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dicembre 31, 2021

“Abbiamo visto”

Documento elaborato da Beppe Sarno e Santo Prontera.      

L’ultimo documento del collettivo di fabbrica della GKN è un grido di dolore che commuove e nello stesso tempo invita a riflettere. La prima considerazione che il documento suscita è il fatto che gli operai del collettivo della GKN dimostrano di rigettare il pensiero unico dominante, che fa di loro una merce a disposizione del capitale e come qualsiasi altra merce sostituibile con merce a meno prezzo o con altri strumenti per creare plusvalore.

Il capitale, superata la fase della meccanizzazione, affronta adesso un nuovo meccanismo per la creazione del plusvalore di marxiana memoria: la delocalizzazione serve a sostituire operai qualificati con operai il cui minor costo dell’ora lavoro e le minori tutele sindacali serviranno ad aumentare il plusvalore, a farlo crescere ad un ritmo sempre più alto, servendosi di un esercito industriale di riserva rappresentato dagli operai dei Paesi terzi.

Ai detrattori del sindacato ricordo che Maurizio Landini ha detto che è necessario «ricostruire una cultura politica che rimetta al centro il ruolo del lavoro e il significato di ciò che attraverso il lavoro si fa». Sono parole importanti. Sono ovvie e centrali per la nostra prospettiva. È auspicabile che siano vincolanti ed effettivamente programmatiche per il sindacato, che deve riscattarsi per comportamenti non sempre i linea con il suo ruolo.

Gli operai della GKN, con i loro documenti e con la loro lotta, si ribellano al fatto di essere considerati merce ed esprimono, con dolore e fermezza, la dignità di chi si dichiara disponibile a ricominciare con rinnovato impegno quella lotta che è stata finora contrastata e sopita da decenni di liberismo.

Il lavoro non è merce; il lavoro è dignità, è l’essenza della democrazia!

Come ha detto Papa Francesco, “Il lavoro […] è la base su cui costruire la giustizia e la solidarietà in ogni comunità”; e ancora: “il profitto non sia l’unico criterio-guida”.

Nel documento della GKN si scorge quello che dovrà essere il progetto politico per una sinistra socialista che si proponga di essere avanguardia di questo rinnovato senso della politica: intendere, cioè, il lavoro e i suoi diritti come elementi unificanti di una comunità.

Per merito della GKN è accaduto qualcosa di antico e nello stesso di nuovo: nella società è tornato a scorrere il sangue della solidarietà. Accanto ai lavoratori ci sono infatti le istituzioni di base, la città di Firenze, gli intellettuali. La collettività è diventata solidale con i lavoratori perché ha voluto rompere la frammentazione sociale imposta dal pensiero neoliberista. L’isolamento e la frammentazione sono stati sostituiti con la solidarietà e con la condivisione della lotta per difendere la fabbrica, imponendo concetti che sembravano dimenticati: “solidarietà, comunità, lotta”.

Gli operai della GKN dicono: “Stupiteci. Portateci ancora in piazze piene ubriache di dignità. Dopo quello che abbiamo visto, non abbiamo più voglia di stare soli”. Sono parole che ripropongono e rinnovano un antico spirito socialista, solidaristico e pienamente umano, che richiama e reclama il bisogno di stare insieme per combattere contro le aride forze antisociali del puro profitto, che vedono l’uomo come un semplice mezzo da sfruttare.

Una politica di austerità, dettata dall’Europa neoliberista, e i fenomeni di delocalizzazione industriale hanno ridotto il nostro Paese alla condizione di area con risorse decrescenti, facendolo ridiventare un’economia povera, con un sempre minor numero di grandi industrie.

E’ sotto gli occhi di tutti che il punto vero di criticità, che tutto condiziona in negativo, rimane il sistema politico, che ha generato la grave crisi istituzionale con cui, ormai da anni, siamo alle prese.

Può la nostra democrazia reggere a lungo se è consentito a chiunque di commettere atti di pirateria economica e politica, come nel caso dell’Ilva di Taranto o della Wirlpool e oggi della GKN, senza che, da parte di chi governa, ci siano controlli o sanzioni, al solo scopo di non compromettere equilibri politici che sono frutto di compromessi non sempre nobili?

In questo scenario, il grande assente è lo Stato. La sua mancanza si sente ovunque. Ma il posto in cui si sente di più il peso di questa intollerabile situazione è nei posti di lavoro.

Pietro Calamandrei diceva: «La libertà è come l’aria, ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare»

Non c’è dubbio che l’aria, nelle fabbriche italiane, manchi ormai da tempo. La sospensione delle libertà è iniziata nelle imprese dove sempre più spesso si lavora senza tutele sanitarie adeguate, senza rispetto dei diritti sindacali, con i lavoratori ridotti letteralmente a produttori senza diritti e consumatori senza libertà, per non parlare del terziario, della grande distribuzione e dell’agricoltura.

Dagli operai della GKN e della Whirlpool ci viene indicato da dove bisogna partire per ricostruire una coscienza politica che combatta l’alienazione per poter vivere in modo autentico la democrazia. Dal loro esempio viene l’indicazione a non rassegnarsi ad una deriva autoritaria al servizio della finanza internazionale.

Gli operai della GKN ci dicono con dolore, ma anche con forza, che è dalle fabbriche, dal posto di lavoro, che deve partire l’iniziativa per combattere una battaglia politica generalizzata, che comprenda l’impegno per una sanità pubblica efficiente e non sotto attacco dei privati, i diritti dei lavoratori –con il giusto rifiuto di vedere i loro corpi ridotti a merce-, i diritti di chi non ha una casa né i soldi per vivere con dignità, il diritto alla vita degli anziani, il diritto all’istruzione e alla libertà di insegnamento, il finanziamento della ricerca pubblica.

Non si tratta di chimere, fantasie, desideri senza basi. Sono alcuni degli obiettivi che la Costituzione impone allo Stato. Un tempo, anche per merito dell’impegno socialista, erano in buona parte pratica corrente. Poi, con l’avvento del neoliberismo, la Costituzione è stata tacitamente svuotata di tante funzioni. Tutto ciò significa che lo Stato va ricostruito dalle sue fondamenta secondo il progetto della Costituzione. È questo il fine che deve unire le nuove lotte operaie e i soggetti effettivamente democratici del Paese. Risorgimento Socialista è una di questi soggetti.

