo è un pacifista contro l’escalation militare che chiude ogni spazio ad una soluzione negoziale. Ed è un severo critico della Nato , delle politiche di riarmo, che non servono certo ad aiutare gli ucraini a difendersi, ma alle logiche imperiali degli USA (che fanno il paio con le logiche imperiali neozariste) con una Europa totalmente subalterna e priva di autonomia politica. Come ho già detto la crescita delle spese militari, in Europa, serve solo ad alimentare il commercio e la vendita delle armi, per realizzare enormi profitti.