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settembre 6, 2022

Più luce, più luce!

di  Beppe Sarno

Al VI° congresso dell’internazionale Comunista che si tenne a Mosca  dal 17 luglio al 1° settembre 1928 chiese la parola con le parole di Goethe “Più luce, più luce!” Nel suo intervento Togliatti aveva ammonito a proposito delle divisioni interne al Komintern affermando “l’avanguardia del proletariato non può battersi nell’ombra!” Togliatti dopo quel congresso entrò a far parte della direzione dell’Internazionale e fece sua la scelta di Stalin  della terza fase, cioè della strategia chiamata classe contro classe caratterizzata da una radicale ostilità verso la socialdemocrazia.

Togliatti non era fra i compagni che uscirono dal teatro Goldoni di Livorno Venerdì 21 gennaio 1921 era infatti rimasto a Torino laddove invece era presente Gramsci che però non prese la parola.

Il fatto è che Togliatti nella accidentata storia del movimento comunista ebbe un solo faro orientato ad est. Questa sua fedeltà gli dette grande potere che gli derivava dal peso politico, parlamentare sindacale del più grosso partito comunista occidentale. L’unione sovietica aveva grande fiducia e stima del “Migliore” perché Togliatti fu il fedele interprete delle direttive che provenivano da Mosca.

Note sono le polemiche all’indomani del delitto Matteotti, quando Togliatti rientrato da Mosca che rifiuta ogni accordo con il PSI e con i massimalisti giustificando l’uscita blocco delle opposizioni. Secondo Togliatti i socialisti erano c oloro che “lottano per tenere in piedi il sistema capitalistico dall’altra (i comunisti n.d.r.) chi la vuole mandare in pezzi per sempre. Da una parte chi vuole un governo non più fascista ma sempre di capitalisti e sfruttatori, dall’atra chi vuole un governo di operai e contadini.” Questa posizione antisocialista e la debolezza dei socialisti incapaci si assumere una decisione farà poi fallire la proposta di sciopero generale. Il 18 giugno il comitato esecutivo della CGL dirà “Si decide di invitare alla calma le organizzazioni confederate, i dirigenti, le masse lavoratrici, per non compromettere con iniziative particolari e inconsulte lo svilupparsi degli avvenimenti.”

Quando  Togliatti arrivò in Italia non dialogò con i gruppi antifascisti ma con Badoglio, con la monarchia e con gli alleati. Il suo arrivo fu preceduto da una lettera indirizzata a Badoglio per chiedere l’autorizzazione a rientrare in Italia. Con la monarchia assunse fin da subito un atteggiamento blando “Abbiamo sempre evitato di fare della monarchia e del re il problema centrale del momento presente.”

La cd. svolta di Salerno fu il risultato di un accordo fra le diplomazie sovietiche e le potenze alleate e che ogni iniziativa di Togliatti furono concordate a Mosca. Scrive in proposito Valiani” i documenti diplomatici dimostrano che la svolta di Salerno fu suggerita dal governo sovietico prima ancora dell’arrivo di Togliatti ….”. In questa visione non ci sarà spazio per gli altri partiti. Sull’Unità del 2 aprile Togliatti scriverà “E’ il partito comunista, è la classe operaia che deve impugnare la bandiera della difesa degli interessi nazionali che il fascismo e i gruppi che gli dettero il potere hanno tradito.

Il 22 giugno 1946 per celebrare la nascita della Repubblica italiana, Palmiro Togliatti, firmò la cd. amnistia Togliatti definita “colpo di spugna sui crimini fascisti»; amnistia che interrompe i procedimenti giudiziari nei confronti di criminali fascisti e imputati di «reati di collaborazione con i tedeschi».

L’amnistia che chiudeva la svolta di Salerno divenne grazie ad un’interpretazione estensiva della magistratura un generalizzato perdono, applicato anche a torturatori e ad assassini. Piero Calamandrei definì l’amnistia un clamoroso errore della nuova classe dirigente italiana, gravido di conseguenze.

Consapevole del radicamento della Chiesa cattolica in tutto il paese ebbe in grande considerazione le gerarchie vaticane  e con l’approvazione dell’art. 7 della Costituzione provò a mitigare l’ostilità della Chiesa verso i comunisti. L’ inclusione dell’ articolo 7 nella Costituzione, osservò Benedetto Croce, “è uno stridente errore logico e uno scandalo giuridico“. Accorata la perorazione di Piero Calamandrei: “La pace religiosa esiste. Se volete alterarla votate l’ articolo 7

Piero Nenni così commenterà il voto dei comunisti : “E’ cinismo applicato alla politica. Ma non è il cinismo degli scettici, ma di chi ha un obiettivo e non vede altro. E’ la svolta di Salerno che continua, applicata questa volta alla Chiesa e ai cattolici…“. 

Fu sempre Togliatti che fece bocciare con un artificio tecnico la proposta  di Mortati di inserire l’obbligo del sistema elettorale in Costituzione e di far approvare il sistema maggioritario al senato.

Dopo aver combattuto Tito definito “un tirannello Jugoslavo”, si recò personalmente in Jugoslavia per stringergli la mano non appena Mosca lo riabilitò.  Sempre dalla parte dei vincitori fu nell’immaginario collettivo considerato un nemico dei padroni, ma egli stesso fu un padrone severo con i suoi sottoposti. Nel partito Comunista Italiano non esisteva l’opposizione. Quanti compagni si scoprirono agenti dell’OVRA a loro insaputa solo per essere stati troskisti.

Il pensiero di Togliatti era un non pensiero e nella sua biografia non è possibile rintracciare alcun contributo teorico anche se con lui il PCI ha sempre raccolto valanghe di voti. Questi voti però non hanno contribuito significativamente nell’evoluzione della società italiana del dopoguerra condizionata positivamente dal compromesso fra la Democrazia Cristiana e il partito socialista.

La fortuna del partito Comunista fu dovuta in gran parte all’impotenza del partito Socialista che nel dopoguerra non riuscì ad attrarre i sindacati, il movimento cooperativistico, e perdette l’egemonia nelle amministrazioni locali di sinistra.

Certo il PSI non disponeva dell’appoggio internazionale dell’URSS e Togliatti da grande stratega quale era organizzò un gande partito efficiente compatto, con un grade giornale di massa “L’Unità” grandi pubblicazioni per la massa e per gli intellettuali. Per lunghi periodi potè contare anche sull’alleanza del PSI considerato un partito subordinato.