Per ricostruire la democrazia bisogna disporre delle forze necessarie. Le lotte di cui sopra dimostrano che esiste un importante nucleo di tali forze. La democrazia va ricostruita partendo da lì, dai posti di lavoro, dove esistono forze organizzate e consapevoli dei bisogni propri e del Paese. La ricostruzione va fatta secondo un paradigma che c’è già: è costituito dai principi che ispirano la Carta Costituzionale. Per obbedire alla Carta, traducendone gli impegni in effettivi fatti sociali, occorre invertire la rotta neoliberista e andare nelle seguenti direzioni: nazionalizzazione delle industrie strategiche, revoca delle concessioni ai privati di attività economicamente produttive di proprietà dello Stato, cogestione nelle industrie a prevalente partecipazione statale, programmazione economica fondata su quello che in America è stato chiamato il “Il Green New Deal”. Tutto ciò significa realizzazione di un nuovo sistema produttivo nazionale, cambiando quello attuale, fondato sullo sfruttamento sull’uomo e delle risorse naturali.

Si tratta dunque di individuare con chiarezza gli scopi fondamentali di una politica effettivamente democratica e di sinistra, di trovare le soluzioni per portare la democrazia nei posti di lavoro, di ripristinarla in termini effettivi nella società.

Tre sono le strade da percorrere, non in contrasto fra di loro, per costruire un progetto politico che, sulla base delle leggi esistenti, possa riportare l’economia nazionale e quella europea in un coretto equilibrio fra capitale e lavoro e sul concetto di produzione non più come sfruttamento dell’uomo sull’uomo e distruzione delle risorse naturali, ma come  un’economia pensata per affrontare la sfida delle disuguaglianze e del cambiamento climatico, che invece continuano a crescere nel modello esistente.

La cogestione nelle fabbriche in cui è presente lo Stato attraverso il Ministero dell’economia e Finanze e altro.

Lo Stato Italiano è presente in alcune società attraverso la detenzione di quote azionarie. Si tratta di società quotate in borsa, di cui tiene il controllo azionario, di società con strumenti finanziari quotati e società non quotate. Fra le più importanti ricordiamo il MPS, Enel, Eni, Leonardo, RAI, Cinecittà, Poste e Ferrovie dello Stato.

E’ assolutamente indispensabile che in queste società lo Stato applichi il criterio della cogestione. In queste aziende la cogestione non deve essere uno strumento per massimizzare la produttività e quindi per allineare il più possibile senza contrasti i lavoratori con gli interessi dell’impresa. Questo equivoco stravolgerebbe il senso che si vuole dare alla partecipazione dei lavoratori alla vita dell’impresa. Lo scopo della cogestione, cioè l’intervento dei lavoratori nella conduzione dell’impresa, dovrà servire a creare strumenti di democrazia all’interno del sistema produttivo per meglio realizzare gli interessi dei lavoratori.

Fra la direzione dell’impresa e i lavoratori dovrà sempre esistere contrapposizione, ma il mutamento del paradigma presuppone sempre l’esistenza di un progetto diverso, teso non ad una accumulazione di plusvalore e di incremento di profitto a favore di pochi, ma ad assicurare libertà e dignità umana a tutti.

Con la cogestione si può raggiungere un equilibrio virtuoso: se da una parte i lavoratori sono interessati al successo economico dell’azienda, gli imprenditori -in questo caso lo stato- debbono essere interessati ad una condizione libera e dignitosa dei lavoratori.

Impossibile? Certamente no! Grandi multinazionali hanno adottato la cogestione come elemento fondante della gestione aziendale. Dunque è un obiettivo raggiungibile. Questa interazione significa che, da una parte, c’è una razionalizzazione dei sistemi produttivi posta in essere da chi la produzione la fa materialmente; dall’altra parte, c’è la creazione di ricchezza a favore non solo dell’azienda, ma anche dall’ambiente che la circonda. Le acciaierie Krupp furono salvate grazie alla cogestione.

In Italia un’imprenditoria conservatrice ha preferito vendere le proprie imprese. Con l’appoggio interessato di una classe politica subalterna, è stata sempre contraria alla cogestione, perché timorosa di vedere compromessa l’efficienza dell’azienda. Dal lato opposto, i sindacati hanno sempre cercato di impedire l’attuazione della cogestione, perché questo avrebbe ridimensionato il loro ruolo, che acquista valore solo in un rapporto conflittuale con l’impresa.

Eppure in Italia è esistita l’Olivetti, azienda leader nel settore dell’elettronica, che vantava una presenza su tutti i maggiori mercati internazionali, con circa 36.000 dipendenti, di cui oltre la metà all’estero. Olivetti credeva che fosse possibile creare un equilibrio tra solidarietà sociale e profitto, tanto che l’organizzazione del lavoro comprendeva un’idea di felicità collettiva che generava efficienza. Gli operai vivevano in condizioni migliori rispetto alle altre grandi fabbriche italiane: i dipendenti ricevevano salari più alti, godevano di convenzioni e, per iniziativa dell’azienda, usufruivano di asili e abitazioni vicino alla fabbrica. Essa, inoltre, era ecologicamente responsabile: rispettava infatti la bellezza dell’ambiente (fonte Wikipedia).

Se guardiamo alla ricca Germania, possiamo rilevare che la cogestione non solo viene praticata da sempre, ma trova il suo fondamento nella Legge Fondamentale (che ha il valore più a meno della nostra carta Costituzionale). L’art. 14 recita: “La proprietà privata è garantita nei limiti dell’interesse generale” (Eigentum verpflichtet); ”la proprietà obbliga”. L’art.15 (mai applicato) rende possibile la collettivizzazione del suolo, di risorse naturali e di mezzi di produzione. La Cogestione (Mitbestimmung), fu resa stabile al termine della seconda guerra mondiale con la promulgazione di una serie di leggi federali, sebbene le sue radici affondino ai tempi della Repubblica di Weimar (1919-1933), periodo in cui si realizzò, dal punto di vista politico, l’uguaglianza fra capitale e lavoro nell’economia nazionale.

