Archive for marzo, 2021

marzo 27, 2021

Rcicordando Fiorentino Sullo

di Massimiliano Amato

L’on. Fiorentino Sullo, ministro dei Lavori pubblici nel primo governo di centro-sinistra, diretto dall’on. Fanfani, ha raccolto nel volume “Lo Scandalo Urbanistico” (Firenze, Vallecchi 1964) la documentazione del sorgere e del tramontare in seno alla DC delle illusioni riformatrici nel campo dell’urbanistica. È una parabola che inizia dal congresso di Napoli e dalla successiva formazione del governo Fanfani, che ha il suo corso più rapido e ascendente durante l’estate del 1962, raggiunge il punto più elevato alla fine di settembre, al Congresso ideologico della Democrazia cristiana a San Pellegrino e, subito dopo, inverte la propria direzione e precipita miseramente insieme, del resto, a tutto il castello programmatico del primo governo di centrosinistra. L’on. Sullo, parlando a San Pellegrino non lesinava l’audacia delle sue affermazioni: “La legge urbanistica sarebbe più rivoluzionaria, non dirò della legge di nazionalizzazione dell’industria elettrica, che è proprio nulla rispetto a una seria legge urbanistica, ma persino della legge di riforma agraria”, ed individuando possibile una prossima soluzione aggiungeva: “Sarebbe veramente una grande vittoria per la Democrazia cristiana se non aspettasse altre legislature per porre a fuoco questo problema sotto la pressione di altre forze politiche”. Non sappiamo fino a che punto l’on. Sullo, pronunciando queste parole, si cullasse nelle sue generose illusioni, ovvero intendesse, così, di esercitare una pressione sulle potenti forze che già si erano messe in movimento (e lui lo sapeva) per insabbiare lo schema di una nuova legge urbanistica che, durante l’estate, era stato approntato   di studio da lui stesso nominata. Dalla lettura attenta della sua prefazione e dal riscontro dei documenti raccolti nel volume risulta però in modo inoppugnabile che, mentre egli pronunciava le parole che abbiamo sopra riportate, aveva già rinunciato a parte del suo programma ed aveva avuto anche numerose occasioni di registrare segni non equivoci di resistenza ed opposizioni insuperabili”. Così, sulla Rinascita del 25 aprile 1964, non senza una punta di ingenerosità (Fiorentino Sullo difese sempre a spada tratta l’impianto originario della “sua” legge) Aldo Natoli sintetizzava la parabola dello schema di riforma urbanistica dello statista irpino che avrebbe potuto cambiare il corso della storia italiana, e invece fu affossato dal partito traversale della rendita fondiaria e del cemento, del quale la destra Dc rappresentava il principale terminale nel governo del Paese.

In occasione del centenario della nascita di Fiorentino Sullo (che cade lunedì prossimo, 29 marzo) molti ricorderanno il grande impegno per la rinascita del Mezzogiorno, sviluppatosi negli anni che vanno dal 1943 al 1958, e che come ha ricordato Pierluigi Totaro in un pregevole studio, “Modernizzazione e Potere locale” (Napoli, 2012), rappresentò un efficace punto di sintesi e di incontro tra il meridionalismo di matrice sturziana e l’elaborazione laica di un altro grande irpino, Guido Dorso, prematuramente scomparso nel 1947. Altri ancora ricostruiranno il suo complicato rapporto con la Dc sfociato a un certo punto in una clamorosa rottura, seguita poi da un altrettanto clamoroso ritorno. Troppo forte è, però, una suggestione legata a un dato biografico che può apparire insignificante e invece riassume quasi per intero la sua traiettoria di visionario lucidissimo nelle idee e nei propositi, sconfitto, ma non vinto, dalla piega presa dalla storia italiana dopo il rapido tramonto della grande utopia riformatrice dei primissimi anni Sessanta. Il fatto cioè che egli abbia trascorso l’ultimo tratto della sua vita e sia morto, all’inizio del nuovo millennio, nella città campana – Salerno – che negli stessi anni del suo crepuscolo si avviava a diventare uno dei luoghi simbolo, non solo nel Sud Italia, di ciò che il suo progetto di riforma urbanistica del 1962 puntava a scongiurare. Il trionfo del cemento legato alla speculazione edilizia privata. Era successo che, sette anni prima che lo statista irpino morisse, nel 1993, uno degli ultimi epigoni di quello stesso partito in cui nel 1964 militava Natoli, e di cui Rinascita era uno degli organi di stampa, appena salito al potere, tra tutte le categorie economiche presenti in città aveva adottato quella dei costruttori. Con un programma che si racchiudeva in un’esortazione: “Arricchitevi”. E così è stato. Più che un’altra storia, esattamente la stessa storia che, 30 anni prima, aveva portato alla sconfitta di Sullo.

Quando, nel 1962, da ministro dei Lavori Pubblici del IV governo Fanfani, Fiorentino Sullo presenta la sua bozza di Riforma Urbanistica, l’Italia sta mutando pelle. Da paese prevalentemente agricolo è diventato una potenza industriale, e alla trasformazione della struttura economica corrisponde una tendenza del “neocapitalismo”, studiato in due storici convegni dei maggiori partiti politici (la Dc a settembre del 1961 San Pellegrino, il Pci a marzo del ’62 all’Istituto Gramsci), che nei due decenni successivi si cercherà di arginare con interventi legislativi, ma che mostra fin da subito caratteristiche aggressive. E’ il boom dell’edilizia privata, basato su un assalto indiscriminato alle aree libere da parte dei costruttori. Le città, soprattutto nelle periferie, cambiano completamente volto. Il processo si è messo in moto già nella seconda metà degli anni Cinquanta, ma la politica arriva molto tardi a manifestare coscienza della sua pericolosità. Anzi, in alcuni casi, la ignora deliberatamente: è in quel periodo che pezzi importanti dei partiti governativi sottoscrivono un tacito pactum sceleris con i costruttori. Di contro, agli albori dei Sessanta, ancor prima del varo del primo governo di centro-sinistra organico, va affermandosi la consapevolezza che “lo sforzo riformatore” che le mutate condizioni storico-economiche del Paese richiedono alla politica – e che dovrebbe avere il suo fulcro nella cosiddetta “programmazione economica”, basato sulla presenza pianificatrice dello Stato nell’economia – non possa prescindere da interventi regolamentativi profondi e radicali anche in questo specifico settore. Sullo, dunque, si fa carico di un’esigenza cruciale, che dagli ambienti tecnici (architetti, ingegneri, geologi) più avvertiti e progressisti, dilaga nel dibattito politico e in quello culturale. Con il quarto esecutivo a guida Fanfani, che si regge sull’astensione (e non ancora la partecipazione) dei socialisti, lo schieramento riformatore ottiene le vittorie più importanti: la scuola media unificata, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, imposta dalla coriacea determinazione del socialista Riccardo Lombardi, e tutta una serie di provvedimenti meno pubblicizzati ma non per questo poco significativi, come la creazione della prima commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia, l’attenuazione della censura, l’istituzione del presalario universitario, la legge che sancisce la possibilità per le donne di accedere a tutti gli impieghi compresa la magistratura. E la tassazione della proprietà edilizia, che, alla fine, è quel che resta (molto poco, quasi niente) del grande progetto di riforma elaborato dallo statista di Paternopoli con la consulenza di giuristi, economisti, sociologi. La parte più “rivoluzionaria” della riforma era la profonda modifica del regime proprietario delle aree: di proprietà privata sarebbe rimasta soltanto una parte delle aree edificate, le altre aree – edificate o edificabili – sarebbero dovute passare gradualmente in proprietà dei comuni, che avrebbero ceduto ai privati il diritto di superficie per le utilizzazioni previste dai dispositivi programmatori (piano regionale, piano comprensoriale, piano regolatore comunale e piano particolareggiato). Per affossare il disegno di legge, la destra Dc e confindustriale fece passare il messaggio (il primo organo di stampa a prestarsi fu Il Tempo di Roma) che Sullo voleva confiscare la casa agli italiani.  “A casa mia, con un senso di sgomento e di smarrimento più che di curiosità, miei parenti stretti mi chiesero, anche essi, se volessi togliere loro davvero la casa – avrebbe dichiarato più tardi il ministro. – Ed io, confesso, non sapevo più come difendermi da una allucinazione generale: non bastava a difendermi il tentativo di spiegare gli errori giuridici degli oppositori, né il rammentare che in Parlamento, nell’ottobre 1962, avevo dichiarato che del diritto di superficie si sarebbe potuto fare a meno”. Anziché consentirgli di spiegarsi, magari in televisione, la Dc preferì scaricare il suo ministro. Con una “dolorosa nota” del 13 aprile 1963, 15 giorni prima del turno elettorale di quell’anno, “Il Popolo” comunicava che il partito dissociava la propria responsabilità dall’operato di Sullo. “Se i lavoratori non erano sufficientemente mobilitati a favore della legge, la mobilitazione dei proprietari di case era invece massiccia”, avrebbe commentato il ministro. Il mondo della cultura non restò insensibile, anzi. In quello stesso anno, il 1963, nelle sale cinematografiche arrivò “Le mani sulla città” di Francesco Rosi, che attraverso il personaggio di Edoardo Nottola raccontava la figura del costruttore rapace che con la complicità della politica si arricchisce seppellendo Napoli sotto un’autentica colata di cemento. E Einaudi riportò in libreria “La speculazione edilizia”, ferocissimo pamphlet sotto forma di romanzo breve che Italo Calvino aveva scritto due anni prima, nel 1961, ambientandolo nella sua Rapallo sfregiata dal cemento selvaggio. Ne nacque un termine, “rapallizzazione”, che da allora definisce l’attacco indiscriminato al territorio.

marzo 27, 2021

DOPO DRAGHI LETTA,LA NORMALIZZAZIONE CONTINUA!

Di Luca Massimo Climati

Letta è arrivato per ‘modernizzare’ il PD e toglierlo da una condizione di rissa permanente e di subordinazione politica.

Chi ha deciso di sostituire Zingaretti con Letta ha però  in mente anche una ridefinizione complessiva degli equilibri politici in Italia all’interno del quadro europeista e atlantico. Quindi bisogna concepire questo passaggio non solo come alternanza di leadership, ma qualcosa di molto più ampio che è partito dalla defenestrazione di Conte. Siamo in piena pandemia, ma parallelamente siamo dentro una operazione di riorganizzazione del campo imperialista occidentale che coinvolge l’EU e i rapporti con gli USA.

Se questo è il disegno bisogna fare un bilancio sia di come procede l’operazione restaurazione e normalizzazione che di come ci si deve muovere per contrastare i disegni dei nostri avversari politici e di classe. Pensare di contrapporsi a tutto questo con dichiarazioni ‘ e con i appelli generici non può modificare la situazione.

Abbiamo avuto modo di constatare questa cosa nella iniziativa  dell’11 marzo scorso a Roma. L’appello a manifestare veniva da un comitato internazionale che, sostenuto da molti governi, richiedeva la sospensione dei brevetti sui vaccini per consentire la vaccinazione gratuita a livello mondiale. Un’ottima occasione dunque che peraltro è legata a tutta la gestione sanitaria del nostro paese. Davanti a Montecitorio c’erano però solo alcune decine di persone, tutte riconducibili al solito circuito della sinistra ‘alternativa’ romana, con tanto di sventolio di bandiere, mentre mancavano del tutto  settori di popolazione a cui la proposta di lotta sui vaccini sarebbe dovuta sicuramente interessare.

Si può dichiarare guerra al governo Draghi in queste condizioni?

Continua ad imperare in questo modo il principio che non importa quello che facciamo e quali risultati otteniamo, ma quello che diciamo coi comunicati e le testimonianze. Quando si comincerà a stabilire una connessione tra proposte, risultati e gli strumenti operativi per conseguirli? Le prospettive dipendono difatti da questa capacità di connessione. Draghi e il suo blocco golpista dobbiamo imparare a combatterlo veramente e non a parole.