Con la forza politica che aveva e con l’organizzazione di tipo militare che era stata messa in piedi il PCI avrebbe potuto essere una reale alternativa alla DC ed imprimere alla storia italiana una ben  altra evoluzione.   La cultura italiana per oltre cinquant’anni è stata  monopolio esclusiva degli intellettuali comunisti. Malgrado ciò e con tutta la sua potenza di fuoco il PCI non è riuscito ad ottenere l’attuazione della Carta Costituzionale ed oggi stiamo ancora scontando questa sconfitta.

Togliatti disprezzava il riformismo e il massimalismo dei socialisti, ma quale risultato ha dato l’azione del PCI diverso dall’impotenza dei massimalisti? Se il movimento operaio  attratto dalla seduzione del Pci si è trovato isolato ed è stato spinto verso la DC e i partiti delle classi medie è stato solo ed esclusivamente per una scelta politica del PCI, che non ha voluto mai promuovere alcun sviluppo democratico e socialista della società.

Dei massimalisti Turati ebbe a dire nel congresso socialista di Bologna del 1919 “Il massimalismo è il nullismo, e il massimalismo è la corrente reazionaria del socialismo.” Questa definizione si adatta perfettamente alla personalità di Togliatti.

La domanda allora è perché malgrado la forza elettorale, il radicamento sul territorio, la presenza organica nelle fabbriche, l’essere stato il maggior partito comunista occidentale il PCI non ha combattuto una battaglia realmente socialista? Forse perché il Pci  nell’assumere posizioni a parole sinceramente socialiste nei fatti si smentiva perché quelle posizioni erano solo tattiche e strumentali. Il PCI non avrebbe mai contraddetto le indicazioni che provenivano da Mosca e queste indicazioni erano in contraddizione evidenti con i principi che venivano enunciati in Italia.

Togliatti era l’artefice e nello stesso tempo il prodotto di questo risultato politico negativo. Uomo freddo senza vera passione politica fu u costruttore politico ed amministratore accorto del patrimonio che gli era stato affidato. Non si può certo dire che sia stato un rivoluzionario di professione, piuttosto un burocrate attento a rispettare le direttive di Mosca.

 L’impotenza del PCI  è dimostrata dalla sua storia e dalla sua fine ingloriosa.

Riprendendo  le parole di Goethe mi sia consentito, ora che la  differenza fra comunisti e socialisti non ha più senso, invitare tutti quelli che hanno a cuore la democrazia di fare: più luce, più luce!

Ad esempio la subalternità del micro PSI di adesso al PD senza nemmeno quel senso critico del Nenni di allora che individuata il cinismo del PCI e Togliatti di predicare in un modo socialista ma di praticate in senso contrario.

La disputa coi socialisti massimalista di allora che oggi sarebbero stati come Craxi si oppose alla privatizzazione vergognosa della SME mentre il PDS DS favorì privatizzazioni delle grandi imprese anche in settori strategici espellendo lo Stato dal capitale come in Autodtrade e Telecom che nessun paese eutopeo… men che meno Francia e Germania ha fatto, al di fuori dell’Italia hanno fatto.

marzo 19, 2021

Nemesi

di Alberto Benzoni

Il Pd è ridotto male. E non per ragioni contingenti. Ma perché vittima di un contrappasso in cui i suoi punti di forza si sono trasformati in oggetto di debolezza E in ogni campo.Così il partito di “Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer”, dirigenti dalle virtù sacrali, ha visto Zingaretti prima schernito e poi dimissionario, vergognandosi del partito che (si fa per dire) dirigeva.Così, il partito, di cui i comitati centrali erano l’oracolo, è diventato un partito che non riesce a fare un congresso vero e in cui il capo dell’opposizione interna dirige un altro partito.Così il partito che si identificava con il Movimento Operaio sta cercando, affannosamente, di essere il punto di riferimento di qualcun altro ma senza riuscirci.Così uno dei fari del comunismo internazionale vota, al Parlamento europeo, una mozione in cui comunismo e nazismo vengono equiparati, dichiarando, successivamente, di non averla letta bene.Così, infine, il partito che era in grado di dettare sia le regole sia il campo di gioco, ne ha creato uno nuovo, dove è diventato terra di conquista, aperta al primo salvatore (?) di turno.Potremmo continuare all’infinito. Ma è quanto basta per usare un termine religioso, nemesi, per definire ciò che è accaduto.La nemesi non è, naturalmente, una punizione incomprensibile legata alle pulsioni di una divinità capricciosa.E non si conclude, necessariamente, con la condanna definitiva del reprobo.Diciamo allora che è un segnale. Una serie di eventi che vogliono essere un avvertimento. “Hai peccato e gravemente. Ma devi essere tu a capire in che cosa e perché. Solo così potrai salvarti dalla rovina”.A tutt’oggi nessuno sembra aver recepito questo messaggio. Né il Pd che continua a non capire quello che è successo (sino a rappresentare l’”andare verso il popolo” nella scena tragicomica di Martina – che gioca a pallone con i ragazzi di Scampia) e che, quindi, incapace di autocritica. Né i santoni che ieri lo esaltavano e oggi ci sputano sopra e sempre con la stessa boria. Né, infine, i rappresentanti della “vera sinistra” che oggi lo invitano a sciogliersi per lasciare loro il posto, salvo a non presentarsi all’appuntamento, perché chiusi in una stanzetta a litigare. Ora, rendere ciechi e sordi, è proprio della nemesi. A segnalare il fatto che gli ex comunisti si sono macchiati agli occhi di Dio (o, più modestamente, del dio della storia) di quello che forse è il peggiore dei peccati capitali: la superbia. Leggi la convinzione di essere creatori o quanto meno unici interpreti autorizzati della storia senza accorgersi che ne erano diventati seguaci passivi e proprio quando andava nella direzione opposta a quello che avevano sempre seguito.È la legge del contrappasso. Dove la convinzione di capire tutto ti porta a non capire niente. Come avverrà ai tempi di Mani pulite, quando gli ex comunisti pensavano di dirigere un processo promosso in realtà dai loro futuri avversari e con loro in tribuna a battere le mani. E ancora, con effetti ancora peggiori, quando furono in prima fila nel distruggere una prima repubblica, di cui erano stati protagonisti privilegiati per benedire una seconda, il cui ambiente sarebbe risultato per loro sempre più sfavorevole.La nemesi, si sa, confonde la vista delle sue vittime. Un partito che è giunto a tollerare il fatto che a porre il veto sulle sue stesse intenzioni stessi sia il segretario di un altro partito, sostanzialmente avverso, non sa difendersi e quindi non può essere difeso. E ancora, un partito che sale in cattedra mostrando di continuo il cartellino giallo al popolo colpevole di averlo abbandonato nega, con ciò stesso, la possibilità di recuperarlo. E, infine, l’incapacità, antica e recente, di essere o di sentirsi alternativi, in termini ideali o di rappresentanza di interessi, nega la capacità di svolgere la funzione che gli è stata affidata.Questo per dire che non c’è alcun pentimento. Anche perché, almeno in politica, tu puoi pentirti di tutto e di più e a sopportare ogni tipo di critica; ma non fino al punto di riconoscere coram populo di essere, individualmente o collettivamente, la sua stupidità.E, allora, a porre termine al contrappasso, non sarà la catarsi dell’interessato. Ma il suo istinto di conservazione. Nato dalla consapevolezza che il suo stesso destino si gioca nell’arco di quest’anno. In un arco di tempo, in vista anche del dopo Draghi e dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica, che ha come suo momento di verità le prossime elezioni in quasi tutte le grandi città. E in cui la scelta sarà fra il costruire (in una elezione a due turni) le premesse di una sinistra competitiva, anche se per ora basata sulla semplice intesa con il M5S e con le altre sue formazioni e il seguire Renzi in un viaggio nel centro e nella destra da cui rischia di non uscire vivo.Ed è in questo ambito ristretto ma decisivo che dobbiamo valutare il ruolo di Letta. A prescindere, per favore, di quello che ha detto o fatto anni fa e da chi ha frequentato; così da capire quello che significa oggi la sua chiamata in soccorso. E rispetto a quale pericolo.Riassumiamo ora, per concludere, la posta in gioco e le opzioni alternative. E la probabilità che Letta condivida quelle giuste; unita alla possibilità, tutta da verificare, che riesca a farle passare.Giusto, anzi essenziale, rivendicare l’autorità del segretario, in un partito in cui il diritto di veto è esercitato da tutti e di continuo, soprattutto dai cacicchi locali e da personaggi esterni, tipo Calenda, che non hanno alcun titolo per rivendicarlo. Qui nessuno dei vari candidati di area comunista era, anche, lontanamente, in grado di svolgere questo ruolo. Mentre invece Letta è perfettamente consapevole che l’accettazione, anche tacita, di questo veto, sarebbe per lui rovinosa. Sulla necessità vitale di diventare alternativi, lo steso Letta è stato estremamente chiaro. Anche se la sua appartenenza alla sinistra didattica lo ha portato a citare due iniziative, oggi purtoppo fuori tema, solo perché indigeribili per il centro destra.Infine, il Nostro dovrebbe aver capito che l’opzione maggioritaria può essere accettata dai suoi futuri compagni di viaggio solo se non sarà più uno sgabello per garantire al Pd il controllo sui suoi alleati e, insieme, la libertà di movimento nei confronti degli altri.Certo, siamo lontani dal pentimento e da qualsiasi nuovo corso. Ma, almeno, ci si è fermati prima di cadere nell’abisso e cominciamo a guardarci intorno.Poi si vedrà.

