Archive for febbraio, 2021

febbraio 28, 2021

La scuola negata.

Di Beppe Sarno

L’immaginifico Governatore della Campania Vincenzo De Luca, ha deciso di sospendere l’attività didattica in presenza per tutte le scuole di ogni ordine e grado e delle Università dal 1° marzo al 14 marzo.

Da quando è iniziata la pandemia, cioè da oltre un anno, gli studenti campani hanno sostanzialmente dimenticato la strada che porta alla scuola. Didattica a distanza  e altri palliativi che di fatto sottintendono la rinuncia da parte del nostro Governatore alla funzione educativa che è compito fondamentale dello stato. Una società civile  consapevole della funzione prioritaria della scuola e della cultura dovrebbe porsi il problema di come risolvere il problema di garantire ad inseganti e ad alunni la frequenza all’attività didattica senza correre il rischio di contrarre il contagio. Assistiamo invece al fenomeno opposto: in attesa dei vaccini che camminano a rilento si continua a negare il diritto allo studio. Questa battuta d’arresto, questa rinuncia dello Stato ad assolvere uno dei compiti fondamentali che una società civile è chiamata a risolvere ha prodotto e produrrà nel tempo danni incalcolabili non solo ai giovani cui viene negato il diritto allo studio ma anche alla intera collettività. A insegnati malpagati, per lo più qualunquisti, distratti ed arrabbiati aggiungiamo questo deficit di cultura che peserà molto sulla maturazione dei giovani che stanno vivendo questa allucinante esperienza.

Il comportamento  di de Luca fa il paio con le dichiarazioni di Draghi che ha ipotizzato una scuola di classe. La didattica a distanza è stato sottolineato dai più che non è una soluzione come non è la soluzione la proposta di allungare il calendario scolastico. Il problema è invece come restituire ai giovani quest’anno di mancata conoscenza perché quest’analfabetismo di ritorno si tradurrà negli anni a venire in un analfabetismo civico. La cosa è ancora più grave perché ciò avviene in una regione del mezzogiorno e che determinerà un ulteriore allontanamento dalle prospettive che hanno i giovani del Nord dell’Italia rispetto ai giovani del sud del nostro paese.

Le scelte del nostro governatore di chiudere le scuole invece di provvedere ad una vaccinazione di massa determinerà quell’analfabetismo pericolosissimo di cui lui soltanto  sarà il responsabile senza pagarne però il prezzo, che invece si abbatterà sui soggetti passivi di queste scelte. Basta accendere un televisore o andare sui social per rendersi conto che i giovani vivono coperti da una fitta nebbia che determina quel populismo che mette in dubbio la stessa democrazia.  Forse uno dei più gravi problemi che viviamo  è proprio quello di diradare quella nebbia che ha trasformato i cittadini in sudditi inconsapevoli e la classe politica in una oligarchia infallibile.

Gli studenti di oggi saranno i cittadini di domani, ma per  buona parte dei cittadini della Campania grazie ai disastri del populismo di De Luca saranno lasciati indietro ed a loro sarà più difficile se non impossibile prendere quello che viene definito l’ascensore sociale.

In un bel libro di Ernesto Galli della Loggia dal titolo “L’aula vuota” vengono denunciati i mali della scuola italiana sempre riformata da una classe politica indifferente se non ostile alla scuola, ma che di fatto ha distrutto la scuola vista unicamente come un serbatoio d’occupazione per sé e di promozioni a buon mercato per i suoi figli.

Se a questa scuola così disastrata aggiungiamo la criminale  ostilità del governatore  De Luca alla scuola ed all’insegnamento quelli che oggi chiamiamo i  cittadini di domani andranno ad allargare schiere di disoccupati osannanti del Salvini o della Meloni di turno perché, come disse Emma Goldman: «L’elemento più violento della società è l’ignoranza».