Torniamo dunque alla questioni essenziali che riguardano sia gli strumenti che un ipotesi di programma che sia in grado di misurarsi con la sfida della normalizzazione  che ci viene  dall’operazione Draghi e ora anche dal programma di Letta. In primo luogo abbiamo la questione dello strumento. Pensare di poter affrontare un nemico che, nonostante le contraddizioni che si esprimono al suo interno e nella gestione del potere non solo non può essere assolutamente sottovalutato, ma neppure combattuto con l’arco e con la freccia perchè questo ci rende ininfluenti. Se vogliamo affrontare lo scontro, alle parole devono seguire i fatti. E fatti significa cogliere in modo preciso le contraddizioni e coinvolgere veramente coloro che le subiscono. Bisogna rendersi conto che siamo ben lontani da questa capacità e senza acquisirla rimaniamo soggetti alla manipolazione mediatica che il potere, nelle sue varie articolazioni, esercita sulla gente.

Mao diceva: osare combattere, osare vincere. Per noi il motto deve essere: imparare a combattere, imparare a vincere.

Si tratta, di riportare la discussione sul terreno del realismo e della verifica delle intenzioni di chi dichiara di voler combattere.

Ma quale forza organizzare e in che modo?

Intanto si tratta di fare, in proposito, i conti con un luogo comune in cui sguazza una certa sinistra: la retorica delle lotte senza tener conto che esse, per essere vere,  hanno un inizio e anche una fine e soprattutto un esito. Nutrirsi di ideologia non fa progredire il movimento: o si riduce questo ad un rito o lo si porta alla dispersione e alla sconfitta. Quindi, per andare al concreto, bisogna in questa nuova fase capire da dove partono queste lotte e qual’è il percorso e come ci attrezziamo. La riflessione da fare è questa.

Senza allargare il discorso limitiamoci alla partenza e rendiamoci conto che la prima e la più urgente delle questioni che ci stanno di fronte è quella della pandemia, dei vaccini e delle condizioni di salute della gente e le questioni sociali collegate.

Le forze che si raccolgono attorno a Draghi sanno che su questo si gioca la loro credibilità e il loro futuro.

Possiamo su questo affrontare lo scontro e disarticolare i progetti della restaurazione e della normalizzazione?

Possiamo da questo iniziare a creare una forza reale che sappia combattere la battaglia e porre le condizioni perchè l’esperienza e il risultato positivo possa rimettere in moto ampi settori di sinistra e dargli fiducia che le cose possono cambiare?

In  Italia ci sono milioni di persone che sono diffidenti rispetto all’azione di governo, ma confuse sulle responsabilità. Quest’opera di chiarimento dobbiamo saperla fare uscendo dalle nicchie e impegnandoci in campo aperto e con una forza unitaria e credibile.

marzo 21, 2021

Giuda potrà mai essere perdonato?

Di Beppe Sarno

Si avvicina la Pasqua. Essa è la festa fondamentale per i cristiani, perché celebra la resurrezione di Cristo dopo la sua morte sulla croce. Tanti sono i personaggi che girano attorno alla morte di Gesù. Il finto democratico Pilato, i sacerdoti del tempio, il popolo che fece la scelta scellerata, i soldati romani, tra cui spicca quello che infilò la lancia nel costato del Cristo crocifisso,  le pie donne e tanti altri, alcuni presenti nei vangeli o  altri raccontati diversamente. Fra questi certamente un posto di riguardo è stato da sempre riservato agli apostoli. Pietro il primo pontefice, Giovanni l’evangelista, il primo della classe, Tommaso l’uomo del dubbio e via via gli altri per finire a Giuda.

Giuda il turpe, Giuda il traditore. Fin da ragazzi nelle scuole, al catechismo, nelle raffigurazioni, ci hanno insegnato che Giuda era il prototipo della perversione e del tradimento. Giuda era l’uomo che si è macchiato del peccato più abominevole perché aveva tradito il maestro.     Si dice “il bacio di Giuda” per indicare il tradimento per eccellenza. Personaggio enigmatico che compare alla ribalta solo per quel bacio, per il pagamento dei trenta denari e per la sua morte avvenuta in assoluta disperazione  e solitudine.    Eppure Gesù amava questo discepolo, che nelle narrazioni non viene mai alla ribalta, rimanendo quasi nascosto rispetto agli altri. Eppure quanto di Giuda c’è in ognuno di noi? Quante volte siamo stati assaliti dal dubbio se rispettare un patto o venire meno ad una parola data? Quante volte ci siamo vergognati per una piccola infamia, che non avremmo voluto commettere? Giuda che amava Cristo, che lo aveva seguito conquistato dal suo messaggio, rischiando la morte e che malgrado tutto questo riesce a tradirlo per poi sprofondare in un abisso di disperazione tanto grande da volere la morte.

Ecco quindi che Giuda diventa personaggio centrale della narrazione evangelica. Nel domandarci quali sono state le motivazioni che hanno spinto Giuda a tradire il suo maestro dobbiamo domandarci come molti hanno fatto prima, perché Dio ha creato un uomo che potesse indossare l’abito del traditore. Sembra che la figura di Giuda sia stata creata per dare risalto agli altri personaggi del racconto evangelico, come per dire se c’è Giuda ci sono anche gli altri che sono invece personaggi positivi. Nello stesso tempo Giuda contraddice il messaggio evangelico della misericordia e del perdono. Più è abietto Giuda e migliori sono gli altri. Ma perché Giuda ha tradito? Per denaro? Perché ad un certo punto ha creduto che fosse giusto? Perché ha avuto un ripensamento sulla validità del messaggio di Cristo? Perché il suo essere ebreo ha preso il sopravvento rispetto alla nuova fede che predicava Gesù?

I Vangeli parlano della passione e morte di Gesù come di una vicenda umana dove l’elemento soprannaturale è sottinteso, ma non  immediatamente percepibile. Anche l’ultima cena è rappresentata in maniera umana dove gli apostoli e lo stesso Cristo non recitano un copione già scritto, bensì vivono una vicenda intrisa di umanità che ancora oggi, dopo duemila anni, ci commuove.

Allora perchè Giuda? Se Giuda è il cattivo, il preverso per eccellenza il traditore, allora dove finisce la misericordia, il perdono?  Gesù lo ha chiamato amico e gli ha detto: “Amico, per questo sei qui!” (Mt 26, 50).

Ma gli ha anche detto “Ecco la mano di chi mi tradisce è con me sulla tavola. Il figlio dell’uomo se ne va, secondo quanto è stabilito; ma guai a quell’uomo dal quale è tradito” Lc. 22.21.-22.

Dov’è la misericordia in queste frasi?

Molti hanno risposto che Giuda fosse un predestinato, perché senza Giuda non si poteva compiere la vicenda di Cristo per come ci è stata narrata nei vangeli, ma è pur vero che probabilmente se Giuda non avesse tradito Gesù, lo avrebbe fatto un altro. Ma non può essere questa la risposta.

La salvezza promessa da Gesù non gli spettava. “Quanto mi volete dare perché io ve lo consegni?” Matteo 26. 14-16). “Giovanni 6.51-70. Gesù sapeva “Eppure uno di voi è il diavolo”

Se  il tradimento di Giuda era necessario al compimento della morte e risurrezione di Gesù, lo si può veramente ritenere colpevole di quello che ha fatto? In fondo, il suo comportamento risponde a un disegno divino: come può allora Dio condannarlo?

Quel disegno poteva compiersi in mille altri modi. La letteratura sul tradimento di Giuda è sterminata e per questo per avere le risposte che una prova a darsi non ci si può discostare dal Vangelo.

Gesù non poteva essere tradito da un quivis de populo, bensì doveva essere tradito  da uno dei suoi uomini.  Secondo Giovanni  Gesù fin dall’inizio dice a Cafarnao scacciando alcuni aspiranti discepoli “perché non credevano” e poi soggiunge “non ho forse scelto io voi, i dodici? Eppure uno di voi è il diavolo” ed è sempre Giovanni a spiegare “ Egli parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariota; questi infatti stava per tradirlo, uno dei dodici.” Durante l’ultima cena Gesù dice a Giuda “quello che devi fare fallo al più presto!”Contraddizioni irrisolte ancora oggi.

Matteo, Marco e Luca definiscono Giuda come un traditore “quello che poi lo tradì”, ma Pietro negli “atti degli apostoli dice “”fratelli, era necessario che si adempiesse ciò che nella scrittura fu predetto dallo Spirito santo per bocca di Davide riguardo a Giuda, che fece da guida a quelli che arrestarono Gesù. Egli era stato del nostro numero e aveva avuto in sorte lo stesso nostro ministero”. In Pietro sembra leggersi Giuda appunto come il predestinato, colui che deve compiere una missione perché si deve compiere il destino di Gesù. In queste affermazioni di  Pietro c’è una sorta di assoluzione nei confronti di Giuda perché compie una specie di atto dovuto. Non è Cristo che definisce Giuda amico (filoi) e nello stesso tempo afferma “amici sono detti coloro che faranno ciò che io vi comando” (Giov. 15.14)

Allora Giuda era il traditore o il prescelto? O era stato prescelto perché tendenzialmente traditore’? E’ il libero arbitrio che è in gioco. Se Giuda era un predestinato viene negato il libero arbitrio; ma se Giuda tradisce per sua volontà e vien punito con la morte e con la perpetua condanna allora la nostra fede non è la fede del perdono e della misericordia. Qual è la verità?

In Giovanni viene raccontato un altro episodio in cui si narra di Gesù che andato a Betania  fu omaggiato del lavaggio dei piedi con olio profumato di nardo da parte di Maria. Giuda criticò il fatto sostenendo che quell’olio poteva esser venduto e i soldi dati ai poveri e Gesù rispose “Lasciala fare perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri li avrete sempre con voi, ma non sempre avrete me.”(Giov. 12.1-8) Giovanni critica Giuda perché era lui che teneva la cassa e lo definisce ladro che non capisce che l’amore per Gesù viene prima di ogni cosa.

Alcuni hanno visto in questo gesto di Giuda una sua disillusione perché diversamente da quanto predicato si sprecavano soldi per un fatto voluttuario : Subito dopo infatti ”di conseguenza uno dei dodici, Giuda Iscariota, andò dai sommi sacerdoti.”(Matteo 26.14). Dolore, rassegnazione, delusione.

Però alcuni teologi hanno fatto notare che nei vangeli vien usato il verbo “paradidomi” ed il verbo significa “consegnare” ed ancora che solo Luca definisce Giuda traditore.

Gesù dice ““Amico, per questo sei qui!” (Mt 26, 50).

Secondo il cd. Vangelo di Giuda un testo ritrovato in epoca recente  Gesù sarebbe puro spirito sofferente perché incarnato. E’ chiaro che questo testo ci presenta un Giuda diverso “tu sarai maggiore tra loro poiché sacrificherai l’uomo che mi riveste.” Così Giuda diventa l’amico che libera Gesù dalla sua natura umana.

   Scrive Giovanni: venne la luce, ma gli uomini preferirono le tenebre. Forse Giuda non era necessario, ma è necessaria la morte e resurrezione di Gesù causate dal rifiuto dell’umanità alla salvezza proposta dal Padre. ma il Padre ne fa tesoro e con quella morte ci salva.

Giuda, il traditore, è stato prescelto dalla Divina Provvidenza, per il suo gesto proditorio? Potrà mai essere perdonato, visto che uno avrebbe dovuto tradire Gesù, perché il Figlio di Dio venisse crocifisso per la salvezza dell’umanità)?

Fu Giuda l’unico traditore? Come giudichiamo Pilato che messo di fronte ad una scelta si rimette al popolo ebreo, e come giudichiamo il popolo che lo aveva acclamato e poi sceglie Barabba? 

“Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato si penti e riportò le trenta monete d’argento ai sommi sacerdoti e agli anziani dicendo “Ho peccato perché ho tradito il sangue innocente.” Ma quelli dissero “che ci riguarda veditela tu!”

La morte disperata di Giuda è la certificazione di un fallimento di un uomo che aveva creduto in un progetto, se ne era innamorato, ma ha poi creduto di veder fallire questo progetto non per colpa sua, ignorato dai compagni, è incapace di andare avanti ed incapace di tornare indietro. I sacerdoti che lo avevano pagato non avevano più bisogno di lui, lo disprezzavano, gli  apostoli gli sembravano nemici, il futuro gli si era sciolto fra le mani: Giuda era come paralizzato fra un presente orribile ed un futuro oscuro e perciò aveva capito che il destino si era compiuto. Nella letteratura e nella pittura forse la disperazione di Giuda viene messo in evidenza con estrema efficacia perché è la disperazione di Giuda che diventa l’elemento centrale della narrazione.