gennaio 29, 2021

…. E se Gina non la pensasse come me?

Di Beppe Sarno

Il 13 gennaio 1921 il comitato esecutivo della terza internazionale inviava un telegramma alla direzione del Partito Socialista che si apprestava a celebrare il XVII° congresso nazionale.

Il telegramma firmato per la componente russa da Lenin, Bukarin, Trotsky, Lesowski, sulla  base delle considerazioni che in Italia più che in ogni altro  paese fossero maturi i tempi per una azione rivoluzionaria, nel condannare la frazione che faceva riferimento a Serrati, chiudeva il telegramma con la dichiarazione non negoziabile che “Il Partito comunista Italiano deve essere creato ad ogni modo” e concludeva “Abbasso il riformismo, viva il vero partito comunista italiano!”  e nel contempo si chiedeva l’espulsione della frazione guidata da Filippo Turati.

Con queste premesse è difficile pensare che il congresso potesse andare diversamente da come effettivamente si svolse. Era la terza internazionale che pretendeva la scissione. Il giorno successivo, 15 gennaio si riunisce il comitato dei comunisti unitari e Serrati tiene una lunga conferenza sulla situazione in Russia e sulle direttive della Terza Internazionale.

Il sedici gennaio si inaugura ufficialmente il XVII° congresso del partito socialista italiano.  Il Partito arriva a questo appuntamento diviso, confuso ed impotente incapace di scegliere tra la soluzione riformista e quella rivoluzionaria. La frazione comunista del Psi che aveva visto nell’occupazione delle fabbriche la premessa storica della rivoluzione proletaria nell’ottobre 1920 aveva elaborato a Bologna  un manifesto programmatico firmato da Bordiga, Gramsci, Terracini e Bombacci. Questo manifesto venne poi confermato ad Imola il novembre successivo e divenne il punto discriminante fra l’ala rivoluzionaria e quella riformista al congresso di Livorno.

Al congresso quattromila sezioni rappresentate salutavo il relatore ufficiale Giovanni Bacci. L’oratore ricorda che ricorre l’anniversario dell’insurrezione armata di Spartacus  e la ricorrenza della morte di  Rosa Luxemburg uccisa insieme a  Liebknecht, dai miliziani dei cosiddetti Freikorps, i gruppi paramilitari agli ordini del governo del socialdemocratico Friedrich Ebert.

E’ il tedesco Levi che accende la miccia della divisione. Ricordando la Luxemburg e Liebknecht afferma testualmente “Vi sono momenti in cui bisogna dividersi, chi è stato fratello oggi potrà non esserlo domani” e conclude il suo intervento dichiarando “il proletariato deve essere guidato da un partito comunista unico!”

Tranquilli nel portare il saluto della Federazione giovanile socialista afferma “oggi qui debbono essere bruciati i fantocci dell’unità!”

Per Graziadei l’esistenza delle condizioni per una lotta rivoluzionaria e l’impossibilità a far convivere in un partito l’anima socialdemocratica e quella comunista non può che portare ad una rottura per aderire alle tesi della terza internazionale.

Per evitare la scissione Serrati propone l’approvazione di venti dei ventuno punti posti dalla Terza Internazionale. L’ultimo punto quello che divenne lo spartiacque fra i comunisti ed il resto del partito fu l’espulsione dei riformisti di Turati e Matteotti. 

La relazione di Lazzari apre il terzo giorno del congresso ed è un invito all’unità. “La frazione che vuole la scissione contrappone socialismo e comunismo!” e  “La separazione che si vuole fare fra socialisti e comunisti è artificiale e artificiosa” Lazzari non dimentica di far osservare quanto possa essere dannosa una scissione che non sarebbe capita dagli operai e dai contadini. “Noi non abbiamo il diritto di distruggere tutto.” Di segno opposto la relazione di Terracini che afferma “il proletariato è pronto per la conquista del potere” e “Il partito socialista così come è congegnato non può compiere questa missione!”