Il principio trova la sua genesi storica in un congresso dei lavoratori a Berlino, avvenuto alla fine dell’Ottocento. A seguito di tale congresso, fu concesso il diritto di ottenere in fabbrica un capofabbrica. Dopo il periodo della repubblica di Weimar, passi concreti verso la cogestione furono compiuti dopo il 1945. In questo periodo, gli imprenditori del settore minerario e dell’acciaio chiesero ed ottennero la collaborazione del movimento sindacale e nel 1951 si giunse al consolidamento di un modello “paritario” di rappresentanza dei lavoratori all’interno del consiglio di sorveglianza (grazie all’approvazione della Legge sulla Cogestione da parte dei Lavoratori dei Membri degli Organi di Amministrazione e Controllo delle Imprese del Settore Minerario, del Ferro e dell’Acciaio -Montan-Mitbestimmungsgestz – MontanMitbestG-).

Nel sistema cd. “duale”, affermatosi in Germania, in cui operano il consiglio di gestione e il consiglio di rappresentanza, fondamentale è il ruolo dei lavoratori. Per la legge tedesca essi hanno lo stesso potere degli azionisti: hanno infatti poteri decisionali ed interdittori e rispetto agli azionisti hanno gli stessi diritti ed obblighi ed il diritto di voto.

Grazie al modello della cogestione, nessuna delle operazioni di delocalizzazione che hanno portato alla fine delle imprese di tutta Europa sono state possibili in Germania.

La giuslavorista Roberta Caragnano ha affermato che “la partecipazione si pone come strumento di redistribuzione della ricchezza e sviluppo economico sostenibile per gli effetti positivi che produce sulla qualità del lavoro, sulla conoscenza e sulla professionalità del dipendente, ma, al tempo stesso, è anche elemento di coesione sociale divenendo strumento di gestione aziendale”

Certo, i tempi sono cambiati e anche in Germania si tende a ridimensionare la presenza dei lavoratori nella partecipazione alle decisioni aziendali, al fine di creare un equilibrio fra i diritti dell’imprenditore e quello dei lavoratori.

Sta di fatto che nella Volkswagen il sistema della cogestione funziona perfettamente, tanto che l’industria automobilistica ha istituito nel 1990 il Consiglio europeo del Gruppo Volkswagen, per dare ai dipendenti il diritto di scambiarsi informazioni e per garantire azioni comuni. Successivamente è stato creata la “Carta dei rapporti di lavoro per le società e per gli stabilimenti del Gruppo Volkswagen”.

Ovviamente, il capitalismo finanziario internazionale non vede di buon occhio questo sistema di relazioni. In Germania, però, gli imprenditori accettano giocoforza il principio della cogestione perché, comunque, garantisce una serie di vantaggi, che derivano dall’equilibrio degli interessi delle parti coinvolte: gestione aziendale corresponsabile, risultati positivi in relazione alla crescita della produttività e dei salari, diminuzione del tasso di turnover, maggiore motivazione e formazione dei dipendenti.

La cogestione garantisce una mediazione non conflittuale fra proprietà e lavoro, il raggiungimento di obiettivi capitalistici e maggiore giustizia sociale, ottimizzazione del profitto e protezione dei dipendenti.

In Italia, l’art. 46 della Costituzione resta di fatto inattuato. Da una parte gli imprenditori non amano interferenze nell’ambito delle proprie aziende e dall’altra i sindacati sono contrari a forme di collaborazione. Il mondo politico, d’altronde, è di fatto storicamente schierato dalla parte degli imprenditori.

Storicamente possiamo riferire che, seppur la sua approvazione si ebbe nel 1947, l’articolo non venne attuato a causa dell’opposizione della maggior parte degli esponenti della Democrazia Cristiana (e soprattutto di Alcide De Gasperi).

Nel 1938, in Francia vennero istituiti -tramite un decreto legislativo- dei delegati operai eletti dai propri colleghi, anche se le radici storiche del tema della rappresentanza sembrano doversi rinvenire nella Carta del Lavoro della Repubblica di Vichy relativamente alla presenza delle figure dei comitati sociali.

Per quanto riguarda il Regno Unito, possiamo dire che solo più tardi (nel 1947) sarebbe stata emanata una legge volta alla costituzione di organismi consultivi (l’Industrial Organization and Development Act)

Altra tappa del processo di armonizzazione è quella relativa al “Programma di azione sociale” del 1974, fondato sulla convinzione che una forma di società vincente sarebbe dovuta essere basata sulla cogestione, accompagnata dagli imprescindibili diritti di informazione e consultazione.

Per concludere, merita un cenno il Libro Verde del 1975 sulla “partecipazione dei lavoratori e sulla struttura delle società nella Comunità Europea”

In Europa, dopo un lungo iter -a volte contradditorio- di progetti e risoluzioni, il 23 ottobre 2018 l’Europarlamento ha approvato, quasi all’unanimità, una risoluzione favorevole alla partecipazione finanziaria dei lavoratori e di una maggiore partecipazione dei lavoratori nei processi decisionali aziendali. In questa risoluzione si afferma che gli Stati membri debbono “collaborare con le parti sociali al fine di definire gli schemi di partecipazione finanziaria dei dipendenti e a negoziarli”. Esiste quindi un’altra Europa, che i nostri governanti fingono di ignorare. Una maggiore comprensione e attenzione potrebbe cambiare il sistema produttivo ormai agonizzante e ridare una speranza.

Purtroppo, però, il capitalismo nostrano ha adottato di fatto un sistema “amerikano”, rendendo impotenti sia i lavoratori che i sindacati. Qualcuno ricorderà che, a fronte dell’approvazione del referendum con il quale Marchionne chiedeva l’approvazione del suo piano aziendale, pena la chiusura degli stabilimenti, in cambio si promettevano 20 miliardi di investimenti nel nostro Paese.

Autogestione

In Italia non mancano esempi virtuosi di autogestione. Si sono verificati casi in cui i lavoratori hanno rilevato l’azienda fallita e l’hanno rimessa in piedi. È il caso della Italcable di Cairano, acquistata dal curatore fallimentare e dagli operai con il contributo di Cooperazione Finanza Impresa, Coopfond e Banca Etica. In questo modo, l’azienda è rimasta collegata al territorio, riuscendo allo stesso tempo a promuovere uno sviluppo sia dal punto di vista economico che sociale.