Perché gli apostoli non si sono ribellati? Perché non hanno impedito che questo disegno si avverasse in questo modo così tragico per il loro maestro? Si può dire perché questo era deciso! E allora se questo era deciso perché Giuda si precipita verso il suicidio senza un ripensamento, senza un dubbio, senza pensare che ci poteva essere una via d’uscita.

Alcuni hanno visto in Giuda la rappresentazione dell’intero popolo d’Israele; condannando Giuda andava condannato l’intera fede ebraica. Ma questa interpretazione oggi è stata per fortuna ripudiata. Francesco e gli altri pontefici che lo hanno preceduto hanno assunto posizioni nette affermando che il cristianesimo non è la negazione dell’ebraismo.

E allora si torna alla domanda di partenza è possibile che Cristo abbia abbandonato Giuda senza possibilità di perdono? Cristo invoca la misericordia del padre dicendo “perdona loro perché non sanno quello che fanno”? Perché Giuda non dovrebbe rientrare in questo “Loro”?

Cristo parla a Giuda con dolore, ma anche con amore; in lui non c’è la condanna per il gesto del discepolo, ma rassegnazione. Il destino di entrambi sta per compiersi da un parte la crocefissione, dall’altra il suicidio. E’ un’umanità dolente che si confonde come una metafora dell’intero genere umano.

Dante colloca Giuda nella Giudecca e vedendo Lucifero esclama “Oh quanto parve a me gran meraviglia quand’io vidi tre facce a la sua testa!”. La testa centrale che è rossa divora appunto Giuda In questa estrema fossa infernale dove è esclusa ogni parvenza di umanità e la faccia di Lucifero appare rossa perché metafora del sangue versato da Cristo, e di quello stesso che Giuda versò di sè, suicidandosi;  rossa come la vergogna peggiore del genere umano, che Giuda incarna e sembra destinato ad incarnare in eterno, rossa necessariamente è la faccia di Lucifero, che  lo divora per l’eternità, in un processo di eterna assimilazione a sè stesso.

Terribile Dante!

Eppure diventa difficile giudicare Giuda perché oltre ad essere il predestinato si potrebbe pensare come qualcuno ha fatto perchè  è stato stesso Gesù che  ordina a Giuda di ‘tradirlo’, al fine salvare tutti gli altri, e non solo gli apostoli, da sicura morte. “Non giudicate, per non essere giudicati: perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati e con la misura con cui misurate sarete misurati”.

Invece nei secoli la tradizione dei teologi ha sempre condannato Giuda come il traditore, mentre chiunque si sia misurato con il dramma di Giuda abbia espresso i giudizi più contrastanti.

Il Noi come cristiani possiamo perdonare il gesto di Giuda senza affermare che va assolto perché era un predestinato e quindi senza colpa?

Questa teoria non può reggere Giuda: ha tradito per sua scelta sapeva di tradire e lo ha voluto. Si è poi pentito. Il pentimento fa parte della cultura cristiana mentre  nella tradizione classica, quella greca per intenderci, non esiste il pentimento esiste invece l’espiazione: pensiamo a Edipo. Invece fin nella Bibbia ebraica esiste il perdono come prova della misericordia di Dio.

Non è vero che il padre corre  a braccia aperte a perdonare il figliol prodigo? Non è vero che Satana nel dottor Faust di Mann nel sottoscrivere il contratto afferma “Il peccato quando è talmente enorme da far sì che il peccatore  profondamente disperi della salvezza, è la vera teologia della salute?” Quindi Giuda crede di aver commesso un crimine imperdonabile  ed è invece la gravità del crimine che lo salva. La disperazione si trasforma e salva Giuda.

Se Giuda non potrà essere mai perdonato dove finisce il rapporto fra la libertà dell’uomo e il piano della Divina Provvidenza? A questa domanda risponderei con un’omelia di Don Mazzolari il quale afferma “vedete Giuda, fratello nostro! Fratello in questa comune miseria e in questa sorpresa! Povero Giuda. Una Croce e un albero di un impiccato. Dei chiodi e una corda. Provate a concordare queste due fini. Voi mi direte “muore l’uno, muore l’altro” Io però potrei domandarvi qual è la morte che voi eleggete, sulla croce come il Cristo,   nella speranza di Cristo, o impiccati, disperati, senza niente davanti. Perdonatemi se questa sera che avrebbe dovuto essere di intimità io vi ho portato delle considerazioni così dolorose, ma io voglio bene anche a Giuda, è un mio fratello Giuda. Pregherò per lui anche questa sera, perché io non giudico io non condanno; dovrei giudicare me, dovrei condannare me. Io non posso pensare che anche per Giuda la misericordia di Dio, questo abbraccio di carità, quella parola “amico” che gli ha detto il signore mentre lui lo baciava per tradirlo, io non posso pensare che questa parola non abbia fatto strada nel suo povero cuore. E forse l’ultimo momento, ricordando quella parola e l’accettazione del bacio anche Giuda avrà sentito che il Signore gli voleva ancora bene e lo riceverà fra i suoi di là. Forse il primo apostolo che è entrato insieme ai due ladroni.”  Dante, il mio mito, esce sconfitto da queste parole.

Parole forti: “Giuda nostro fratello”  e “Giuda è anche in noi.” Su questo bisogna riflettere per capire se possiamo accettarlo e per capire chi siamo.

E chi siamo noi per non perdonare Giuda?

marzo 19, 2021

Nemesi

di Alberto Benzoni

Il Pd è ridotto male. E non per ragioni contingenti. Ma perché vittima di un contrappasso in cui i suoi punti di forza si sono trasformati in oggetto di debolezza E in ogni campo.Così il partito di “Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer”, dirigenti dalle virtù sacrali, ha visto Zingaretti prima schernito e poi dimissionario, vergognandosi del partito che (si fa per dire) dirigeva.Così, il partito, di cui i comitati centrali erano l’oracolo, è diventato un partito che non riesce a fare un congresso vero e in cui il capo dell’opposizione interna dirige un altro partito.Così il partito che si identificava con il Movimento Operaio sta cercando, affannosamente, di essere il punto di riferimento di qualcun altro ma senza riuscirci.Così uno dei fari del comunismo internazionale vota, al Parlamento europeo, una mozione in cui comunismo e nazismo vengono equiparati, dichiarando, successivamente, di non averla letta bene.Così, infine, il partito che era in grado di dettare sia le regole sia il campo di gioco, ne ha creato uno nuovo, dove è diventato terra di conquista, aperta al primo salvatore (?) di turno.Potremmo continuare all’infinito. Ma è quanto basta per usare un termine religioso, nemesi, per definire ciò che è accaduto.La nemesi non è, naturalmente, una punizione incomprensibile legata alle pulsioni di una divinità capricciosa.E non si conclude, necessariamente, con la condanna definitiva del reprobo.Diciamo allora che è un segnale. Una serie di eventi che vogliono essere un avvertimento. “Hai peccato e gravemente. Ma devi essere tu a capire in che cosa e perché. Solo così potrai salvarti dalla rovina”.A tutt’oggi nessuno sembra aver recepito questo messaggio. Né il Pd che continua a non capire quello che è successo (sino a rappresentare l’”andare verso il popolo” nella scena tragicomica di Martina – che gioca a pallone con i ragazzi di Scampia) e che, quindi, incapace di autocritica. Né i santoni che ieri lo esaltavano e oggi ci sputano sopra e sempre con la stessa boria. Né, infine, i rappresentanti della “vera sinistra” che oggi lo invitano a sciogliersi per lasciare loro il posto, salvo a non presentarsi all’appuntamento, perché chiusi in una stanzetta a litigare. Ora, rendere ciechi e sordi, è proprio della nemesi. A segnalare il fatto che gli ex comunisti si sono macchiati agli occhi di Dio (o, più modestamente, del dio della storia) di quello che forse è il peggiore dei peccati capitali: la superbia. Leggi la convinzione di essere creatori o quanto meno unici interpreti autorizzati della storia senza accorgersi che ne erano diventati seguaci passivi e proprio quando andava nella direzione opposta a quello che avevano sempre seguito.È la legge del contrappasso. Dove la convinzione di capire tutto ti porta a non capire niente. Come avverrà ai tempi di Mani pulite, quando gli ex comunisti pensavano di dirigere un processo promosso in realtà dai loro futuri avversari e con loro in tribuna a battere le mani. E ancora, con effetti ancora peggiori, quando furono in prima fila nel distruggere una prima repubblica, di cui erano stati protagonisti privilegiati per benedire una seconda, il cui ambiente sarebbe risultato per loro sempre più sfavorevole.La nemesi, si sa, confonde la vista delle sue vittime. Un partito che è giunto a tollerare il fatto che a porre il veto sulle sue stesse intenzioni stessi sia il segretario di un altro partito, sostanzialmente avverso, non sa difendersi e quindi non può essere difeso. E ancora, un partito che sale in cattedra mostrando di continuo il cartellino giallo al popolo colpevole di averlo abbandonato nega, con ciò stesso, la possibilità di recuperarlo. E, infine, l’incapacità, antica e recente, di essere o di sentirsi alternativi, in termini ideali o di rappresentanza di interessi, nega la capacità di svolgere la funzione che gli è stata affidata.Questo per dire che non c’è alcun pentimento. Anche perché, almeno in politica, tu puoi pentirti di tutto e di più e a sopportare ogni tipo di critica; ma non fino al punto di riconoscere coram populo di essere, individualmente o collettivamente, la sua stupidità.E, allora, a porre termine al contrappasso, non sarà la catarsi dell’interessato. Ma il suo istinto di conservazione. Nato dalla consapevolezza che il suo stesso destino si gioca nell’arco di quest’anno. In un arco di tempo, in vista anche del dopo Draghi e dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica, che ha come suo momento di verità le prossime elezioni in quasi tutte le grandi città. E in cui la scelta sarà fra il costruire (in una elezione a due turni) le premesse di una sinistra competitiva, anche se per ora basata sulla semplice intesa con il M5S e con le altre sue formazioni e il seguire Renzi in un viaggio nel centro e nella destra da cui rischia di non uscire vivo.Ed è in questo ambito ristretto ma decisivo che dobbiamo valutare il ruolo di Letta. A prescindere, per favore, di quello che ha detto o fatto anni fa e da chi ha frequentato; così da capire quello che significa oggi la sua chiamata in soccorso. E rispetto a quale pericolo.Riassumiamo ora, per concludere, la posta in gioco e le opzioni alternative. E la probabilità che Letta condivida quelle giuste; unita alla possibilità, tutta da verificare, che riesca a farle passare.Giusto, anzi essenziale, rivendicare l’autorità del segretario, in un partito in cui il diritto di veto è esercitato da tutti e di continuo, soprattutto dai cacicchi locali e da personaggi esterni, tipo Calenda, che non hanno alcun titolo per rivendicarlo. Qui nessuno dei vari candidati di area comunista era, anche, lontanamente, in grado di svolgere questo ruolo. Mentre invece Letta è perfettamente consapevole che l’accettazione, anche tacita, di questo veto, sarebbe per lui rovinosa. Sulla necessità vitale di diventare alternativi, lo steso Letta è stato estremamente chiaro. Anche se la sua appartenenza alla sinistra didattica lo ha portato a citare due iniziative, oggi purtoppo fuori tema, solo perché indigeribili per il centro destra.Infine, il Nostro dovrebbe aver capito che l’opzione maggioritaria può essere accettata dai suoi futuri compagni di viaggio solo se non sarà più uno sgabello per garantire al Pd il controllo sui suoi alleati e, insieme, la libertà di movimento nei confronti degli altri.Certo, siamo lontani dal pentimento e da qualsiasi nuovo corso. Ma, almeno, ci si è fermati prima di cadere nell’abisso e cominciamo a guardarci intorno.Poi si vedrà.