Il 20 gennaio parla Amedeo Bordiga. Per Bordiga il riformismo è funzionale al capitalismo e quindi solo un’azione rivoluzionaria può liberare la classe operaia dall’oppressione capitalistica. In questo senso il partito socialista è incapace di sviluppare energie rivoluzionarie. Bordiga conclude il suo discorso affermando “A chi chiede cosa faremo noi rispondiamo che faremo ciò che fa Mosca …. non falliremo e prendiamo impegno di consacrare tutta la nostra opera alla lotta contro tutti gli avversari della rivoluzione, alla lotta per raggiungere l’ultima meta: la Repubblica dei Soviet in Italia!”

E’ Bordiga il regista della frazione scissionista, non Togliatti, che è rimasto a Torino, non Gramsci che non prende la parola durante il congresso.

Nella seduta pomeridiana è Turati a prendere la parola, con un discorso dal sapore antico e poco convincente parla e condanna la violenza come strategia per prendere il potere, ma in buona sostanza aspetta l’evolversi degli eventi.

Bombacci rivendicando la fedeltà alla Terza Internazionale parla di una scissione necessaria destinata a rimarginarsi dopo la rivoluzione imminente. Bombacci chiudendo il suo intervento dichiara “Usciamo dal partito, ma non dal socialismo, è’ la rivoluzione russa che ci chiama sotto la sua bandiera, perché l’opera dei soviet deve trionfare per tutta l’Internazionale.”

Il 21 gennaio la mozione unitaria vince il congresso non prima di un intervento ultimativo del delegato Kabaktchieff, il quale  comunica che qualora non si dovesse votare per la mozione comunista il partito socialista italiano sarebbe fuori dalla Terza Internazionale.

Infine Bordiga  invita la frazione Comunista, sconfitta dal congresso  a sbattere la porta e ad andarsene. «I delegati che hanno votato la mozione comunista abbandonino la sala. Sono convocati alle undici al teatro San Marco per deliberare la costituzione del Partito Comunista».

Nel comunicato conclusivo del congresso è scritto “Il Partito Socialista Italiano sostiene che la rivoluzione in Italia nelle forme violente e distruggitrici volute dal comunismo con l’immediata formazione di tipo russo  sarebbe destinata a crollare a breve scadenza ove mancasse la concorrente azione economica e politica del proletariato di alcuni paesi più ricchi durante l’immancabile precipitazione economica.”

L’articolo di fondo dell’Avanti del 22 gennaio analizza la scissione e le sue conseguenze. L’articolo presumibilmente firmato da Serrati afferma che la scissione è poca cosa difronte al più grave problema di capire “la posizione del proletariato dei vari paesi di fronte alla rivoluzione.” C’è da parte di Mosca la volontà di far precipitare “artificialmente” la situazione anziché analizzare gli avvenimenti. La scissione, denuncia l’articolo  “avvenuta per atto d’imperio….ed è stata come un fenomeno d’importazione” E conclude “ Così mentre il capitalismo sferra il proprio attacco, la Terza Internazionale, anche la dove non era necessario, provoca la scissura dei socialisti, spezza il movimento, scioglie le file di coloro che le creano, ….Questo è l’errore, errore pratico, politico del quale i compagni della Terza Internazionale si renderanno conto quando sarà loro dimostrato….che non si violenta la storia e non si provocano  artificialmente situazioni che non hanno la loro ragion d’essere nella realtà. “

“Non si violenta la storia! Frase potente e nello stesso tempo struggente.

Intanto arriva da Bologna la notizia che la camera del lavoro di Bologna e di Modena sono state incendiate dalle bande fasciste, nella mattina a Modena e la sera a Bologna sotto l’indifferenza delle forze dell’ordine. A Milano la libreria in cui si vendeva l’Avanti viene saccheggiata e distrutta. L’articolo si conclude con un appello all’unità “La scissione oggi nelle presenti circostanze è eminentemente reazionaria. Giova ai dominatori, spezza le reni al movimento di classe. Compagni restiamo uniti. E’ l’ora del pericolo.”

Mai allarme fu così fondato.

Il giorno successivo la direzione del Partito firma un appello ai lavoratori nel quale denuncia  che la scissione è avvenuta solo per la forte volontà dei rappresentanti della Terza Internazionale e dichiara che la scissione favorirà esclusivamente le forze reazionarie che già sono all’opera.