Per citare altri esempi, va ricordata la Manfrotto prevede che uno dei 350 dipendenti sieda nel C.d.A. (a ciò vanno aggiunte anche altre misure di welfare aziendale); il regolamento RAI prevede che un membro del CDA sia scelto fra i dipendenti RAI; alla rinnovata attualmente “Sider Alloy” è prevista una rappresentanza dei lavoratori nel consiglio di amministrazione, con in più il 5% della nuova società in proprietà dei lavoratori. Inoltre, la cd. “legge Marcora” permette che i dipendenti delle aziende in crisi ne possano prendere le redini; ripartendo sgravati dai debiti, ma accollandosi sia tutte le responsabilità di gestione sia i costi d’investimento.

Tra i casi più famosi c’è la Greslab, realtà con 68 operai nel settore della ceramica; è nata a Scandiano sulle ceneri della Ceramica Magica. Un caso di questo genere si trova in Lombardia: la Ri-Maflow di Trezzano sul Naviglio.

E’ chiaro, pertanto, che tanti presupposti per esperienze di co-gestione e autogestione ci sono già. Ciò che manca è la volontà politica di impegnarsi ad approfondire le reali possibilità che questo nuovo orizzonte potrebbe delineare. A tale riguardo, va detto che i principali ostacoli all’attuazione dell’art. 46 della Costituzione sono stati i sindacati confederali, da una parte,e la Confindustria dall’altra. I primi cercavano di impedirne la realizzazione poiché avrebbe portato alla chiusura del rapporto classista vigente tra gli imprenditori e gli operai e quindi, avrebbero visto venir meno la loro figura politica e sociale. La Confindustria, invece, è stata da sempre contraria perché si sarebbe compromessa l’efficienza economica dell’impresa.

Ricordiamo, però, che recentemente -con decreto del Ministero dello Sviluppo economico del 4 gennaio 2021- è stato istituito un nuovo regime di aiuto volto a rafforzare il sostegno alla nascita, allo sviluppo e al consolidamento delle società cooperative, prevedendo la concessione di un finanziamento agevolato alle società cooperative nelle quali le società finanziarie – partecipate dal Ministero dello sviluppo economico – assumano, ovvero abbiano assunto, delle partecipazioni ai sensi della predetta legge Marcora. (Cooperative – Nuova Marcora (mise.gov.it)

La Cogestione, come equiparazione fra capitale e lavoro, introduce la democrazia nei posti di lavoro, rendendo concreto il precetto dell’art. 46 della nostra Carta Costituzionale.

Nazionalizzazione delle industrie strategiche.

Il ministro federale dell’Economia della Germania Altmaier ha presentato il 29 novembre 2019 la sua “Strategia industriale nazionale 2030”.

Obiettivo della “Strategia Industriale Nazionale 2030”, secondo il ministro, è collaborare con gli attori economici per dare un contributo al recupero della competenza economica e tecnologica, della competitività e della leadership industriale a livello nazionale, europeo e mondiale.

La strategia industriale presentata è la prima a sviluppare una coerente strategia industriale nazionale ed europea basata su considerazioni fondamentali. Definisce i casi in cui l’azione dello Stato può essere giustificata -o addirittura necessaria in casi eccezionali-: a) evitare gravi svantaggi per l’economia nazionale; b) il benessere generale dello Stato. È allo stesso tempo un contributo alla formazione di un’economia di mercato a prova di futuro e la base per un dibattito normativo.

Altemaier ha dichiarato: ““La Germania è una delle realtà industriali più competitive al mondo e dovrebbe rimanere tale. Raggiungere questo obiettivo è responsabilità congiunta delle imprese e dello Stato. È un punto di vista unilaterale. Ciò porta infatti vantaggi solo alla Germania. Il proposito, infatti, rientra nell’aggressiva ideologia “mercantilista” tedesca, che rende quel Paese strutturalmente incapace di “cooperazione” secondo i criteri keynesiani (non a caso Keynes è da sempre detestato dagli economisti e dai politici tedeschi).

Resta il fatto che la Germania si pone il problema del ruolo dello Stato nell’economia (libera da condizionamenti sociali, non è sostenibile e non genera ricchezza per la collettività). Ne consegue che in quell’ottica il ruolo dello Stato non può essere marginale, ma deve viceversa svolgere un ruolo attivo, indirizzando e talvolta assumendo in prima persona le scelte economiche. Non a caso Altemeier parla di responsabilità congiunta delle imprese e dello Stato. Il tema di un ritorno dello Stato in economia, sia pure fuori dall’orizzonte mercantilistico tedesco, deve diventare centrale anche in Italia. C’è dunque bisogno di Stato.

Se ciò è vero per la Germania, a maggior ragione è vero per l’Italia, dove, per le congiunte dinamiche neoliberiste interne ed europee, da troppo tempo assistiamo ad un aumento delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza all’interno del Paese e ad un generale pessimismo su un futuro apparentemente senza prospettive. Lo Stato dovrebbe svolgere azione di sviluppo generale e di riequilibrio di una situazione nettamente sbilanciata a favore del capitale, che lascia ai lavoratori solo la prospettiva di salari magri oppure quella di rimanere senza lavoro, quindi destinati a far parte dell’esercito “industriale di riserva”, che da sempre ha la funzione di schiacciare i salari a vantaggio dei profitti.  In strema sintesi più stato e meno mercato.

dicembre 31, 2021

Democrazia assediata.

Di Beppe Sarno

L’art. 135, comma 1 della Costituzione afferma che la Corte costituzionale è composta di quindici giudici nominati:


• per un terzo dal Presidente della Repubblica;
• per un terzo dal Parlamento in seduta comune;
• per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria e amministrativa»;

I giudici della Corte costituzionale sono nominati per nove anni, decorrenti per ciascuno di essi dal giorno del giuramento, e non possono essere nuovamente nominati. Alla scadenza del termine il giudice costituzionale cessa dalla carica e dall’esercizio delle funzioni.

I giudici che attualmente compongono la Corte costituzionale e sono alla scadenza del mandato sono:

Giancarlo Coraggio, che attualmente riveste la carica di Presidente e dovrà essere sostituito dopo il 28 gennaio 2022. la sua nomina spetterà alla magistratura ordinaria e amministrativa.