marzo 16, 2021

ROSA LUXEMBURG SOCIALDEMOCRATICA RIVOLUZIONARIA

di Giuseppe Giudice

Ho spesso espresso il mio punto di vista su rosa Luxemburg. E’ stata un mio amore di gioventù. Ma non riprenderò i ragionamenti che ho più volte fatto sulla grande importanza della sua figura. Boris Nicholaewsky , un importante storico russo, un menscevico di sinistra internazionalista (come Martov) , che fece diversi anni di deportazione in Siberia da parte degli Zar. Fu espulso dall’URSS nel 1921 , e girovagò tra Germania, Olanda, per poi approdare negli Stati Uniti quando Hitler invase l’Olanda. Poco conosciuto in Italia, Nicholaewsky era (morto negli anni 60) una grande miniera di informazioni (oggi sono depositate presso un archivio negli USA) , perchè ha , da un lato, fatto un minuzioso lavoro di ricerca, ma soprattutto ha collezionato una grande mole di interviste fatte a comunisti dissidenti antistalinisti, a Otto Bauer, a Bucharin, a diversi seguaci di Trotzky. Ma c’è una intervista particolare che si ricollega a Rosa Luxemburg. Ed è l’intervista a Theodor Liebtnech, fratello di Karl. Theodor, che condivideva lo studio di avvocato con il fratello , aderì subito alla Lega Spartachista , con Rosa, Karl, Paul Levi, Franz Mehring, per protesta contro l’appoggio della SPD alla guerra, nel 1914. La Lega Spartaco poi si federrò con i dissidenti della SPD (che nel 1916 furono espulsi dal partito) e che formarono la USPD (socialisti indipendenti). Nel gennaio 1919 un pezzo , soprattutto per la spinta di Karl Liebtnech , si staccò dalla USPD e formò il KPD. Partito comunista tedesco. Theodor però non li seguì, rimase nella USPD perchè temeva la bolscevizzazione del socialismo tedesco. Si oppose con fermezza alla destra socialdemocratica di Ebert, Scheidmann e Noske (che furono i mandanti dell’assassinio di Rosa e del Fratello). E comunque passò il resto della sua vita ad indagare sulla morte del fratello e scoprire chi fornì a Noske i nascondigli di Karl e Rosa. E comunque affermò che Rosa , nettamente contraria alla bolscevizzazione del movimento operaio tedesco, ebbe seri dubbi sull’opportunità di creare un nuovo partito. Preferiva fare l’ala sinistra della USPD (che comunque aveva una base di massa fortemente superiore agli spartachisti) , ma poi sentì il bisogno di non lasciare soli gli altri compagni. E comunque fu nettamente contraria all’insurrezione di Berlino che diede il destro a Noske, di scatenare i Freikorps con violenta opera di repressione non solo verso gli spartachisti, ma anche i socialisti indipendenti in Baviera (e contro molti stessi iscritti alla SPD) guidati da Kurt Eisner. I fatti sono noti. Ma il KPD progressivamente , diventato fortemente dipendente da Mosca , eliminò tutti i luxemburghiani . Da Paul Levi (primo presidente della KPD) che rientrò nella USPD, a Paul Frolisch più tardi. Theodor Liebtenech e George Lederbour , mantennero il simbolo della USPD , anche quando questa , nel 1923, rientrò nella SPD facendo la corrente di sinistra. Confluirono poi nella SAP (partito socialista dei lavoratori) che fu creata , negli anni 30 da parte della sinistra SPD e in cui confuirono alcuni comunisti antistalinisti. L’Obbiettivo della SAP (al quale aderì un giovanissimo Willy Brandt) era di creare un fronte unito di tutte le sinistre contro il nazismo , ma i comunisti , fortemente stalinizzati si opposero, la SPD restò diffidente. Comunque la SAP fu molto attiva nella lotta interna contro il nazismo, molti finirono fucilati e nei lager, come molti socialdemocratici e comunisti. Ora è passata molta acqua sotto i ponti. Ma sulla base di quello che ho scritto Rosa Luxemburg è definibile più una socialdemocratica rivoluzionaria che una comunista (nel senso del Komintern)

marzo 11, 2021

I centocinquant’anni della comune di Parigi.

Di Beppe Sarno


72 giorni è durata l’esperienza della Comune di Parigi, un’esperienza che ancora oggi viene ricordato come spirito di liberazione che pervase la Francia nel 1871 e che a torto o a ragione rappresenta l’alba dei movimenti rivoluzionari che da lì in poi scossero il mondo.

All’epoca della Comune, la Francia era ancora prevalentemente rurale, il 65% di una popolazione di oltre 38 milioni di abitanti. Parigi contava circa 2 milioni di abitanti, di cui più di 900.000 dipendenti e operai. La composizione “industriale e commerciale” rappresenta circa il 70% della popolazione parigina.

In questa Francia scossa da gravi problemi di politica interna e ad un movimento operaio di protesta, Napoleone III dichiarò guerra alla Prussia il 19 luglio 1870. Un mese e mezzo dopo, l’imperatore capitolò a Sedan il 2 settembre. La Repubblica venne proclamata il 4 settembre e fu formato un governo composto da Jules – Favre, Ferry e Simon – di Gambetta e alcuni altri, fra cui in particolare il generale Trochu che cumulò su di sé la presidenza e pieni poteri militari per la difesa nazionale. il 18 settembre successivo i tedeschi iniziarono l’assedio di Parigi.

A seguito di questi eventi la Guardia Nazionale, divenne un vero e proprio esercito, arrivando a un totale di 350.000 uomini. Per coordinare la loro azione, i battaglioni della Guardia Nazionale decisero di federarsi, creando un Comitato Centrale della Guardia Nazionale. È nella Guardia Nazionale che il patriottismo del popolo e il loro profondo attaccamento alla Repubblica trovarono il miglior modo di esprimersi.

 Il governo della Difesa Nazionale ebbe paura di questo popolo parigino armato, che non nutriva alcuna simpatia per un governo quasi illegale, che piuttosto che continuare la guerra, preferì il tradimento, firmando l’armistizio il 28 gennaio 1871, consegnando l’Alsazia e la Lorena alla Germania. Chiamata a ratificare la pace, l’Assemblea nazionale eletta l’8 febbraio prevalentemente monarchica scelse di sedersi a Versailles, l’ex capitale della monarchia, piuttosto che a Parigi, una città popolare per loro pericolosa. Inoltre, nominò Adolphe Thiers, ex ministro degli Interni sotto la monarchia di luglio, amministratore delegato.

All’inizio del 1871, la Guardia Nazionale aveva in consegna i cannoni pagati dai parigini per difendere la città dai tedeschi.

 All’alba del 18 marzo, su ordine di Adolphe Thiers che voleva disarmare Parigi, circa 6.000 soldati attaccarono le Guardie Nazionali che stavano a guardia dei cannoni. Le Guardie Nazionali e la popolazione, uomini, donne e bambini, avanzarono verso le truppe gridando: “Lunga vita alla Repubblica “! A quel punto Il generale Lecomte ordinò ai soldati di fare fuoco tre volte. Alla fine, i soldati  rivoltandosi al proprio generale lo arrestarono.

Da Montmartre, l’insurrezione trionfò e si diffuse rapidamente in tutta la città. Il governo di Thiers fuggì a Versailles e la sera del 18 marzo il Comitato centrale della Guardia nazionale si trasferì al municipio. Il giorno successivo fu convocata l’elezione di un’assemblea municipale. Immediatamente prese provvedimenti sociali in direzione della Comune: ripristinò la paga delle Guardie nazionali e la moratoria sugli affitti e le rate scadute.  Il potere era caduto nella mani del popolo per una fatalità “affatto spontaneamente , senza la minimo opposizione ( Engels  nella prefazione di “La lotta di Classe in Francia dal 1848 al 1850”) e “ ciò avvenne in seguito non ad un’azione cosciente ma alla ritirata degli avversari da Parigi.”(L. Trotskj “Gli insegnamenti della comune di Parigi”).

Comincia così la storia della Comune nata più per debolezza del potere costituito che per forza sua propria. La Comune “Nacque non perché un gruppo compatto di socialisti rivoluzionari l’avesse progettata in anticipo, come organizzazione modello di una nuova società socialista, ma perché gli eventi ne dettarono la struttura.” (Cole- Storia del pensiero socialista p.168)……“La Comune di Parigi finì col rappresentare principalmente le classi lavoratrici soltanto perché le classi rispettabili o abbandonarono Parigi o elessero a propri rappresentanti persone che, avverse alla rivoluzione, rifiutarono di prestare la loro opera” (ibidem)

Eppure Carlo Marx con il suo La Guerra civile in Francia. Indirizzo del Consiglio dell’Associazione Internazionale dei lavoratori ha reso quell’evento della storia del movimento operaio internazionale un mito perché per  72 giorni, dal 18 marzo al 28 maggio 1871, Parigi divenne un’unità politica con una struttura sua propria indipendente che Marx definì “la forma politica finalmente individuata” della dittatura del proletariato. Quest’ultima definizione è però di Engels.

Va osservato che le scelte della Comune furono scelte necessitate miste di  rivendicazioni piccolo borghesi e rivendicazioni operaie. La Comune nasce, come detto,  da un vuoto di potere.

I provvedimenti più significativi della Comune furono l’abolizione della coscrizione, la sostituzione della nazione armata all’esercito, la separazione fra Chiesa e Stato, la soppressione del fondo dei culti, la confisca dei beni di manomorta, la messa in stato d’accusa dei membri del governo di Versailles, la convocazione delle camere sindacali, e di quelle del commercio, l’istituzione del giurì popolare nei Tribunali, l’elezione diretta dei magistrati, l’istituzione degli uffici di collocamento.

Gli ispiratori della Comune furono di varia estrazione e fra loro c’erano seguaci di Proudhon e di Blanqui e pochi rappresentanti dell’Internazionale. Nella Comune confluiscono le eredità della Comune del 1793 di Chaumette e degli “Herbertisti”, delle rivoluzioni del luglio 1830 e del febbraio 1848. L’internazionale portava sia l’eredità di Bakunin che quella di Carlo Marx.

Perché dopo  centocinquanta anni la Comune vive ancora nello spirito dei socialisti e dei sinceri democratici?

L’attuale società non è la stessa di quella della Comune; il capitalismo è cambiato, la borghesia non è più la stessa i lavoratori non sono più gli stessi. Ma come è stato detto “ i sentimenti che animavano i comunardi sono i medesimi che noi abbiamo spesso provato, e il nostro sangue ha più di una volta battuto al ritmo del loro. E’ per questo che la Comune è vivente!”

Marx che si trovava a Londra comprese subito che l’esperienza della Comune non avrebbe avuto vita lunga e si rese conto che la inevitabile sconfitta della Comune avrebbe avuto pesanti ripercussioni per il movimento operaio in Europa e per l’Internazionale. Fu questo forse uno dei motivi per cui prese fin da subito posizione a favore della Comune, perché capì che solo l’esaltazione di questa esperienza avrebbe onorato la strage che poi fu fatta dei comunardi e avrebbe altresì onorato la sconfitta del tentativo di costruire uno stato basato sulla democrazia diretta senza burocrazia.

Fra le critiche che Marx riserva ai dirigenti della Comune fu quella di una mancanza di una effettiva volontà rivoluzionaria, di non aver confiscato la Banca di Francia, di non avere un progetto di guerra. Per gli Stati Conservatori dell’Europa il favore di Marx per la Comune divenne il segno distintivo di tutti i movimenti insurrezionali.

Per Trotskij l’errore dei comunardi fu non solo quello di non aver confiscato la Banca di Francia, ma anche e soprattutto quello di non aver fatto uso della violenza. Infatti il rivoluzionario russo  spiega che la sconfitta della Comune è stata determinata dal mancato uso della violenza  dice infatti “Se la Comune di Parigi avesse fatto questo, non sarebbe caduta, se aveva saputo mantenersi in una lotta ininterrotta, non c’è dubbio che sarebbe stato obbligato a ricorrere a misure sempre più rigorose per schiacciare la controrivoluzione”.

Marx nel suo libro chiarisce quello che poi diventerà per Lenin in “Stato e Rivoluzione” un punto dirimente. Dice Marx “La classe operaia non può prendere possesso della macchina dello stato (borghese) e farla muovere per i propri fini.” Per classe operaia Marx intende “tutte le classi che non vivono del lavoro altrui.”