Lasciando il Teatro Goldoni gli scissionisti cantando l’internazionale si avviano verso il Teatro San Marco  dove viene celebrato il primo congresso del Partito Comunista “ Sezione dell’Internazionale comunista “ Fra tutti spicca la figura di Amedeo Bordiga capo effettivo del partito. Oggi si celebra il centesimo anno da quell’evento con grande e sospetta enfasi. La domanda che sorge spontanea è se quel partito nato al Teatro san Marco di Livorno è veramente il partito che oggi si celebra e soprattutto: fu vera gloria?  Veramente quella scissione era necessaria per il movimento dei lavoratori? Va detto che la scissione di Livorno non nasce per caso essa è solo la certificazione di una lacerazione profonda che si era andata creando all’interno dl partito Socialisti negli anni precedenti. A Livorno si arriva con un’Italia scossa da una profonda crisi economica  con una classe operaia che esce sconfitta dal biennio rosso. Nel 1917 il partito adottò un programma  come base della sua azione per il dopoguerra. Chiedeva il suffragio universale, era favorevole alla repubblica, proponeva un vasto intervento economico con la promozione di una serie di lavori pubblici e con la bonifica delle terre incolte. Il giovane Amedeo Bordiga, aveva appena 28 anni, denunciò questo programma  perché non si poneva il problema delle guerra. In realtà la sinistra di Bordiga, Bombacci, era decisamente rivoluzionaria  e contro la guerra, mentre l’ala destra del partito sotto la guida di Filippo Turati aveva appoggiato apertamente lo sforzo bellico.  Lo scoppio della rivoluzione russa entusiasmò la base del partito che si sentiva pronta per la rivoluzione, ma fra il dire e il fare……e  poi non va dimenticato che nel 1919 le gerarchie vaticane autorizzarono don Sturzo a fondare un partito cattolico, che ebbe grosse adesioni soprattutto nel meridione. Gli attori di quel momento erano i Socialisti,  cattolici, e la destra di D’Annunzio con Mussolini che cominciava a crescere  deciso a prendersi la rivincita sui socialisti che lo avevano cacciato. In questo contesto nel congresso di Bologna i socialisti si pronunciarono decisamente in favore dell’opzione rivoluzionaria. “In Italia è iniziato il il periodo rivoluzionario di profonda trasformazione della società, che conduce ovunque all’abbattimento violento del dominio capitalista borghese.” Le elezioni dovevano servire solo per “agevolare l’abbattimento degli organi della dominazione borghese. “Il Partito aderì alla terza internazionale definita “l’organismo proletario mondiale che tali principi propugna e difende,” Da una parte quindi la ricerca di un collegamento con la base operaia per preparare la rivoluzione e dall’altra il lavoro all’interno delle istituzioni primo fra tutti il parlamento per portare avanti una implacabile opposizione per rendere impossibile il funzionamento dello stato borghese. Al fascino per ciò che era avvenuto in Russia si contrapponeva la consapevolezza da parte della maggioranza del partito dell’impreparazione dei lavoratori a affrontare l’avventura rivoluzionaria. A Bologna Bordiga usci sconfitto, come uscirà sconfitto dal congresso di Livorno. Non a caso la CGL nel 1919 aveva approvato un programma per la ricostruzione postbellica che chiedeva la repubblica, l’abolizione del senato, la rappresentanza proporzionale, l’abolizione della polizia politica, l’introduzione del referendum, e il controllo della politica estera da parte del parlamento. In più si chiedeva l’istituzione di una costituente, la riforma agraria e il controllo dell’industria da parte dello Stato. Un bel pacchetto di riforme, insomma. Questo programma fu respinto dalla destra di Turati e dall’ala rivoluzionaria fautrice dell’abbattimento violento dello stato. Mentre le altre organizzazioni sindacali (USI e Confederazioni italiana del lavoro) erano variamente composte la CGL era composta in maggior parte da quadri socialisti. Intanto il fascismo cresceva e D’Annunzio occupava Fiume e a conclusione del biennio rosso Giolitti affermava “«Ho voluto che gli operai facessero da sé la loro esperienza, perché comprendessero che è un puro sogno voler far funzionare le officine senza l’apporto di capitali, senza tecnici e senza crediti bancari. Faranno la prova, vedranno che è un sogno, e ciò li guarirà da pericolose illusioni.»   Questa era la situazione quando si apre il congresso di Livorno e lo scontro fra le tre anime del partito: i comunisti puri, favorevoli all’espulsione dei riformisti, i comunisti unitari che volevano l’adesione al Komintern e accettavano la linea politica dettata da Mosca,  ma erano contrari all’espulsione dei riformisti e infine i concentrazionisti contrari ad ogni espulsione e che miravano a salvare l’unità del partito. La vittoria andò al gruppo più forte: il gruppo di centro. Sia Lazzari che Serrati si recarono a Mosca per negoziare ma inutilmente perché il Komintern comprendeva il pericolo di un partito autonomista. Il congresso di Livorno fu una sconfitta per tutti i lavoratori, divisi e disorientati ed indeboliti dalle scelte di Bordiga: non a caso alle elezioni del maggio 1921 i comunisti ebbero solo 13 deputati ed il PSI risultò indebolito. Insomma la scissione fu per coloro che la organizzarono un fallimento, ma tale fallimento purtroppo non coinvolse solo i velleitari scissionisti ma l’intero movimento operaio che vide infrangere i propri tentativi di resistere all’onda fascista che cresceva con lo sciopero generale dell’agosto 1922. Dopo l’agosto 1922 la forza dei sindacati e dei socialisti era infranta. Con l’espulsione di Turati, reo di essersi recato al  Quirinale per incontrare il re  per discutere del nuovo governo, ratificata dal congresso di Roma, l’intero movimento socialista divenne l’ombra   di quello che era stato pochi anni prima. Il 28 ottobre 1922 i fascisti marciano su Roma. Gli errori di una classe politica che ha preferito coltivare il sogno rivoluzionario ad una presa d’atto della situazione reale del movimento operaio furono riconosciuti dallo stesso Gramsci che nel 1923 come certifica Paolo Spriano nella sua storia del partito Comunista che scrive “Su questo aspetto è giunta presto un’autocritica da parte comunista . anche profonda perché non ha eluso il nesso tra la scissione e l’indebolimento della resistenza operaia all’offensiva dell’avversario di classe. Gramsci giungerà nel 1923 a collegare la vittoria fascista con il modo della scissione, ad annotare che non essere riusciti nel 1920/21 a portare l’Internazionale comunista la maggioranza del proletariato italiano è stato senza dubbio il più grande trionfo della reazione” e nel 1924 scriverà che da Imola fino a Livorno la frazione comunista si limitò “a battere sulle questioni formali di pura  logica, di pura coerenza e, dopo, non seppe, costituito il nuovo partito continuare nella sua specifica missione, che era quella di conquistare la maggioranza del proletariato.”  