Giuliano Amato e stato nominato dal presidente della Repubblica ed è in scadenza di mandato il 12 settembre 2022;

Daria de Pretis è stata nominata dal presidente della Repubblica ed è in scadenza di mandato al 18 ottobre 2023;

Nicolò Zanon e stato nominato dal presidente della Repubblica ed è in scadenza di mandato il 18 ottobre 2023.

Quindi il nuovo presidente della Repubblica nel biennio 2022 e 2023 dovrà nominare tre giudici costituzionali.

sono inoltre in scadenza Silvana Sciarra il cui mandato scade il 6 novembre 2023, Franco Modugno il cui mandato scade il 16 dicembre 2024, Giulio Prosperetti il cui mandato scade il 15 dicembre 2024 ed infine Augusto Antonio Barbera il cui mandato scade il 21 dicembre 2024.

Ciò significa che nei prossimi tre anni scadono otto giudici costituzionali e di questi tre saranno nominati dal presidente della Repubblica quattro dal Parlamento in seduta comune e soltanto uno dalle supreme magistrature ordinaria e amministrativa.

se Silvio Berlusconi dovesse essere eletto presidente della Repubblica avrebbe il diritto di nominare mentre componenti Della Corte costituzionale altri quattro verrebbero eletti dal Parlamento in seduta comune e soltanto uno dalla magistratura ordinaria.

Il capo dello Stato viene eletto dai cd. grandi elettori che in base alle regole vigenti saranno 1009(di fatto saranno1006): 630 deputati, 321 senatori (inclusi i senatori a vita) e 58 delegati regionali.

Nelle prime tre votazioni sarà necessario un quorum qualificato di due terzi dell’assemblea parlamentare, equivalente a 673 elettori su 1009 (il numero dei Grandi elettori). 

Dal quarto scrutinio pertanto  saranno sufficienti 504 voti per essere eletto presidente e non parteciperanno al voto i Presidenti di Camera e Senato.

Il centrodestra può contare su una base teorica di 452 voti in parlamento mentre il centrosinistra (PD,5stelle, leu e altri) contano su 436 grandi elettori. Determinanti saranno i voti dei parlamentari che non sono ascrivibili a nessuno dei due fronti.

Il quadro politico della Corte Costituzionale sarebbe completamente stravolto se Berlusconi e forse anche Draghi, venissero  eletti Presidente della Repubblica. Dei quindici membri infatti tre di nomina presidenziale verrebbero scelti fra le file del centrodestra, come pure i quattro in scadenza di mandato che dovranno essere eletti dal parlamento in seduta comune: Se dovesse vincere il centrodestra alle elezioni del 2023 avremmo altri quattro componenti scelti fra le file del centrodestra, in sostituzione di quattro eletti dal PD e dai 5 stelle; ciò significa che sette su quindici giudici costituzionale saranno di orientamento conservatore a cui si aggiunge Luca Antonini eletto in quota Lega Nord e quindi si può affermare con un certo grado di sicurezza che nei prossimi tre anni la Corte Costituzionale avrà fra i suoi componenti otto giudici sicuramente orientati a destra.   

E’ stato opportunamente detto “ la previsione di un organo investito del potere di incidenza sulla legge delinea un tipo di controllo che è politico nella sostanza, in quanto diretto a eliminare atti del potere politico quali sono le leggi, ma giurisdizionale della forma, in quanto esercitato attraverso lo strumento del processo che si svolge davanti a un giudice imparziale”.

Ora il potere della Corte Costituzionale è enorme perché se è vero che il suo ruolo fondamentale e quello di mantenere un equilibrio fra giudice e legislatore per garantire l’osservanza della Costituzione, chi ci garantisce che una Corte Costituzionale politicamente sbilanciata  “scriva” un precetto normativo in via sostitutiva del Parlamento?

Già per il passato la nostra Corte Costituzionale si è assunta la responsabilità di svolgere una sorta di potere costituente, fondato sull’estrapolazione dei nuovi diritti dalla norma costituzionale attraverso tecniche interpretative. Si pensi, tra gli altri, al diritto alla riservatezza, al diritto all’ambiente, al diritto all’identità sessuale: tutti diritti non previsti e disciplinati in Costituzione ma ritenuti diritti fondamentali costituzionali in virtù di pronunciamenti della Corte. E che dire del giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo? E’ stato detto che “Di fatto la  Corte ha riscritto l’art. 75 della Costituzione, introducendo nuovi limiti – ben oltre cioè quelli già disciplinati in Costituzione – alla promovibilità del referendum abrogativo, suscettibili di essere, di volta in volta, integrati, modificati, ampliati.” Non a caso, ed è questo il pericolo di una Corte Costituzionale orientata a destra, in  una sentenza che non è stata l’ultima (la n. 1146 del 1988), è stato detto «la Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o altre leggi costituzionali […]. Non si può negare che la Corte sia competente a giudicare sulla conformità delle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali anche nei confronti dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale».

Ciò significa che la Corte Costituzionale può di fatto arrogarsi il diritto di  rovesciare la Costituzione, irrigidendola oltremodo, integrandola con interventi paracostituenti, dilatandola per consentire di fare entrare nel testo diritti fondamentali, ovvero processi sovranazionali.

Che la Corte Costituzionale abbia svolto un ruolo politico a volte anche di supplenza è cosa nota. Esiste però il pericolo che una Corte non politicamente equilibrata, come quella che verrà, attraverso sentenze politicamente eterodirette stravolga la  democrazia rendendo sempre più precaria la difesa dei diritti costituzionalmente garantiti.

dicembre 15, 2021

l 20 GIUGNO 1976: INIZIAVA IL DECLINO DELLA REPUBBLICA DEI PARTITI

I

di Franco Astengo

Quarantacinque anni fa, 20 giugno 1976, le elezioni politiche anticipate, seguenti il “terremoto” (l’Unità: “l’Italia è cambiata davvero”) verificatosi con i risultati delle amministrative svoltesi 12 mesi prima, registrava il massimo consolidamento del sistema imperniato sui grandi partiti di massa.

Quel sistema che aveva egemonizzato la scena politica italiana dal dopoguerra in avanti.