 Oltre agli operai Marx inserisce fra i lavoratori gli artigiani, i contadini, i piccoli commercianti. Ciò non esclude però che erano gli operai ad essere la forza trainate della rivoluzione. Dice infatti Marx “Per la prima volta nella storia la piccola e la media borghesia si è schierata apertamente dietro alla rivoluzione degli operai acclamandola come unico mezzo per la propria salvezza e per quella della Francia! Essi costituiscono con loro la massa della Guardia nazionale, con loro siedono nella Comune.” Nel ’48 la borghesia aveva combattuto contro il proletariato, ora invece la piccola e media borghesia capisce “che solo la classe operaia può liberarla dal dominio dei preti, trasformare la scienza da uno strumento di classe in una forza al servizio del popolo, mutare gli uomini di scienza da mezzani dei pregiudizi di classe, da parassiti a caccia del posto e da alleati del capitale in liberi rappresentanti dello spirito! La scienza può svolgere la sua funzione autentica solo nella repubblica del lavoro.” Per Marx il concetto di lavoratore è un concetto allargato che non comprende solo gli operai, anche se alla classe operaia spettava la funzione di giuda del movimento rivoluzionario.

Nel suo scritto Marx delinea quale fossero le caratteristiche dello stato che egli riteneva necessario distruggere e lo definisce così “L’imperialismo è la più prostituta e insieme l’ultima forma di quel potere statale che la nascente società della classe media aveva cominciato ad elaborare come strumento della propria emancipazione dal feudalesimo e che la società borghese in piena maturità aveva alla fine trasformato in strumento per l’asservimento del lavoro al capitale.”

Per i comunardi, secondo Marx il problema non è prendere il possesso di questa apparato corrotto, bensì il possesso presuppone la distruzione per costruire dei propri organi politici autonomi ed indipendenti. Questo concetto sarà poi ripreso da Lenin che afferma “L’idea di Marx è che la classe operaia deve spezzare demolire  la macchina statale già pronta e non limitarsi semplicemente ad impossessarsene.”

La Comune fu vista da Marx come la forma positiva di una Repubblica ideale che avrebbe dovuto eliminare il dominio della classe borghese. Per Marx il burocratismo del bonapartismo che coniuga forme di legittimazione pseudodemocratiche con un apparato burocratico incontrollabile dalla popolazione rende l’emancipazione dei lavoratori impossibile.

L’abolizione dell’esercito permanente da parte della Comune fu una delle vittorie dei lavoratori; la stessa polizia divenne strumento della Comune revocabile ogni momento. Il pubblico impiego fu compensato con salari equivalenti a quelli degli operai. Tutto l’apparato statale passò nelle mani della Comune. Scrive Marx “Sbarazzatasi dell’esercito permanente e della polizia elementi della forza fisica del vecchio governo la Comune si preoccupò della forza della repressione spirituale, il potere dei preti, ….tutti gli istituti di istruzione furono aperti gratuitamente al popolo e liberati in pari tempo dall’ingerenza della Chiesa e dello Stato. Così non solo l’istruzione fu resa accessibile a tutti, ma la scienza stessa fu liberata dalle catene che le avevano imposto i pregiudizi di classe e la forza del governo.” Per ciò che riguarda l’organizzazione della Comune Marx afferma che “La comune doveva essere non un organismo parlamentare, ma di lavoro esecutivo e legislativo allo stesso tempo.” Lenin fa suo questo concetto in “Stato e Rivoluzione” per rimarcare la differenza fra la democrazia parlamentare borghese e quella socialista dei consigli.

 La Comune era la “forma politica dell’emancipazione sociale, la liberazione del lavoro dall’usurpazione. …Essa non elimina la lotta di classe ….essa però costituisce lo stadio intermedio nel quale la lotta di classe può percorrere le sue diverse fasi nel modo più razionale ed umano”.

In effetti la Comune usò nel legiferare il carattere dei rapporti di proprietà esistenti ponendoli al servizio dei lavoratori. Infatti il 16 aprile la Comune, usando uno strumento definibile riformista, dichiarò la possibilità di estinguere tutti i debiti pagabili ratealmente e senza interessi; il 20 aprile veniva proibito il lavoro notturno per i panettieri; fu vietata la giurisdizione degli imprenditori sui propri dipendenti;   fu dichiarata la moratoria sugli affitti. La misura più radicale fu però quella di affidare fabbriche ed officine abbandonate per la fuga dei proprietari a cooperative di lavoratori. Per le campagne fu prevista l’estinzione dei debiti ipotecari e la costruzione di aziende collettive. Non c’è dubbio che queste iniziative così radicali misero il Governo centrale, che stava a Versailles in grave allarme accelerando gli sforzi per il ritorno alla normalità.

Secondo Marx “ La Comune di Parigi doveva naturalmente servire di modello a tutti i grandi centri industriali della Francia” Non c’era più posto per il vecchio governo centralizzato sostituito da tutta una serie di “Comuni” che avrebbe dovuto amministrare attraverso una serie di assemblee di delegati espressione diretta dei lavoratori e queste assemblee avrebbero dovuto mandare loro delegati a Parigi.  Il delegato era revocabile ogni momento ed era legato i suoi rappresentati da un vincolo di mandato. Una  elezione a gradi quindi. Inoltre al posto del mandato libero si introduce il vincolo delle istruzioni degli elettori  e al posto dell’elezione a tempo dato, la revocabilità del mandato in ogni momento. Alla base di questa concezione ovviamente si intravede la possibilità per gli elettori di essere informati tempestivamente sulle iniziative dei loro delegati.

Per i critici di questo sistema decentrato e senza vincoli sarebbe stato impossibile salvaguardare l’unità nazionale, ma Marx sostiene che “ L’unità della nazione non doveva essere spezzata, anzi doveva essere organizzata dalla Costituzione comunarda e doveva diventare una realtà attraverso la distruzione di quel potere statale che prende di essere l’incarnazione di questa unità, indipendente e persino superiore alla nazione stessa, mentre non era altro che un’escrescenza parassitaria.”

Malgrado ciò Marx nega che la costituzione comunarda avesse carattere federalista, egli afferma infatti che “a torto la costituzione della Comune è stata presa per un tentativo di spezzare in una federazione di piccoli stati come era stata sognata da Montesquieu e dai girondini.”

Per Marx il potere centrale non ha più ragione di esistere perché unità della nazione si costruisce dal basso con il concorso delle classi lavoratrici che sotto la guida degli stessi lavoratori costruirebbero l’unità sociale della nazione.

Inoltre la Comune assume connotazione internazionale come esempio di lotta di classe grazie all’alleanza della borghesia internazionale. Nel momento dell’aperta rottura, la lotta di classe tra il proletariato e la borghesia mostra il suo carattere internazionale. La forma più evidente del carattere internazionale della Comune  è il fatto che essa è “la forma politica finalmente individuata” della dittatura del proletariato imminente in tutti i paesi capitalistici ad elevato sviluppo industriale.

Secondo Marx per sconfiggere la classe operaia “ i governi dovrebbero sradicare il dispotismo del capitale sul lavoro, condizione della loro esistenza di parassiti”. Per questo motivo “ Parigi operaia, con la sua Comune sarà celebrata in eterno, come l’araldo glorioso di una nuova società.”  Le previsioni ottimistiche di Marx si rivelarono quantomeno affrettate.

Marx affermò che il parlamentarismo in Francia era  morto e che lo stato bonapartista era la forma ultima o “l’unica forma possibile di questo dominio di classe.” A tal proposito Lenin afferma “Le istituzioni rappresentative rimangono, ma il parlamentarismo, come sistema speciale, come divisione del lavoro legislativo ed esecutivo, come situazione privilegiata per i deputati, non esiste più. Noi non possiamo concepire una democrazia, sia pur una democrazia proletaria senza istituzioni rappresentative, ma possiamo e dobbiamo concepirla senza parlamentarismo.”

A ben altre conclusioni giunse Engels il quale, preso atto che il parlamentarismo godeva di buona salute,  si rese conto che le democrazie occidentali non gli sembrarono ostacoli da distruggere per arrivare al socialismo. Infatti nella sua Critica al programma di Erfurt affermava “ Se si è qualcosa di certo è proprio il fatto che il nostro partito e la classe operaia possono giungere al potere soltanto sotto la forma della repubblica democratica. Anzi questa è la forma specifica della dittatura del proletariato.”

In buona sostanza nel 1891 Engels prende parte a favore del parlamentarismo. Infatti chiarisce che “Si può immaginare che la vecchia società possa svilupparsi nella nuova per via pacifica in paesi nei quali la rappresentanza popolare concentra in sé tutto il potere, dove la Costituzione consente di fare ciò che si vuole quando si abbia dietro di sé la maggioranza del popolo….” Quindi non è necessario secondo questo ultimo Engels distruggere l’antico apparato per costruire il nuovo. Per meglio chiarire il pensiero di Engels è opportuno leggere queste sue parole “Lo stato nel migliore dei casi non è che un male che viene passato in eredità al proletariato riuscito vittorioso nella lotta per il predomino di classe e i cui peggiori vincoli non sarà possibile, come non fu possibile nella Comune, recidere finchè una nuova generazione cresciuta in condizioni sociali nuove e libere non sia in grado di scrollarsi dalle spalle tutto questo vecchiume dello Stato. Il filisteo tedesco si è sentito preso nuovamente da un salutare terrore alla frase “Dittatura del proletariato”. Ebbene signori volete sapere com’è questa dittatura? Osservate la Comune di Parigi. Questa era la dittatura del proletariato!” Una strana dittatura, aggiungiamo noi. E malgrado le affermazione contrarie di Lenin Engels metteva in guardia nel 1895 la classe lavoratrice dall’insurrezionalismo pseudorivoluzionario “ E’ passato il tempo dei colpi di mano, delle rivoluzioni condotte da piccole minoranze coscienti, alla testa di masse incoscienti. Dove si tratta dell’intera trasformazione è necessario avere con sè le masse, già conscie di che si tratti  e del perché del loro concorso.”

Un governo autonomo senza burocrazia non riuscì ad istaurarlo neppure la repubblica dei Soviet. Lenin che nel 1917 aveva chiesto l’abolizione dell’esercito e dei funzionari di carriera e non voleva pagare questi se non con un paga equivalente a quella degli operai, dovette presto arrendersi. Infatti i soviet da strumenti di democrazia diretta si trasformarono in breve tempo in una emanazione diretta del Partito Comunista.

Tutto questo non toglie importanza agli avvenimenti del 1871 ed agli scritti di Marx che comunque sono state una traccia per la ricerca di forme più realizzabili e concrete di partecipazione democratica.

Il 27 maggio 1871 l’ordine viene ristabilito a Parigi al terribile prezzo di circa trentamila cittadini trucidati.
Proprio per questo la Comune di Parigi ancora oggi costituisce a posteriori uno straordinario e affascinante laboratorio di politica per ciò che è stato e per ciò che ne hanno detto i padri del socialismo.

La Comune ha rappresentato un’esperienza democratica originale, un’affermazione repubblicana, forse una forma di federalismo francese, un tentativo di emancipazione sociale, un’utopia, un riferimento insurrezionale e rivoluzionario.

La Comune è tutto questo e altro ancora ed è per  questo motivo che il martirio dei federati deve portarci a credere che Essa non morirà finche ci sarà un solo uomo che crederà nella solidarietà, nella democrazia, nell’uguaglianza.

marzo 11, 2021

Siamo tutti vinti!