Se questo è vero forse è anche vero  riguardo al PSI quello che scrive Gramsci nel marzo 1921 quando afferma “ ora i socialisti, posti di fronte alla storia hanno confermato la loro incapacità ad organizzare la classe operaia in classe dominante.” E soggiunge “dopo il congresso di Livorno il partito socialista si ridusse ad essere un partito di piccoli borghesi, di funzionari attaccati alla carica come l’ostrica allo scoglio capaci di qualsiasi vergogna e di qualsiasi infamia pur di non perdere la posizione occupata.” A chi dice aveva ragione Turati rispondo che non è vero, come non è vero che aveva ragione Bordiga e forse aveva ragione Gramsci quando afferma che “il movimento politico della sinistra sia esso socialista che comunista non è riuscito ad organizzare i lavoratori  consentendo l’ascesa del fascismo.” Da una parte un partito sclerotico e arroccato su posizioni formali e dall’altra un partito settario gestito da Mosca. Quest’ultima considerazione ci porta a rispondere all’ultima domanda: quel partito nato al teatro S. Marco   è lo stesso partito di cui quest’anno si celebra il centenario? Molti compagni socialisti hanno risposto di no ed io mi sento di condividere questa interpretazione.  Il Partito nato a Livorno era il partito di Bordiga che “«definisce la classe, lotta per la classe, governa per la classe e prepara la fine dei governi e delle classi», ma aera anche il partito di Gramsci, entrato in carcere quando era il segretario del Pcd’I, e poi abbandonato a sé stesso. il partito comunista che abbiamo conosciuto è il partito di Togliatti che a Livorno non andò. E’ lo stesso Togliatti che ce ne dà testimonianza in una sua intervista pubblicata  su “Trent’anni di storia italiana – (Einaudi 1975 pp. 365 e segg.)”. In questa testimonianza il PCI viene presentato non più come il partito che come diceva Bordiga  di voler lottare per “ raggiungere l’ultima meta: la Repubblica dei Soviet in Italia!” Molto più realisticamente Togliatti  dice “nel nostro paese sono presenti oggi alcuni elementi di fondo, di natura democratica avanzata, i quali ci consentono di andare avanti e sperare meglio per l’avvenire: il regime repubblicano, ,una Costituzione dal contenuto politico e sociale avanzato, la presenza di grandi organizzazioni popolari e di massa.” Egli poi definisce il PCI come un partito di democrazia e progresso.” Questo partito di democrazia e progresso non può assolutamente essere considerato l’erede di un gruppo di scismatici irrilevanti. In riferimento alla monarchia Togliatti afferma che all’indomani della svolta di Salerno si domandò che fare, la risposta fu “La nostra risposta fu accantoniamo il problema, dichiariamo solennemente tutti uniti  che lo risolveremo quando tutta l’Italia sarà stata liberata e il popolo potrà essere consultato. Allora vi sarà un plebiscito, vi sarà un’assemblea costituente il popolo si libererà dell’Istituto monarchico e verrà proclamato quel regime repubblicano che era nelle nostre aspirazioni.” Il partito che  Togliatti disegna  rinuncia a a costruire la repubblica dei soviet e decide di combattere con le altre forze democratiche per  ricostruire l’Italia su basi democratiche. Ancor più chiaramente Togliatti afferma” Quali erano  i nostri obiettivi?  La guerra(contro i tedeschi n.d.r.), l’unità della nazione, un governo di unità.” E ancora “Eravamo repubblicani, volevamo liberare l’Italia dalla monarchia….che doveva avvenire, secondo noi per via democratica, attraverso una consultazione democratica del popolo ed un voto popolare.” Riferendosi alla svolta di Salerno Togliatti afferma  e queste sue affermazioni ci fanno comprendere ancora di più quanto fosse diverso il partito nuovo che Togliatti metteva in gioco che con il partito di Bordiga aveva in comune solo il nome “Nessuno conosceva più i partiti politici . Se ne era perduta, anche nelle masse popolari, la tradizione. Soprattutto poi quando si parlava di comunisti e socialisti era come parlare del demonio. Il veleno inoculato dal fascismo agiva ancora.” Venti anni di regime, le lotte partigiane, la repressione, l’esilio avevano abbattuto il muro che aveva diviso i socialisti e i comunisti e Togliatti parla dei due partiti come di una parte del movimento della sinistra   poteva essere coesa. Dice Togliatti “Dovevamo abbattere questa barriera, affinchè venisse compreso da tutto il popolo che cosa erano e sono queste forze popolari avanzate, che così eravamo e siamo noi comunisti, i socialisti il partito d’azione.” Questo atto di onestà intellettuale deve essere rimarcato ed apprezzato perché Togliatti, malgrado quello che poi è accaduto,  comprende che in una nazione lacerata dal fascismo, dalla guerra, dalla crisi economica, solo la solidarietà fra le forze politiche avanzate può portare l’Italia fuori dal Tunnel in cui Mussolini l’aveva portata. Continua Togliatti “ tra i sei partiti del CLN i socialisti e noi fummo in tutto questo periodo pienamente d’accordo, ed è questo un punto che intendo sottolineare, perché di grande importanza e perché oggi alle volte fa comodo dimenticarlo.” Per chiarire ogni dubbio circa il fatto che il PCI che si celebra in questi giorni non è nato cento anni fa ci viene in aiuto lo stesso Togliatti che afferma, rispondendo ad un funzionario americano presente in Italia all’epoca della svolta di Salerno “Molto modestamente invece gli feci osservare che noi lottavamo non per la Repubblica dei Soviet, ma perché l’Italia partecipasse alla guerra, cacciasse dal proprio territorio i tedeschi, distruggesse pienamente il fascismo e si costruisse niente altro che un regime democratico e repubblicano.” Il grande partito di massa che abbiamo conosciuto non ha nulla a che vedere con il gruppuscolo settario che provocò la scissione di Livorno. Grazie agli errori dei socialisti, che nel 1946 era ancora un partito di massa e alla capacità strategica di Togliatti quella saldatura fra i partiti popolari si incrinò con l’evolversi della situazione politica italiana per non mai più ricostituirsi. Oggi che i due più grandi partiti della sinistra non esistono più bisognerebbe domandarsi chi è perché, fingendo di ignorare la storia, ha dedicato tanto clamore mediatico a questo evento e perché costoro ignorano quel partito socialista che malgrado i suoi limiti ed i suoi errori subì la scissione di Livorno e malgrado ciò rimase per anni l’unico partito   a difesa dei diritti dei lavoratori e che nel ’46 era ancora il secondo partito italiano. Bisognerebbe anche domandarsi perché Amedeo Bordiga padre fondatore del PCI e leader indiscusso del partito per i primi anni della sua vita venne cancellato dalla storia del PCI ed oggi viene del tutto ignorato. Ricordo a me stesso che Gramsci aveva stima e simpatia per il comunista napoletano. Queste risposte andrebbero date perché ancora oggi ci sono tantissimi italiani che hanno creduto nel comunismo e che meritano rispetto per una vita di coerenza agli ideali che hanno perseguito. L’attualità senza il PCI e senza il PSI ci fa intravedere un’Italia travolta dalla crisi economica in cui una destra arrogante rappresentata dalla Lega di Salvini, dai postfascisti della Meloni e dal partito di Berlusconi riesce facilmente ad arginare le pretese di un partito che nato dalle ceneri della DC e del PCI costituitosi ad imitazione del Partito democratico americano. L’Italia non ha bisogno di festeggiare un centenario che non esiste se non nella mente di chi ha escogitato questo diabolico tranello. l’Italia che  non rinuncerà mai ad una democrazia faticosamente costruita deve essere vigile affinchè i demoni che la destra sta provando a risvegliare in Italia come nel resto del mondo non creino danni irreparabili all’impianto democratico nato dalla Costituzione. Al di là delle celebrazioni è la Costituzione “più bella del mondo” che va difesa provando a ricostruire una sinistra unita e coesa che non sia la pallida imitazione di sistemi politici che non ci appartengono.     .    
 