Verifichiamo alcune cifre.

In quel 20 giugno 1976:

Gli aventi diritto al voto iscritti nelle liste elettorali assommavano a 40.426.658 unità (non esisteva ancora la possibilità del voto all’estero).

I partecipanti che si recarono ai seggi furono: 37.755.090 pari al 93,39% (la percentuale dei votanti si manteneva costante al di sopra del 90% a partire dalla elezioni per la prima legislatura il 18 aprile del 1948).

I voti ritenuti validi assommarono a : 36.707.578, con 596.541 schede bianche e 1.047.512 schede nulle.

I due più grandi partiti di massa, la DC e il PCI ottennero rispettivamente 14.209.519 voti lo scudo crociato e 12.614.650 voti i comunisti per un totale di 26.824.169 voti pari al 73,08% sul totale dei voti validi e al 66,35% sul totale degli aventi diritto.

Se alla DC e al PCI aggiungiamo i 3.540.309 voti totalizzati dal PSI (risultato giudicato molto deludente che determinò un vero e proprio cataclisma all’interno del partito con l’avvento di Craxi alla segreteria) registriamo che i 3 grandi partiti di massa disponevano di 30.364. 478 voti pari all’82,71% dei voti validi e al 75,11% del totale degli iscritti.

Un risultato che poteva davvero far pensare all’egemonia incontrastata di quella che Pietro Scoppola avrebbe poi definito “La Repubblica dei Partiti”.

Per arrivare a quel risultato le due formazioni maggiori si erano trovate in situazioni completamente difformi.

Il PCI aveva conseguito un eccezionale risultato nelle amministrative del 15 giugno 1975 ,grazie al quale aveva esteso la propria capacità di governo locale in situazioni nelle quali tradizionalmente si era sempre trovato in minoranza.

Un risultato quello del 20 giugno 1976 per il PCI frutto di un’ondata “lunga” di forte pressione sociale per un rinnovamento del Paese che aveva avuto al suo centro le lotte sindacali dell’autunno caldo del 1969, il progredire dell’estensione dei diritti dei lavoratori(fino al punto unico di scala mobile) e di quelli sociali, la grande vittoria nel referendum sul divorzio che aveva segnato il momento fondamentale nella modernizzazione anche culturale del Paese, il procedere di una forma di distensione nella logica dei blocchi a livello internazionale, la sconfitta degli USA in Vietnam, la fine delle dittature fasciste nella penisola iberica, la decolonizzazione in Africa segnata in particolare dalla liberazione dell’Algeria.

Vietnam e Algeria: fatti che avevano fatto segnare, nelle nuove generazioni, una crescita importante di un sentimento internazionalista.

Il PCI era stato in grado, considerato il suo radicamento nelle fabbriche e nei territori, di capitalizzare questo forte movimento progressista senza assumerne l’avanguardia e riuscendo anche a marginalizzare, almeno sul piano elettorale, il complesso dei gruppi formatisi alla sua sinistra che, in quel 20 giugno, avevano formato il cartello elettorale di Democrazia Proletaria arrestatosi ai 555.890 voti pari all’1,5%.

Una situazione che in condizioni estreme avrebbe poi avuto conseguenze non secondarie nella stagione del terrorismo sia al riguardo della “zona grigia” presente nell’intellettualità e nelle fabbriche, sia dal punto di vista della “prima linea” militante (e ancora sugli orientamenti mobilitanti di quello che poi sarebbe stato definito “movimento del ’77”).

La DC aveva invece attraversato l’inizio degli anni’70 in una fase di declino: aggredita a destra dal MSI (rivolta di Reggio Calabria), assunta una funzione da “legge e ordine” dopo l’attentato di Piazza Fontana, scivolata nel primo governo Andreotti appoggiato dal PLI, verificato l’esaurimento della prima formula di centro sinistra (alle elezioni del 1976 si andò sulla base di un articolo apparso sull’Avanti e firmato dal segretario socialista De Martino nel quale si affermava come il PSI non avrebbe più partecipato a governi senza i comunisti) la DC aveva subito una dura sconfitta nel referendum sul divorzio nel quale si era allineata con la parte cattolica più retriva e con i neo-fascisti. Sostituito Fanfani con Zaccagnini alla segreteria e Moro alla presidenza, nell’occasione delle elezioni del 20 giugno la DC aveva usufruito di importanti appoggi da destra (Montanelli “turatevi il naso e votate DC”, la “maggioranza silenziosa” di Degli Occhi e Rossi di Montelera, Comunione e Liberazione che nel 1976 elesse il suo primo deputato Mazzarino De Petro in Liguria) recuperando il tonfo delle amministrative soltanto attraverso il prosciugamento degli alleati centristi e in particolare del PLI, rientrato in parlamento per un soffio (quorum per 400 voti a Torino).

Insomma: per essere precisi nella ricostruzione, alla vigilia del 20 giugno nella DC non appariva delineata quella linea di “terza fase” in seguito attribuita a Moro quasi come marcia d’avvicinamento verso il PCI.

Anzi, al 20 giugno la DC era arrivata con professioni di moderatismo e parole d’ordine anticomuniste.

Il risultato del 20 giugno aveva così segnato quella situazione di “bipartitismo imperfetto” coniata da Giorgio Galli: una DC di centro – destra e un PCI egemone a sinistra, con “l’imperfetto” a significare l’impossibilità di una alternanza. Impossibilità dovuta a un cumulo di ragioni tra le quali non esaustiva quella riferita alla situazione internazionale e alla logica dei blocchi perché presente anche una motivazione di assenza di progetto d’alternativa da parte del PCI. Il PCI era fermo alla logica dell’arco costituzionale espressione diretta della linea del “compromesso storico” elaborato dal segretario Berlinguer nella convinzione dell’impossibilità (e del rischio democratico) di un governo delle sinistre al 51%; linea del resto condivisa anche all’interno del PSI anche se non completamente e contestata all’interno del PCI soltanto da Longo e Terracini e a sinistra dal Pdup-Manifesto.

Si determinò così una situazione di sostanziale immobilismo, con la DC che mantenne un ruolo pivotale pur non disponendo più di una maggioranza centrista.