 Di Antonella Ricciardi
“Quella è stata una guerra cruenta piena di vittime innocenti. In ogni guerra di cui si parla non ci saranno mai dei vincitori:  siamo tutti vinti; ancora oggi ci sono madri, mogli, figli ,che piangono i loro morti”[…]

Queste ed altre parole emergono dall’accorata testimonianza di Maria Morabito, moglie dell’ex boss della ‘ndrangheta, Pasquale Condello: un appello a favore del diritto alla salute, di un lavoro costruito sull’onestà, e dei diritti costituzionali  contro la violenza delle faide, che sconfiggono tutti. Nelle parole di Maria Morabito si evidenzia anche la necessità di spezzare i meccanismi di esclusione sociale, che  la pura repressione indiscriminata favorisce, in realtà, ai danni della legalità e dello Stato di diritto:  emarginare ad esempio i figli di padrini di un tempo, oltre ad essere ingiusto,  rischia di impedirne proprio l’inserimento in un contesto slegato dalle mafie.  Nel corso dell’intervista, il figlio di Maria, Francesco, è stato liberato da una misura di sorveglianza speciale, per la sua condotta molto corretta, che ha convinto i magistrati… un primo passo verso una rinascita della situazione della famiglia. Maria Morabito condanna gli errori passati del marito, ma cerca contemporaneamente di aiutare a comprendere un contesto, per cui questi, che pure inizialmente voleva tenersi fuori da un certo ambiente, si era trovato al centro di una guerra… Sullo sfondo, le vicende passate che avevano coinvolto da una parte la cosca Imerti-Condello-Fontana, dall’altra il potente clan dei De Stefano, ed altro ancora. Attualmente, Pasquale Condello, pur non essendosi sentito di percorrere la strada del pentito giudiziario, non vuole avere più contatti con il crimine; anche la Corte Costituzionale, con storica sentenza del 2019, aveva sancito la non condivisibilità della negazione automatica di tutti i benefici, cioè attenuazioni dei gradi di intensità delle pene,  in mancanza di collaborazione con la giustizia.

Nell’Italia delle quattro mafie principali, in effetti, molto spesso si parla di tali fenomeni, ma molto meno frequentemente delle loro cause: in questo senso, l’analisi della Consulta aiuta a fare maggiore chiarezza. Nelle parole di Maria Morabito viene espressa una coraggiosa presa di posizione contro una mentalità oppressiva arcaica, che stigmatizza la libertà delle donne, c’è la volontà di inserirsi onestamente in un contesto lavorativo interno allo Stato, in un desiderio di riscatto sociale, ed emergono anche dei fatti tangibili, tra cui la non sussistenza di grandi risorse economiche di dubbia origine per la famiglia Condello; piuttosto, sono incontrovertibili attualmente le sue ristrettezze economiche. Pasquale Condello più volte si è definito vittima di abusi carcerari:..non sempre è chiaro quanto ciò sia eventualmente reale e quanto sia eventualmente frutto di patologie psichiatriche subentrategli in prigione, ma certamente le patologie ci sono: gravi sofferenze, che chiaramente il carcere, oltretutto gravato dalle misure estreme del 41 bis,  non aiuta assolutamente ad attenuarsi. Del resto, chiedere rispetto del diritto alla salute è chiedere qualcosa di tutt’altro che contrario allo Stato di diritto. Per questi motivi, la situazione si presenta del tutto compatibile con l’ipotesi di differimento della pena, cioè lo scontarla definitivamente  in una struttura esterna. In attesa di tale eventuale misura, si ricorda che è possibile, per evitare il tracollo di determinate situazioni, che  a volte possa essere la stessa direzione sanitaria delle prigioni a collocare in strutture di cura esterna persone che ormai erano più pazienti che detenuti: è accaduto negli ultimi anni anche a nomi molto più noti, tra cui quello di Salvatore Riina, di Bernardo Provenzano, di Raffaele Cutolo. Sono alcuni tra i vari esempi possibili in cui il diritto alla cura è correttamente prevalso, per intervento di medici che avevano dichiarato i pazienti non dimissibili. Le parole di Maria Morabito, così, esprimono il più intenso auspicio a favore dell’affermazione dei principi del diritto, che comprendono anche i diritti dei detenuti; del resto, le leggi di emergenza, approvate dopo le atroci stragi del 1992 in Sicilia, erano però a cavallo tra costituzionalità ed inconstituzionalità, e giustificate temporaneamente solo dall’emergenza: una emergenza che attualmente non sussiste più.

Ricciardi: “Più volte hai espresso  il concetto che tuo marito, Pasquale Condello, era intenzionato a tenersi fuori da questioni relative alla 'ndrangheta, ma si è poi trovato coinvolto, suo malgrado, in una guerra: puoi spiegare meglio questa molto drammatica dinamica? 
 

 Morabito: “Per risponderti voglio partire dall’ infanzia di mio marito molto molto sfortunata. non per  dare una giustificazione ai suoi sbagli…

Perché secondo me niente e nessuno devono portarci su strade sbagliate ,ma è altrettanto sbagliato giudicare….. Mio marito è rimasto orfano da piccolissimo. La madre era  rimasta vedova con 4 figli, di cui il più piccolo era  un bambino paraplegico al 100%. Mio suocero è  morto sul lavoro, oggi queste vengono chiamate morti 'bianche,.lavorava in una fabbrica di mattoni e un giorno ebbe un incidente: gli cadde addosso una montagna di creta. Oggi una morte del genere sarebbe risarcitoria per i familiari, ma allora non era cosi: mia suocera si è trovata nella miseria, cominciò allora a lavorare come colona in una vigna da cui ricavava il vino e lo vendeva, ma con tutto ciò non riusciva a mantenere la famiglia e allora ai due fratelli più grandi toccò l'orfanotrofio, da cui mio marito una volta scappò. Verso i 14 anni andò a lavorare in una officina x motorini, che erano la sua grande passione. Dopo il militare la sua vita cambiò, cambiarono le sue amicizie. Io ho conosciuto mio marito nel 1982, subito dopo il mio diploma e ci siamo fidanzati a settembre dello stesso anno. Io provengo da una famiglia cosiddetta “normale”, mio padre e nessuno dei miei parenti hanno mai avuto problemi giudiziari. il matrimonio tra me e mio marito è stato un matrimonio d'amore; allora mio padre acconsentì, nonostante Pasquale aveva già una condanna per associazione mafiosa, perché lo conosceva da quando era un ragazzino e lo riteneva un ragazzo serio e lo stimava.  “Dalla sua condanna per  associazione mafiosa gli era rimasto allora un residuo di pena,  che io sapevo che prima o poi doveva scontare. Cominciammo allora a fare i nostri progetti, il fratello maggiore in quel periodo stava aprendo un negozio di ceramica e bagni; lui intendeva mettersi a lavorare con suo fratello e cambiare vita, ora che stava x formare una famiglia. Dopo sposati, io aspettavo la prima figlia e vennero a casa per arrestarlo, per scontare quello che gli rimaneva da fare in carcere. Ad ottobre del 1985, dopo una bomba scoppiata a villa S. Giovanni nei riguardi di Antonino Imerti, dopo tre giorni ci fu l'uccisione di Paolo de Stefano. Mio marito in quei giorni si trovava in carcere, non aveva fatto nessun colloquio e non aveva avuto nessun contatto con l'esterno. Infatti fu riconosciuto innocente sia dall'associazione che dall'omicidio di De Stefano. Nonostante ciò, uscito dal carcere qualche anno dopo, si è reso subito irreperibile, per paura di essere ucciso, poiché la prima vittima dopo l'uccisione di Paolo de Stefano è stato Francesco Domenico Condello il fratello di mio marito. Tutto ciò, a tre mesi esatti, nonostante non c'entrava niente con tutto ciò. Si susseguirono allora tante morti e cominciarono così le prime operazioni e i vari arresti e condanne con ergastoli e con queste i primi pentiti. Allora chi si pentiva riceveva tanti benefici, anche sull'espiazione della condanna. I processi che fecero a mio marito furono basati solo su dichiarazioni di pentiti con tante incongruenze tra di loro. In quel periodo venivano creduti anche senza riscontri. Ed in questa realtà mio marito ebbe le condanne all'ergastolo ostativo. Per quanto riguarda la morte di Ludovico Ligato, io personalmente non avevo mai sentito parlare di questa persona. Io penso che mio marito non c'entra niente con questo omicidio, perché lui non ha 'mai avuto interessi politico economici.In tutta la sua vita non è stato mai coinvolto con politici o con affari politici mafiosi; che interesse aveva per lui la morte di Ligato? Nessuna!! Io, per come ho conosciuto mio marito, è stato sempre una brava persona seria e rispettosa. Non è stato mai un uomo che ha rincorso ricchezze. La famiglia era ed è per lui il suo più grande bene. Ad oggi, mio marito non ha contatti con nessuno, da 13 anni di carcere ha incontrato solo me e i miei figli. Per quanto riguarda noi, non abbiamo più contatti con nessuno dei parenti Condello né con quelli fuori né con quelli che sono attualmente reclusi. Tutto ciò, dopo la separazione delle mie figlie con i loro mariti e il nuovo rapporto di mia figlia con un altro uomo. Abbiamo trasgredito le regole della famiglia (anche se mio marito è d’accordo con le figlie). Siamo diventati secondo loro il disonore della famiglia. Io invece io dico che abbiamo raggiunto la nostra libertà !!!”

Ricciardi:  “Negli anni tragici delle faide tuo marito, va detto, aveva escluso il traffico di droga dalle proprie attività, e non erano mancate tragedie anche subite: soprattutto l’assassinio del fratello; puoi esporre di più in che modo si svilupparono queste vicende?”

Morabito: “Mio marito non ha mai avuto processi per droga, non solo durante il periodo della faida, ma da sempre: non è stato mai interessato a questi traffici. era contrario, da quando ci siamo conosciuti , e me ne parlava:  mi diceva sempre questo suo concetto: la droga è la rovina delle famiglie, i giovani distruggono la loro vita e spesso trovano la morte con queste sostanze; non vorrei mai trovarmi in una situazione del genere con un mio figlio. La droga per  lui era una grande piaga, e per soldi non si può bruciare la vita degli altri. Per quanto riguarda la morte di mio cognato, quel giorno della sua uccisione, come già detto, mio marito si trovava in carcere. Era il 13 gennaio 1985, ricordo quel giorno come fosse ora: avevamo fatto il colloquio con mio marito,  allora si trovava nel carcere di Reggio, in via S. Pietro. Usciti dopo il colloquio, io ero un po’ indietro rispetto a mio cognato, sentii dei colpi di pistola e vidi lui stesso a terra. quando mi sono avvicinata era già morto. Lasciava una moglie e tre figli tutti piccoli . Mio cognato non ha mai avuto a che fare con malavita,  ha sempre lavorato non so perché quella morte. Quella è stata una guerra cruenta piena di vittime innocenti. In ogni guerra di cui si parla non ci saranno mai dei vincitori:  siamo tutti vinti; ancora oggi ci sono madri ,mogli, figli, che piangono i loro morti. “

Ricciardi: “Pasquale Condello era stato definito “U supremu”, il supremo, in dialetto calabrese, ed addirittura paragonato a Bernardo Provenzano, ma, nonostante alcuni errori del passato, non si è arricchito con proventi illeciti quanto altri; le vostre difficoltà economiche sono documentate. Puoi raccontare meglio questa situazione anche attuale?”