gennaio 20, 2021

EM.MA.

di Franco Astengo

La sinistra italiana è rimasta orfana anche di Emanuele Macaluso, strenuo combattente per i diritti dei lavoratori, a 18 anni segretario della camera del lavoro di Caltanissetta.

Essere segretario della Camera del Lavoro di Caltanissetta in quel 1944 con la Sicilia occupata dagli americani e il separatismo in piena azione anche militare, voleva dire porsi il compito di difendere gli zolfatari da uno dei livelli di sfruttamento più inumani mai registrati nella storia del movimento operaio italiano.

Non è certo questa la sede per ripercorrere il suo cammino politico, la sua coerenza riformista, le sue travagliate vicende personali.

Nel PCI si era sempre distinto per la chiarezza della posizioni e la determinazione nel sostegno alle sue idee con l’utilizzo di una scienza politica ben degna del rappresentare uno degli ultimi epigoni della tradizione togliattiana.

Macaluso lo si poteva contrastare (e la sinistra comunista lo contrastò molto vivacemente in diverse occasioni) ma non certo senza riconoscergli coerenza e profonda onestà intellettuale

Em.Ma (come firmava i suoi editoriali all’epoca della direzione dell’Unità) sostenne sempre con grande forza le ragioni dell’unità a sinistra pensando anche ad un approdo di compiuta socialdemocratizzazione del Partito.

Per questo motivo, pur aderendo alla svolta occhettiana, restò sempre in posizione critica ritenendo quel processo politico non solo incompiuto ma oscillante e generico nelle sue coordinate di fondo: così sviluppò, ad esempio, il suo intervento nell’occasione della presentazione alla Camera del “Sarto di Ulm” di Lucio Magri, da lui distante per posizioni politiche ma sicuramente accostabile nel senso della tenacia di una ricerca per una dimensione diversa non dogmatica nella presenza della sinistra non soltanto all’interno del sistema politico italiano ma anche sul piano della dimensione internazionale.

Un ricordo politico coerente per Emanuele Macaluso allora può essere portato avanti anche nel solco di quel tentativo di superamento delle divisioni storiche che abbiamo cercato di realizzare attraverso il “Dialogo Gramsci – Matteotti”.

Sicuramente lui non si sarebbe fermato al “aveva ragione questo” o “aveva ragione quello” e neppure si sarebbe arreso considerando la sinistra vittima di una “eterna dannazione” come si sta cercando di descrivere in questi giorni, nei pressi del centenario di Livorno.

Ricordiamo allora Emanuele Macaluso ribadendo i punti di principio sui quali abbiamo cercato di elaborare, proprio nel nome del dialogo Gramsci – Matteotti, una visione strategica per una nuova sinistra.

Da molto tempo la sinistra italiana ha bisogno di avviare un processo di vera e propria ricostruzione.

Alcuni punti fermi di una tale rifondazione sono a nostro avviso ben individuabili e costituiscono i presupposti fondamentali della possibile ripartenza:

1)   L’inutilità del mero assemblaggio delle residue forze esistenti e della stanca riproposizione di liste elettorali sempre diverse, ma immancabilmente votate al fallimento;

2)   la necessità di richiamarsi ad un patrimonio storico e culturale valido sia sul piano della teoria, sia su quello della dinamica politica, superando in avanti antiche divisioni;

3)   è ora di riavviare, senza anacronistici riferimenti a modelli passati (Bad Godesberg, Epinay, Primavera di Praga: tra l’altro tra loro del tutto diversi) l’elaborazione di un progetto originale che riparta delle contraddizioni e “fratture” fondamentali, incrociandole però con le nuove contraddizioni imposte dal presente. Se da una parte infatti non basta più da sola l’antica “contraddizione principale” fra capitale e lavoro, certo non si può neanche sbilanciare il discorso dall’altra parte, lasciando campo solo a temi pure urgenti come la questione ambientale, peraltro strettamente legata al modo di produzione, o una strategia dei diritti riorganizzata esclusivamente attorno alle questioni di genere. Occorre invece tornare a pensare insieme i due piani: materiale e immateriale, struttura e sovrastruttura, economia e diritto. Le faglie oggi definite “post- materialiste” devono stare dentro una strategia complessiva di trasformazione dell’esistente. Per dirla con Carlo Marx: “Non basta interpretare il mondo, occorre cambiarlo”;

4)   Strettamente connesso a quanto appena detto sui mutati rapporti tra economia e politica, finanza e modello sociale, tecnica e vita civile, è anche lo sfrangiarsi individualistico della società, ma soprattutto la crisi evidente della democrazia, palesatasi dopo il 1989. Allora la fine della Guerra Fredda lungi dall’aprire ad un’epoca di “noia democratica”, ad un mondo pacificato all’insegna del liberalismo/liberismo, aprì piuttosto all’epoca della “guerra infinita” ovvero a modelli equivoci detti di “democrazia del pubblico” o “democrazia recitativa”. Si aprì insomma un’epoca di tensioni planetarie potenzialmente antidemocratiche, fondate sulla scissione tra procedimento elettorale e partecipazione dei cittadini, con l’esercizio del potere popolare messo pericolosamente in discussione. Per questo la sua rifondazione è oggi più che mai una priorità per una nuova sinistra che voglia essere all’altezza delle sfide del tempo nuovo;

5)   della crisi di sistema appena richiamata sono indizio anche alcune pulsioni che pensavamo ormai accantonate, da quelle nazionalistiche, a quelle imperialiste, al ritorno di fantasmi quali il razzismo e il fascismo. Anche tutto questo ovviamente deve essere inquadrato nel contesto del mutamento delle dinamiche internazionali degli ultimi decenni. La fase presenta infatti elementi di emersione di nuovi livelli di confronto tra le grandi potenze e di profonda modificazione del processo di globalizzazione, così come si era presentato alla fine del XX secolo e, successivamente, nella fase della “grande crisi” del 2007. “Grande crisi” riaperta improvvisamente all’inizio del 2019 con l’esplosione globale dell’emergenza sanitaria. Un’emergenza che reclama sicuramente un vero e proprio “mutamento di paradigma” nelle coordinate strategiche di qualsivoglia ipotesi di cambiamento rivolta al recupero del senso dell’uguaglianza, così ferito nel corso degli anni;

6)   In questo senso non ci interessa costruire una sorta di Pantheon comune fra compagne e compagni che hanno vissuto passate divisioni e che invece oggi sono unicamente impegnati ad affrontarne sfide nuove ed inedite; molto più interessante semmai una ricerca in mare aperto su quelle che definiamo “linee di successione” rispetto ai grandi del pensiero e dell’azione politica di sinistra del ‘900.

Queste la ragioni di fondo della nostra riflessione che abbiamo voluto intitolare ai due grandi martiri dell’antifascismo.