Una DC collocata al centro di un sistema che non avrebbe saputo alla fine produrre altro che un monocolore del partito di maggioranza relativa sostenuto dall’astensione della gran parte del Parlamento (Andreotti ter, alla Camera 258 favorevoli, 44 contrari dei quali 33 fascisti come scrisse il Manifesto, 303 astenuti).

Il PCI non mosse nulla sul piano della mobilitazione popolare, anzi la forza sindacale in quel momento che era ancora di fortissima capacità di mobilitazione sociale si rivolse alla fine contro la soluzione di governo.

Ben prima della tragica fase contrassegnata dal rapimento e dall’uccisione di Aldo Moro si può ben affermare che si fosse già avviato un principio di distacco del quadro politico da parti del Paese (in particolare del mondo del lavoro) che avevano fornito un formidabile apporto al consolidarsi di un sistema fondato sui partiti di massa .

La classe operaia pensava, nella sua grande maggioranza, che il sistema dei partiti avrebbe favorito quella profonda modificazione dello stato di cose in atto che stava nelle aspirazioni più alte di grandi masse di donne e uomini.

La “politica” aveva toccato proprio il 20 giugno 1976 il punto più alto nella sua credibilità, autorevolezza, consenso diffuso: dall’esito di quelle elezioni iniziò invece un declino del sistema nel suo complesso che trovò poi il suo primo punto di caduta, nel post – rapimento Moro, con l’esito del referendum dell’11 giugno 1978 su”legge Reale” e legge sul finanziamento pubblico ai partiti: esito in cui si ravvisò una forte disaffezione dell’elettorato rispetto alle indicazioni di voto fornite dalle formazioni maggiori (in particolare sulla questione del finanziamento pubblico ai partiti).

Alle elezioni anticipate del 1979 l’afflusso al voto registrò un calo del 3% conservando a stento una quota superiore al 90%: la somma dei due maggiori partiti assommò a 25.700.000 voti, con un calo del PCI di quasi un milione e mezzo di voti (1.475.419) e un balzo dei radicali, in quel momento caratterizzati come partito anti- sistema, di 800.000 voti.

L’esito di quel lontano 20 giugno 1976 può oggi essere sintetizzato come quello di un avvio di un declino del sistema fondato sui partiti di massa .

Un declino che si sarebbe rivelato nella sostanza irreversibile fino all’esplosione definitiva avvenuta all’inizio del anni’90 a causa dei fenomeni concomitanti e convergenti di Tangentopoli, della caduta del Muro di Berlino, della firma del trattato di Maastricht.

Un declino, in quel momento, non avvertito a livello sistemico.

I grandi partiti ignorarono che si stava affermando una “logica della governabilità” e si stava profondamente modificando il quadro delle relazioni sociali ed emergevano nuovi fenomeni di costume.

Così si manifestavano tendenze individualistiche e di ripresa di fattori provocanti la crescita delle disuguaglianze, in controtendenza con quanto era avvenuto negli anni ’60 – ’70.

Ci si avviava così alla drammatica “festa” degli anni’80: quelli dei cancelli della Fiat e della “Milano da bere”.

dicembre 15, 2021

Si è interrotta la catena dei rifornimenti, ma non quella degli speculatori.

Di Alberto Angela

Ricorrere alla metafora Smithiana della mano invisibile quale colpevole della interruzione della catena degli approvvigionamenti, costituirebbe una semplificazione della crisi che sta investendo il mondo ancora alle prese con la pandemia COVID 19. Nessuno, men che meno gli economisti di rito classico avevano presagito quale sarebbe stato il disastro sulla logistica nella fase centrale della pandemia. Ora lo sappiamo, perché abbiamo appreso quale sia la portata dell’interruzione della catena di approvvigionamento globale. I media ci hanno messo di fronte a un docufilm attraverso cui abbiamo potuto vedere navi portacontainer attraccate ai più grandi porti o file di autotreni in attesa di svolgere il proprio lavoro di trasporto delle merci. Manca di tutto, chip per computer, attrezzature per esercizi, cereali per la colazione, medicinali, materie varie per le attività industriale. Dai giornali e dalla TV abbiamo appreso che il mondo è a corto di moltissimi prodotti. Sorprende questa notizia, visto che viviamo in un epoca in cui ci siamo abituati a fare clic e ad aspettare che tutto ciò che desideriamo arrivi alle nostre porte. So di molti miei amici che da mesi aspettano di ricevere lo smartphone o di altri che devono rinunciare alla pretesa di avere l’auto nuova, da lungo tempo ordinata, con il colore preferito. La pandemia fin dai suoi inizi è stata una lezione terribile a causa dalla mancata disponibilità e ritardi nei rifornimenti dei dispositivi medici. La pandemia ha quasi interrotto ogni procedura della catena di approvvigionamento globale; cioè il percorso solitamente invisibile di produzione, trasporto e logistica che porta le merci da dove sono fabbricate, estratte o coltivate fino al luogo del deposito o dell’ordinazione, e poi nelle vicinanze della nostra abitazione. Alla fine della catena c’è un’altra azienda o un consumatore che ha pagato per il prodotto finito e la scarsità ha fatto aumentare i prezzi di molte cose, da cui, come l’Araba Fenice, riprende a padroneggiare la speculazione. Quindi, i segnali c’erano già nella fase iniziale della pandemia.  Le fabbriche in alcune parti del mondo in cui si trova gran parte della capacità produttiva mondiale, paesi come Cina, Corea del Sud e Taiwan, nonché nazioni del sud-est asiatico come il Vietnam e giganti industriali europei come la Germania,  sono state duramente colpite dalla diffusione dei casi di coronavirus. Molte fabbriche hanno chiuso o sono state costrette a ridurre la produzione perché i lavoratori erano malati o in isolamento. In risposta, le compagnie di navigazione hanno ridotto i loro impegni in previsione di un calo della domanda di merci in movimento in tutto il mondo. La spiegazione che viene data è che con il lockdown il cittadino ha fatto più acquisti, per cui la quantità e la tempistica degli  acquisti dei consumatori hanno sommerso il sistema. Le fabbriche, la cui produzione tende ad essere predefinita mediante un  processo di programmazione abbastanza prevedibile, si sono impegnate ad aumenta tali processi per soddisfare un’ondata imprevista di ordini e questo ha prodotto i suoi problemi organizzativi. Le fabbriche generalmente hanno bisogno di introdurre componenti, programmare i tempi e la logistica per realizzare le cose che esportano. Ad esempio, un computer assemblato in Cina potrebbe richiedere un chip prodotto a Taiwan o in Malesia, un display a schermo piatto dalla Corea del Sud e dozzine di altri dispositivi elettronici provenienti da tutto il mondo, che richiedono prodotti chimici specializzati da altre parti della Cina o dell’Europa. Il drammatico aumento della domanda ha intasato il sistema di trasporto delle merci alle fabbriche che ne avevano bisogno. Allo stesso tempo, i prodotti finiti, molti dei quali realizzati in Cina, si accumulavano nei magazzini e nei porti di tutta l’Asia a causa di una profonda carenza di container.