Morabito: “Non so perché hanno affibbiato questo soprannome a mio marito, mi sembra esagerato “supremo”...mio marito non ha mai cercato la ricchezza, anche se gli sono stati affibiati miliardi, tesori, e quant'altro. Abbiamo sempre vissuto nella modestia, vivevamo in un palazzo di 4 piani: in tutto,  8 appartamenti. Al Pian terreno abitava mia suocera con il figlio disabile, al primo mia cognata, la vedova,  e al secondo io; gli altri appartamenti, tra cui anche la scala, erano tutti rustici. Quando  questo palazzo era stato costruito negli anni ’70, io non conoscevo ancora mio marito. Per come mi hanno sempre raccontato, è stato fatto con tanti tanti sacrifici. Allora mia suocera prendeva la pensione e pure quella di suo marito morto. Mio cognato, disabile al 100%, prendeva pure la pensione con accompagnamento e in più la parte della pensione del padre morto: in tutto 5 milioni di lire al mese, e mio cognato, Domenico Francesco, lavorava allora. Tutta questa documentazione non è bastata per non fare confiscare il palazzo. Una volta confiscato il palazzo, abbiamo dovuto lasciare i nostri rispettivi appartamenti. Pure mio cognato disabile !!!! Nessun disabile può essere cacciato di casa!!!! Mio cognato infatti da quel giorno non ha più sorriso,  si è visto sradicare dalle sue radici dai suoi affetti.!
Dopo un po' di tempo è morto nel suo dolore. Io ho sempre vissuto con l'aiuto di mio padre, un commerciante, mia madre aveva una bottega di generi alimentari; siamo stati sempre benestanti. Andato in pensione mio padre, lasciò il suo negozio a mia figlia Angela: la più grande; appena sposata, avendo avuto la bambina, quasi subito lasciò la responsabilità del negozio a suo marito, oggi suo ex, ma questi lo ha gestito in modo disastroso!! Ha lasciato tanti debiti a mia figlia, sia con banche, con l'erario, e ora rischia di perdere pure la casa. Non abbiamo potuto far fronte a questi debiti. Io dopo essere stata cacciata dalla mia casa confiscata sono andata in affitto. Eravamo io, mio figlio e la più piccola,  poiché  Angela era già sposata. Tre anni dopo il matrimonio della figlia piccola, sono uscita dall'affitto,  per risparmiare, e sono andata a vivere in casa di mia mamma e mio padre. Per pagare l'ultima rata del ristorante del matrimonio di mia figlia, ho venduto la mia macchina. È da allora che non ho una mia macchina, sto con  una panda condivisa:  la usiamo io e le mie due figlie. Mio figlio ha solo una punto furgonata che usa per il lavoro, se deve uscire con la fidanzata gliela presta suo cugino,  il figlio di mia sorella…Tutte queste ricchezze presunte dove sono? Io ho bisogno di lavorare,  da quest'anno sono in graduatoria a Roma per insegnare; è la prima volta che faccio domanda, perché mio marito non ha voluto che lavorassi,  per poter seguire meglio i miei figli e anche perché mio padre non ci ha mai fatto mancare niente. Ora sono pronta anche ad andare fuori Reggio per poter insegnare. Io ho sempre insegnato ai miei figli che si deve lavorare, che niente ci è dovuto. Nella vita bisogna fare sacrifici,  tutti e tre i miei figli lavorano, ma devo riconoscere che i miei figli sono molto penalizzati x il lavoro;  qualche anno fa una ditta a mia figlia Caterina è stata chiusa perché il padre è ritenuto mafioso…queste cose non sono affatto giuste, secondo me.”
 
Ricciardi: “Attualmente Pasquale Condello è molto cambiato rispetto a quando è stato arrestato nel 2008; provato da una carcerazione definita esplicitamente dura da coloro che gliela hanno applicata, subisce la misura estrema del 41 bis, ma da tempo non ha e non vuole avere rapporti con la devianza. Soprattutto soffre per una malattia che gli causa disagio mentale, parziale ma indiscutibile. Il regime di prigionia potenzialmente può favorire ed aggravare questa sofferenza,veramente straziante? 
 Morabito: “Mio marito è entrato in carcere nel febbraio del 2008. Quando vi è entrato godeva di ottima salute; è stato per nove anni nel carcere di Parma,  dove ha iniziato a sentire scosse elettromagnetiche, qualunque cosa toccasse. Si trovava nell'area riservata del 41bis di Parma. Il 41 più duro . Nel 2012 ancora subiva queste torture che sono durate anni,  ma un giorno di questo anno lo trovarono in cella incosciente e lo trasferirono immediatamente nell'ospedale di Parma. Gli furono riscontrati ematomi alla testa, che, curato, si riassorbirono. Di certo quegli ematomi non gli erano venuti per una caduta da letto o da qualsiasi altra caduta. Una volta rimesso dall'ospedale, abbiamo subito fatto un colloquio io e i miei figli e lo abbiamo trovato con lividi sotto gli occhi!!!.Lui non ha detto niente in proposito e noi non abbiamo chiesto, perché pensavamo che erano dovuti agli ematomi alla testa che aveva avuto. Iniziò a non mangiare e non bere,  perché diceva che gli mettevano cose nel mangiare e pure nell'acqua che lo facevano stare molto male. Ci ribadiva sempre che non è per mancanza di fame che non mangiava, ma per le cose che gli mettevano per farlo stare male. Abbiamo mandato allora un nostro medico per visitarlo e ci avvisò che, se avesse continuato in quel modo,  sarebbe potuto morire. Era dimagrito tantissimo, era irriconoscibile. Allorché un giorno siamo partiti per Parma, ma ci fu detto che non si trovava a parma bensì nel carcere di Livorno in un centro psichiatrico. È stato a Livorno più di un mese e lì cominciò un po’ a riprendersi. Là era più tranquillo, non gli venivano emesse quelle scosse di cui lui si lamentava. Tornato a Parma, ricominciò a lamentarsi per le scosse e non poteva neanche lavarsi, perché con l'acqua soffriva di più;  per anni non ha potuto fare la doccia né lavarsi i denti. Si puliva con fazzolettini imbevuti… e  mio marito è stato sempre un maniaco della pulizia personale e della sua cura. 4 anni fa veniva trasferito nel carcere di Novara, dove eravamo contenti che le cose sarebbero migliorate per  lui…ma abbiamo avuto una dolorosa sorpresa: mio marito diceva cose senza senso, sentiva voci fuori dalla sua stanza delirava!!!!!
Allorché mandiamo uno pschiatra da Reggio che lo visitò per 4 ore,  gli fece pure dei test e ci disse che aveva deliri, che era un malato pschiatrico,  che aveva bisogno di cura, ma mio marito non si è fatto mai curare perchè ha paura che lo vogliano uccidere. Ancora oggi ci esprime questa sua paura: non può certo continuare in questa situazione delirante!!!! Non so come hanno fatto in tutti questi anni a trattare così mio marito. Nessuna persona umana deve avere questi trattamenti, nessuna tortura di nessun genere deve essere fatta a qualunque uomo, chiunque egli  sia e qualunque cosa abbia fatto!!!!! Quando andiamo a fare il colloquio, lo troviamo con una fascia in testa perché dice che ha dolori; sono anni che non vede i nipoti, i figli delle nostre figlie, perché non è in condizioni di farlo vedere ai bambini. I gemelli di 5 anni non lo conoscono: sentono parlare di questo nonno, ma non hanno presente la sua figura,  solo qualche vecchia foto: tutto questo perché? Perchè doveva pentirsi e non lo ha fatto?”
 Ricciardi: “Tuo figlio, Domenico Francesco Condello, aveva subito un arresto per scommesse clandestine con cavalli. Tuo figlio rimarca la sua innocenza rispetto all'ipotesi di associazione del delinquere, e tu stessa dici che è stata fatta pressione acuta su tuo marito affinchè si pentisse, e l’arresto di tuo figlio è stato fatto per il suo rifiuto. Puoi spiegare ancora meglio tale situazione, della quale si auspica il superamento?”
Morabito: “Mio marito nel primo periodo del suo arresto  ci raccontava che andavano a trovarlo in carcere e auspicavano un suo pentimento. Quando mio figlio ha subito il primo arresto, mio marito ci replicò che lo sapeva che sarebbe avvenuto, perché era stato avvisato che se non si sentiva avrebbero arrestato nostro figlio!!! Mio figlio è stato arrestato per favoreggiamento del padre. Lui aveva appena 20 anni…quella notte che sono venuti x prenderlo, io non credevo che fosse possibile una cosa del genere!!!!
Mio figlio arrestato!!!! Un bravissimo ragazzo onesto …io vedevo il futuro di mio figlio al di fuori dalla ndrangheta, al di fuori da tutte queste cose!!!! Ma non è stato così, nel processo è stato condannato a un anno e 8 mesi per favoreggiamento:  una sentenza basata solo su supposizioni senza nessuna prova!!!.4 anni fa la storia si è ripetuta hanno arrestato mio figlio nell'operazione Eracle per corse di cavalli clandestine. Mio figlio non ha mai fatto corse clandestine, aveva solo il suo cavallo dove altri avevano i loro cavalli. Si è trovato là in mezzo. Mio figlio non ha mai fatto corse né tantomeno ha mai maltrattato il suo cavallo, tanto è vero  che lo amava da morire e che curava tantissimo. Ora sono 4 anni che è iniziato questo processo e ancora non è finito neanche il primo grado. Oggi mio figlio ha 31 anni e una vita davanti a sé. Con la fedina penale sporca non può auspicare a un posto di lavoro non può fare domande o concorsi. Lui ad oggi comunque lavora, fa il rappresentante di prodotti semilavorati per pasticcerie e rivende bibite. Ha un regolare contratto di lavoro e partita iva. Questa estate gli hanno messo la sorveglianza speciale con divieto di uscire dal comune con rientro con orario a casa e con limite di entrare in luoghi pubblici dalle 17 in poi. La sorveglianza perché a questo ragazzo che non ha mai avuto una accusa di associazione mafiosa.  Neanche il primo grado, quando finirà  tutto questo? E intanto la vita di mio figlio continua appesa a un filo, appesa a una giustizia che non ha fine .E tutto questo non è giusto. Io spero che ci sia per mio figlio una giusta sentenza e che non venga più arrestato per cose che non ha fatto. Se sbaglia,  che paghi, ma non pagare per errori mai fatti. Non lo trovo giusto. Mio figlio non deve pagare per essere “il figlio di”; non ha scelto lui di nascere in questa nostra famiglia. Mio figlio ha tanta voglia di potersi riscattare fare il bravo ragazzo quale è. E io spero tanto in tutto questo e prego Dio.”
 Ricciardi: “Mentre attuavamo questa intervista, subito dopo questa tua risposta,  è arrivata questa notizia, per te molto positiva, che offe un enorme sollievo: mi accennavi sia  arrivata la revoca della sorveglianza per tuo figlio: puoi spiegare più precisamente cosa sia accaduto?”
  Morabito: “L'altra sera aspettavo mio figlio come al solito il suo rientro a casa per le 19. Quando ho visto che erano le 19 e dieci mi sono subito preoccupata: mio figlio con 10 minuti di ritardo con una sorveglianza speciale e non era rientrato!!!!!! Allora l'ho chiamato subito e mi rispose che non doveva rientrare perché gli avevano tolto la sorveglianza!!!!! L'avvocato aveva presentato l'appello e i giudici avevano deciso. Ho letto e riletto la sentenza i giudici avevano stabilito che la prima condanna per favoreggiamento per il padre non era una condanna che dava i requisiti per  una sorveglianza speciale, poiché non era condanna per mafia e c'era il rapporto padre-figlio, e non portava una gravità. Poi per quanto riguardava il processo Eracle, che è ancora in corso, mio figlio ha solo a carico una associazione delinquere comune. Non c'erano neanche i presupposti per detta sorveglianza, poiché Domenico Francesco ha sempre lavorato, migliorando oltretutto la sua attività lavorativa. Ha sempre mantenuto un comportamento esemplare, senza aver a che fare con pregiudicati. Ha condotto uno stile di vita conforme al suo guadagno. E ha provveduto con il suo lavoro al mantenimento della famiglia!!!! Giustizia è stata fatta!!!! Mio figlio è stato riconosciuto per quello che è stata riconosciuta la sua vita e condotta al di fuori della cosca Condello, nonostante è il figlio del presunto "boss” Condello Pasquale. Questa è la conferma che non per forza i figli dei boss diventeranno di conseguenza dei boss. io ho sempre cresciuto i miei figli con idee oneste legali con dedizione al lavoro. Oggi sono soddisfatta e felice, ma non è finita: da oggi ancor più mio figlio dovrà dimostrare questa sua estraneità a delinquere. Grazie Antonella Ricciardi, per avermi dato questa possibilità di farmi conoscere e far conoscere la mia famiglia !
 