L’occasione dolorosa della scomparsa di Emanuele Macaluso nella sua proposta di laica forza del pensiero ci sembra proprio da cogliere per portare avanti il senso complessivo di questa nostra proposta di riflessione.

dicembre 12, 2013

Gramsci vota Brunetta.

gramsci-renzi-il-manifesto

Ancora su Renzi e le primarie del Pd. La vignetta è per il manifesto di oggi.

ottobre 30, 2013

Gramsci, tradito da Togliatti ebbe Lombardi come tutor

 

Gramsci, tradito da Togliatti ebbe Lombardi come tutor

Il Migliore, Palmiro Togliatti, lo tradi’, non fece nulla per liberarlo anzi, insieme ai compagni di partito, ostacolo’ ogni iniziativa volta a ottenere dal Duce la liberta’ condizionata e poi, dopo la Liberazione, sfrutto’ la sua immensa opera teorica dei Quaderni del carcere per proporre da unico interprete ‘la via nazionale al socialismo’ restando sempre ‘staliniano’. Viceversa, Linge o l’Inge, cioe’ l’Ingegnere acomunista Riccardo Lombardi, gli fece da ‘tutor’ affiancando ed aiutando la cognata russa Tatiana Schucht nell’assistenza all’illustre compagno finito in carcere nel 1926. E’ quanto sostiene nel libro appena uscito per Marsilio Editori, ‘Il tradimento, Gramsci, Togliatti e la verita’ negata’, il docente di Storia Contemporanea all’Universita’ di Camerino, Mauro Canali che svela, a 76 anni dalla morte, il 27 aprile 1937, di Antonio Gramsci, “la sapiente opera di adattamento con cui il Pci ha costruito il mito della continuita’ Gramsci-Togliatti” e, per la prima volta, chi si nascondeva realmente dietro il nome di battaglia ‘l’inge’ o ‘linge’ o ‘l’ingegnere’ che torna frequentemente tra le carte del Partito comunista alla fine degli anni ’20. “E’ l’intoccabile Riccardo Lombardi prima vicino al gruppo di Guido Miglioli poi azionista quindi socialista – dice Canali – che all’epoca partecipa attivamente alla lotta antifascista: e’ un ‘compagno di strada’ di tutti gli antifascisti e anche dei comunisti, senza mai aderire al Pci. Di lui tutti hanno il numero di telefono per ogni evenienza: a Milano dove lavora ha un’unita’ operativa per l’espatrio, il depistaggio, la protezione dei ricercati”. Amico dell’avvocato Giovanni Ariis che si occupa dei ‘compagni’ finiti nella rete della polizia fascista o dell’Ovra, e dei comunisti milanensi, Lombardi, conosce a Milano la cognata di Gramsci, Tatiana, pochi mesi dopo l’arresto, e le fa da intermediario con i compagni comunisti. Non solo, ma entra in contatto anche con Piero Sraffa, l’economista della Bocconi che seguira’ anche lui dall’esterno il grande e prezioso prigioniero. “Lombardi poi e’ molto amico di Romano Cocchi che in quel momento e’ responsabile di Soccorso Rosso: e’ quindi probabile che si presti alla funzione di assistere Gramsci su indicazione o pressione di Cocchi”, aggiunge Canali. “Tatiana restera’ fedele e seguira’ sempre Gramsci: dopo la morte tornera’ a Mosca e con la sorella Giulia, moglie di Antonio, segnalera’ ai dirigenti del Pcus le manchevolezze di Togliatti ed i sospetti di Gramsci sul doppiogiochista Togliatti, mentre Sraffa cambiera’ idea ed opinione rispetto a Togliatti: fatto sta che Tatiana la spunta e Togliatti-Ercoli viene tolto da posti di responsabilita’ e gli viene affidata solo la propaganda per l’Italia”. Il tradimento di Togliatti verso Gramsci e’ duplice: inizia nel ’26 quando Gramsci a differenza di Togliatti non condivide ‘il metodo’ staliniano di repressione fisica e psichica del dissenso per arrivare alla ‘famigerata lettera’ spedita da Mosca e fatta recapitare in carcere a Gramsci nel ’28 prima del processo. “L’istruttoria finisce il 20 febbraio, la famigerata lettera di Grieco con tanto di francobollo russo arriva l’11 febbraio a San Vittore: come si fa a sostenere che essa non poteva far male? Ha nuociuto eccome a Gramsci, come gli disse il procuratore Macis! Perche’ Gramsci sospetta di Togliatti? Perche’ di lui non fidava, sin da quando, nel ’23, per isolare Bordiga, lui lavora per il centro e Togliatti non ha ancora deciso se mollare Bordiga: e di questa indecisione  Gramsci si lamenta con Leonetti: l’Ercoli ancora una volta subisce le personalita’ vigorose! Poi altri gravi espisodi, come la propaganda dell’Humanité sulla sua malattia ed i contrattempi sulla concessione di liberta’ condizionata, se non direttamente, non possono non vedere la presenza e la mano di Togliatti: non a caso Gramsci aveva sempre pregato Tatiana di non svelare mai i suoi intendimenti”. E dopo la Liberazione, ecco il secondo tradimento: tornato in Italia, Togliatti usa, sfutta, manipola, abilmente la straordinaria opera teorica di Gramsci per accreditare ‘il partito nuovo’ e per proporre ‘la via nazionale al socialismo’ elaborata in carcere da Gramsci il quale, conclude Canali, “ha una posizione molto laica, a differenza di Togliatti che non ci pensa due volte a votare l’art. 7, cioe’ il concordato che per Gramsci e’ la capitolazione dello Stato. E, a differenza di Gramsci, Togliatti restera’ sempre staliniano di ferro: basti pensare al ’56, all’invasione sovietica dell’Ungheria o al silenzio, nonostante il XX Congresso del Pcus: chissa’ come sarebbe andata la storia del Pci se non avesse avuto lo straordinario Gramsci alle spalle!”.

gennaio 6, 2013

Ascanio Celestini Gramsci non farebbe così.

aprile 27, 2012

Odio gli indifferenti!

Decia Gramsci Odio a los indiferentes. Creo que “vivir significa tomar partido”. No pueden existir quienes sean solamente hombres, extraños a la ciudad. Quien realmente vive no puede no ser ciudadano, no tomar partido. La indiferencia es apatía, es parasitismo, es cobardía, no es vida. Por eso odio a los indiferentes. La indiferencia es el peso muerto de la historia. Es la bola de plomo para el innovador, es la materia inerte en la que a menudo se ahogan los entusiasmos más brillantes, es el pantano que rodea a la vieja ciudad y la defiende mejor que la muralla más sólida, mejor que las corazas de sus guerreros, que se traga a los asaltantes en su remolino de lodo, y los diezma y los amilana, y en ocasiones los hace desistir de cualquier empresa heroica…