In parole povere, i prodotti sono rimasti bloccati nei posti sbagliati. Nella prima fase della pandemia, poiché la Cina ha spedito enormi volumi di dispositivi di protezione come maschere per il viso e camici ospedalieri in tutto il mondo, i container sono stati scaricati in regioni come l’Africa occidentale e l’Asia meridionale, che generalmente non rimandano in Cina altri prodotti diversi  e di cui  il Paese ha necessità. In quei luoghi, allora, i container vuoti si accumulavano proprio mentre le fabbriche cinesi stavano producendo una potente ondata di altri beni destinati ai ricchi mercati del Nord America e dell’Europa. Poiché i container erano scarsi e la domanda di spedizione intensa, il costo del trasporto delle merci è salito alle stelle. Prima della pandemia, spedire un container da Shanghai a Los Angeles costava forse 2.000 dollari. All’inizio del 2021, lo stesso viaggio costava fino a  25.000 dollari. E molti container venivano buttati giù dalle navi e costretti ad aspettare, aggiungendo ritardi lungo tutta la catena di approvvigionamento. Persino grandi aziende come Target e Home Depot hanno dovuto aspettare settimane e persino mesi per portare i loro prodotti di fabbrica finiti sulle navi.

Nel frattempo, nei porti del Nord America e dell’Europa, dove arrivavano i container, il pesante afflusso di navi ha travolto la disponibilità delle banchine. Allo stesso tempo, camionisti e lavoratori portuali sono rimasti bloccati in quarantena, riducendo la disponibilità delle persone per scaricare le merci e rallentando ulteriormente il processo. Questa situazione è stata aggravata dalla chiusura del Canale di Suez dopo che una gigantesca nave portacontainer vi è rimasta bloccata, e poi dalle chiusure dei principali porti cinesi in risposta ai nuovi casi di Covid. Molte aziende hanno risposto alle carenze iniziali ordinando articoli extra, aumentando le tensioni sui porti e riempiendo i magazzini . Con i magazzini pieni, i container, che improvvisamente fungono da aree di stoccaggio e si accumulano nei porti, il risultato è stato la madre di tutti gli ingorghi. Quasi tutto ciò che viene prodotto o fabbricato, dai prodotti chimici all’elettronica alle scarpe da corsa. Le carenze generano altre carenze. Un produttore di vernici che ha bisogno di 27 sostanze chimiche per realizzare i propri prodotti potrebbe essere in grado di acquistarne tutte tranne una, ma quella, forse bloccata su una nave portacontainer al largo del porto di Trieste, potrebbe essere sufficiente per fermare la produzione. Si consideri la domanda delle nuove auto, che beneficiano di contributi governativi, usano chip per computer, molti di loro, e la carenza di chip ha reso più difficile la produzione di veicoli. A sua volta, ciò ha reso più difficile e costoso acquistare automobili.

Se stiamo a quanto scrivono alcuni politici ed economisti la carenza nella catena di approvvigionamento globale sembra potersi spiegare e giustificare ricorrendo alla pandemia, che ha sicuramente reso l’offerta e la domanda estremamente volatili, spostandosi più velocemente di quanto la catena di approvvigionamento possa adattarsi. Ma si può anche spiegare dal comportamento speculativo delle aziende produttrici, le quali per decenni hanno mantenuto e accumulato le scorte a livelli scarsi per limitare i loro costi, cosicchè all’accrescersi della domanda è stato per loro redditizio spostare sui prezzi dei prodotti resi carenti ulteriori incrementi dei loro profitti. Poi ci sono i gruppi di monopolio esercitato sulle materie prime, cioè delle terre rare a cui si associa il ricatto, non solo economico, esercitato dai paesi che controllano queste aree e i flussi di petrolio e gas naturale. La risposta a questi problemi non può essere data da un solo paese, qui occorre che sia l’Europa a costruire in fretta una sua iniziativa per impedire che i deboli segnali di ripresa dell’economia dell’area europea non siano soffocati da politiche speculative e monopolistiche, mettendo in atto tutte le difese che il momento difficile richiede per non compromettere quanto costruito in questi anni. Nell’ultimo Consiglio dell’Europa la questione strategica dello stoccaggio europeo del gas è stata posta con forza da Draghi, con l’invito ad assumere una più responsabile linea di chiarezza verso i paesi fornitori, in primis la Russia. Nello stesso tempo è stata affrontata la difficile materia della transizione energetica, che richiederà tempo e investimenti, nonché costi rilevanti prevedibilmente a carico dei consumatori, per cui, anche su questa condizionalità Draghi ha richiamato l’attenzione del Consiglio, confidando che alla fine l’Europa si mobiliti più rapidamente, superando i diversi interessi che tra i 27 sembrano ancora prevalere e ritardare una risposta. Singolare situazione politica quella del nostro Paese, che deve affidarsi ad un ex Banchiere per uscire da una crisi economica e sociale terribile, cogliendo l’opportunità di ingenti risorse finanziarie concesse dall’Europa contro la quale una parte della maggioranza di governo dell’emergenza cannoneggiava proponendosi financo l’obiettivo di uscire dall’Euro. Il momento è difficile e le alternative non sono all’orizzonte. Dobbiamo solo sperare che quando residua dei partiti della sinistra sappia trovare un’idea miracolosa sulla quale ricostruire l’identità della sinistra in una visione moderna e all’altezza dei compiti che il presente c’impone di affrontare per un futuro diverso.