Ci ho messo il cuore in questa intervista, tutto il mio sentimento di moglie di madre. Tutto è verità,  tutto può essere documentato! E’ la mia storia, la storia di una famiglia che voleva vivere degnamente, ma è stata battuta dal destino avverso. Sia lodato Gesù!!!
marzo 8, 2021

LINGUAGGIO ED EGEMONIA MANAGERIALE – LA MCKINSEY

di Ferdinando Pastore

La lingua non è mai statica. Nel corso del tempo si lascia influenzare dalle reciproche relazioni tra gli esseri umani. In questo modo ciò che un tempo era una regola linguistica può diventare più avanti desueta o scorretta. E allo stesso modo i singoli termini mutano forma o significato. Si può legittimamente pensare per esempio che una società sempre più multietnica ridisegnerà corposamente il nostro vocabolario con nuove parole che irromperanno nell’uso comune o con leggere trasformazioni di altre. Nella musica leggera questi mutamenti si possono già intravedere. Anche la comunicazione di massa è destinata a imprimere un’accelerazione a questo processo. Questo lo si può definire un meccanismo virtuoso, costante nella storia. Diverso è quando si iniziano a utilizzare termini presi forzatamente da un’altra cultura e calati dall’alto. In questo caso si compie un’operazione ideologica. Durante il fascismo tutto era italianizzato fino ad arrivare e vere e proprie forzature spesso grottesche. Oggi appare consueto un uso apparentemente neutrale di parole inglesi che non dicono nulla di più dei corrispondenti termini italiani. Questo fenomeno ha preso piede in un determinato mondo, quello dei manager. La loro unificazione in vera e propria classe dotata di una specifica coscienza è stata cristallizzata anche attraverso l’irruzione di uno vero e proprio idioma internazionale. Puoi esserti formato in scuole di business sparse per il mondo ma uscito da lì avrai digerito quel determinato modo di esprimerti. Così come l’aristocrazia dell’800 utilizzava il francese per porre un confine tra la buona società e il mondo villano, oggi l’inglese aziendale decodifica un’appartenenza elitaria.Ma appunto quel linguaggio non è neutro. Fa riferimento a specifici dispositivi di comando. Le sue clausole retoriche poggiano le basi sulla vita plasmata dalla managerialità in senso assoluto, non ferma al semplice luogo di lavoro. L’idea appunto che l’esistenza debba trovare stimoli nelle qualità imprenditoriali di ognuno. In questo modo il mercato ha ritrovato una sua dinamica seducente. La vita si consuma in progetti evolutivi che trovano senso all’interno del sistema della concorrenza. Ogni scelta personale costruisce un percorso dinamico che educa il soggetto alle regole di mercato. Quando quel linguaggio si separa dalla dimensione tecnica e irradia le proprie maglie nella lingua di tutti i giorni quell’ideologia vuol dire che è egemone. Non che non sia sottoposta a critica ma che diventa improvvisamente senso comune. Nonostante le avversità, la crisi, le eventuali proteste si respira comunque quella mentalità. Ultimamente e sempre di più viene utilizzato il termine “too much” per descrivere l’idea di “troppo” in tutte le sue sfaccettature. Non si parla dunque di un concetto tipicamente aziendale. In questo caso la ricchezza di un concetto che si sostanzia in molteplici termini linguistici – eccessivo, esagerato, inappropriato, sovrabbondante solo per citarne alcuni – si uniforma in una sola parola buona per ogni contesto. Ciò che emerge è proprio la via omogeneizzante di questa deriva. Quando si perde la facoltà di arricchire il proprio linguaggio scegliendo di volta in volta il termine più adatto a una determinata circostanza si affievolisce progressivamente la capacità di analizzare la realtà in senso critico. Si rischia insomma di piegarsi arrendevolmente a una forma mentis che condizionerà le relazioni sociali, i rapporti di forza e la capacità conflittuale di un popolo o di una classe. Non deve stupire quindi l’affidamento sul controllo del Recovery Plan a una società privata americana di consulenza. Draghi è un esponente qualificato di una peculiare ideologia politica. Quella che vuole pubblicizzare il diritto privato e assoggettare lo Stato a mero esecutore degli interessi di profitto dei privati. Nulla di nuovo sotto il sole, funziona così da un trentennio. Quello che ancora spaventa è la considerazione generale della popolazione che vede in questa operazione un segnale di normale efficienza. Quindi l’incapacità ormai consolidata di interpretare gli eventi. Pensare insomma che la McKinsey possa sostituire il meccanismo democratico sul controllo della spesa pubblica che dovrà essere delimitata secondo i canoni di una presunta razionalità. Non capire che quella certificazione di qualità dovrà stabilire quanto lo Stato si sia attenuto alle indicazioni dei privati sulle modalità di impiego di quelle minime risorse che il “vincolo esterno” ci concede. Certificare insomma che lo Stato non racchiude in sé gli sviluppi dinamici e conflittuali della società intera ma – come pensano alcuni antagonisti funzionali al sistema – è un ente statico che non si potrà mai conquistare. La privatizzazione della sfera pubblica è un processo apparentemente travolgente proprio perché le ramanzine sulla competenza tecnica degli operatori razionali di mercato hanno foggiato i costumi e le condotte degli individui. La didattica pedagogica delle scuole di business.

marzo 7, 2021

CARLO TOGNOLI, IL SINDACO AMATO DAI MILANESI PERCHE’ CON LORO SAPEVA IDENTIFICARSI

di Enrico Landoni

Il Sindaco più giovane nella storia di Milano. Quando il 12 maggio 1976 il Consiglio Comunale lo disegnò alla guida di Palazzo Marino, Carlo Tognoli aveva in effetti solo 38 anni. Decisamente pochi per i detrattori, tra i quali spiccavano allora i grandi nomi dell’intellighenzia ambrosiana e del giornalismo di punta, come Giorgio Bocca che, sulle pagine de L’Espresso, ebbe a definirlo addirittura una “mediocrità garantita, una persona insignificante, un oscuro funzionario». Ma davvero poco tempo sarebbe servito a Carlo Tognoli per dimostrare la mostruosità e la meschinità di questo errore di valutazione, commesso dai pochi, per fortuna, che non ne conoscevano il curriculum rigoroso e fitto, la dedizione, la passione e la formazione alla severa scuola del PSI. E che, con atteggiamento snobistico e per certi versi populista, già allora, ritenevano i partiti incapaci di selezionare adeguatamente la classe dirigente del paese, ignorando il valore etico della gavetta e l’importanza formativa del cursus honorum cui i partiti avviavano solo i quadri più dotati. E Carlo Tognoli è stato sicuramente uno di questi: consigliere e assessore a Cormano, poi segretario cittadino a Milano e quindi consigliere e assessore a Palazzo Marino, in un momento assai delicato per le continue fibrillazioni all’interno dell’ormai logora coalizione di centro-sinistra. Autonomista e riformista, Tognoli ha avuto in Filippo Turati, Emilio Caldara e Antonio Greppi, indimenticato Sindaco della Liberazione, i tre principali punti di riferimento, sul duplice fronte politico-cultural-identitario e amministrativo. Fedele interprete di questa tradizione e di questa storia, Carlo Tognoli, che fu anche un vivace giornalista, all’interno della redazione di Critica Sociale, è stato dunque capace di coniugare al meglio la visione politica con l’efficacia e l’efficienza realizzativa. Questo connubio ne ha fatto un amministratore concreto e un politico pragmatico, al contempo risoluto e aperto al dialogo e alla leale collaborazione con gli alleati e il PCI in particolare, durante la lunga stagione delle Giunte rosse. Alcune delle più importanti realizzazioni maturano infatti proprio nel quadro di questa collaborazione. Meritano una particolare citazione il Piano dei Trasporti del 1979, che spianò la strada alla realizzazione del Passante Ferroviario e della terza linea della metropolitana, il riscatto municipale dalla Montedison del servizio gas, perfezionato dallo storico vice di Carlo Tognoli, Elio Quercioli, l’avvio della metanizzazione, il lancio del teleriscaldamento, il varo del Piano Casa, ottimo esempio di collaborazione pubblico-privato, sotto il solido coordinamento politico del Comune. Ma non possono poi essere dimenticate le grandi mostre dedicate a Leonardo e all’arte degli anni Trenta. E, ancora, deve essere ricordata l’iniziativa Milano per Voi, concepita allo scopo di promuovere, attraverso un articolato programma di conferenze, i grandi temi dell’arte, della cultura, della scienza e dell’attualità presso il grande pubblico. Tognoli in realtà deve essere ricordato soprattutto come il Sindaco della doppia transizione vissuta dal capoluogo lombardo, a cavallo tra anni Settanta e Ottanta: quella del passaggio dalla stagione drammatica della violenza politica agli anni del dinamismo e della rinascita, riassunta dall’infelice e superficiale slogan “Milano da bere”; e quella del definitivo superamento della grande industrializzazione a beneficio del terziario avanzato. Di qui il difficile problema del governo delle aree dismesse, poi affrontato da Tognoli anche come Ministro per i Problemi delle Aree Urbane, prima di essere designato alla guida del dicastero del Turismo e dello Spettacolo. Dopo il 1992, le indagini giudiziarie, che squassarono in particolare il PSI, non risparmiarono naturalmente Tognoli, ora definitivamente uscito peraltro dal circuito della politica attiva. Con grande passione, nel 2003, si dedicò al primo incarico pubblico conferitogli dopo un lungo decennio di faticosa resilienza: quello di presidente del Museo della Scienza e della Tecnica di Milano. Seguì poi la nomina alla guida dell’ISAP, tradizionalmente legato alla cultura, all’identità e alla cultura socialista che, con Carlo Tognoli, perde un suo straordinario interprete.

marzo 4, 2021

Si potrebbe………

di Beppe Sarno

L’art. 42 della carta costituzionale prevede che “La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale.” Il successivo art. 43 della Costituzione prevede che “A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.”

 Che cosa significa? 

Che la proprietà privata di qualsiasi genere può essere espropriata quando è necessario farlo laddove esistano situazioni di monopolio quando vi sia un preminente interesse generale e quando il trasferimento avvenga a fini di utilità generale. L’ esproprio del brevetto, o la sospensione totale della proprietà intellettuale in materia di vaccini, almeno per la durata dell’emergenza sanitaria.

Significa inoltre che anche nel caso dei brevetti farmaceutici dei vaccini anticovid uno stato potrebbe o espropriare o sospendere l’efficacia dei brevetti ciò non soltanto in base al dettato costituzionale ma anche secondo il disposto dell’art.141 del codice della proprietà industriale che prevede , i diritti di proprietà industriale, ancorche’ in corso di registrazione o di brevettazione, possono essere espropriati dallo Stato nell’interesse della difesa militare del Paese o per altre ragioni di pubblica utilità.

2. L’espropriazione può essere limitata al diritto di uso per i bisogni dello Stato, fatte salve le previsioni in materia di licenze obbligatorie in quanto compatibili.” In buona sostanza utilizzando questo diritto riconosciuto allo stato il Governo italiano potrebbe far produrre il vaccino di BioNTech o di Oxford in impianti nazionali. Non solo la legge nazionale ma anche il trattato Trips che disciplina la proprietà intellettuale, quale fattore di funzionamento del libero commercio internazionale all’art 31 prevede che gli Stati membri possano prevedere “altri usi” dell’oggetto di un brevetto che sfuggono al monopolio, senza che sia necessario il consenso del titolare. b) l’uso in questione può essere consentito soltanto se precedentemente l’aspirante utilizzatore ha cercato di ottenere l’autorizzazione del titolare secondo eque condizioni e modalità commerciali e se le sue iniziative non hanno avuto esito positivo entro un ragionevole periodo di tempo. Un membro può derogare a questo requisito nel caso di un’emergenza nazionale o di altre circostanze di estrema urgenza oppure in caso di uso pubblico non commerciale. In situazioni d’emergenza nazionale o in altre circostanze d’estrema urgenza il titolare viene tuttavia informato quanto prima possibile.

Inoltre ai sensi del paragrafo 5, lettera c) della Dichiarazione di Doha del 2001 sull’Accordo TRIPS e sulla salute pubblica ogni Stato membro conserva il diritto di determinare ciò che costituisce una situazione di “emergenza nazionale o altre circostanze di estrema urgenza”, come per esempio le crisi di salute pubblica determinata dal grave fenomeno epidemico come è quello del coronavirus.

Si sa, in stato di “guerra”, la limitazione del diritto alla  proprietà privata, benché costituzionalmente garantito, dovrebbe soccombere  in nome della tutela dell’interesse collettivo, previsto anch’esso dalla carta costituzionale, ma gerarchicamente più elevato.

Senza andare oltre l’Europa o l’Italia potrebbero comprare i brevetti in modo da produrre i vaccini  e così soddisfare la domanda interna e anche degli altri paesi europei  con difficoltà di approvvigionamento.

Tutto questo in linea teorica, ma non illudiamoci ciò non succederà continueremo ad aspettare i vaccini a subire i ricatti delle case farmaceutiche perché il diritto al profitto è sacro ed inviolabile e la vita della gente per le grandi case farmaceutiche non può essere sacrificato in nome di un interesse pubblico che non interessa a nessuno. A proposito quanta gente è morta di Covid oggi?