febbraio 13, 2021

10 FEBBRAIO 1936 IL GENOCIDIO ITALIANO DI AMBA ARADAM!

un episodio dimenticato quello avvenuto sull’altopiano etiope di Amba Aradam. Nella memoria è rimasta solo una parola che storpiando leggermente il nome del luogo di battaglia, significa confusione: è successo un ambaradan. Un capolavoro della propaganda fascista. La parola nacque poiché in quello scontro regnò il caos: gli italiani si accordarono con tribù, che andarono poi ad allearsi con le truppe abissine, per poi riallearsi con i fascisti, rendendo la battaglia assolutamente confusa.Nel 1929 il duce decise di far tornare il paese ai fasti dell’impero e l’Italia prese la rincorsa per eguagliare un piccolo posto nel mondo colonialista europeo. Tra i paesi rimasti a disposizione, la debole e arretrata Etiopia sembrava perfetta per il ridicolo e mal equipaggiato esercito italiano. Nel 1935 il duce decide quindi di far partire la campagna contro i “selvaggi” guidata da Pietro Badoglio.Le atrocità che i soldati italiani compirono sulla popolazione etiope sono innumerevoli, tra torture, stupri di “belle abissine”, teste di nemici tagliate ed esposte sulle strade e molto altro, tra cui l’episodio della battaglia di cui oggi ricorre l’anniversario sull’altura di Amba Aradam.Qui vi si rifugiarono circa 20.000 etiopi in fuga dalle razzie dei fascisti “brava gente”, guidati da Mulugeta. La compagnia italiana certa della vittoria, salì con sicurezza il pendio, ma un attacco in salita è difficile anche contro sassi, e qualche fucile di chi sta proteggendo con tutte le sue forze e la determinazione che ha in corpo, le proprie donne e bambini che si erano rifugiati nelle grotte del monte.L’incredibile resistenza durò ben una settimana, fino al 17 febbraio quando a seguito degli aggiornamenti dall’Africa, Mussolini in persona rispose chiaramente: “Dovete stanarli”.E fu così che in completa violazione della Convenzione di Ginevra, gli italiani usarono i gas e le armi chimiche. L’aviazione italiana utilizzò su larga scala il gas iprite, spargendolo a bassa quota, con lo scopo di terrorizzare sia i soldati che i civili e piegarne ogni resistenza, mentre le truppe italiane a terra lanciavano con l’artiglieria proiettili al fosgene e arsina.Sopravvivono non si sa come, 800 donne e bambini che vennero fucilati sul posto; Altre 1.500 persone, in maggioranza bambini che si erano nascosti nelle profonde grotte, vengono stanati e bruciati vivi con i lanciafiamme. A fine battaglia si contarono tra gli italiani 36 ufficiali e 621 soldati morti, 143 morti locali alleati con gli italiani, e oltre 20 mila morti etiopi.Fu un massacro tremendo, dimenticato per quasi 70 anni quando uno studente universitario di storia scopre in un faldone impolverato in un ufficio anonimo di Roma la vicenda, e la riporta alla luce.La propaganda fascista nascose ovviamente tutte le atrocità, dai gas, al massacro, alla tortura, le fucilazioni, le gole squarciate, le impiccagioni di donne e bambini, delle gambe e le braccia strappate dal corpo, le teste mozzate, le persone bruciate vive e chissà che altro successe in quegli anni di colonizzazione fuori tempo massimo. Le sofferenze in Etiopia proseguirono fino al 1941 sotto il comando di Rodolfo Graziani che venne inserito nella lista dei criminali di guerra per violazione dei diritti umani (vedi il caso di Debre Libanos e il massacro di Debra Brehan).Per concludere, è bene avere presente l’etimologia della parola Ambaradan. Perché nel nostro paese non vogliamo riconoscere l’orrore che abbiamo seminato e così, cosa avremo mai fatto? Abbiamo fatto un ambaradan! Quando, ogni volta che entriamo in un posto disordinato, diciamo: “Che ambaradan che c’è qui!”…è un po’ come se un tedesco entrasse in casa nostra e dicesse: “Però, che Auschwitz che c’è qui!”

febbraio 10, 2021

La vera storia della spada nella roccia.

Nel 1148 in un paese vicino a Siena chiamato Chiusdino, nasce Galgano Guidotti.

I suoi genitori, dopo anni di matrimonio e di sterilità, desideravano da molto l’arrivo di un figlio. Alla ricerca di un miracolo si recarono in pellegrinaggio alla Basilica di San Michele sul Monte Gargano, in Puglia.

E’ stato molto probabilmente grazie a questo viaggio che i suoi genitori decisero di dargli il nome di Galgano, in onore del luogo sacro visitato.

Una volta cresciuto il fanciullo diventa cavaliere, ma nel frattempo segue una vita abbastanza dissoluta e libertina. Era un ragazzo violento, ed il suo desiderio era quello di puntare ad una vita di divertimenti e di piaceri.

Le visioni dell’arcangelo Michele

Nel 1180 Galgano però sceglie di cambiare vita, rimasto colpito da due diverse visioni dell’arcangelo Michele. Nella prima visione San Michele gli confida che vuole fare di lui un Cavaliere di Dio. Nella seconda gli mostra il suo nuovo percorso di vita sotto la sua protezione.

Galgano di conseguenza, mette in discussione la sua esistenza di uomo, decidendo di dedicarsi interamente alla vita religiosa ed a Dio vivendo da eremita.

Per simboleggiare questa sua decisione Galgano impugna la spada che aveva ricevuto dopo esser divenuto un cavaliere, e la conficca in una roccia. Pregò poi davanti all’elsa, che si erge nella roccia come una croce.

Negli anni seguenti Galgano viene conosciuto per i suoi miracoli, morendo il 30 Novembre 1181 a Chiusdino.

Viene immediatamente beatificato, e nel 1185 viene proclamato da Papa Urbano III come Santo.

La vera spada nella roccia

L’abbazia di San Galgano, Chiusdino

Il Culto di San Galgano e di San Michele

Dopo essere stato proclamato Santo, San Galgano ed il suo mito si diffusero rapidamente, specialmente nel contesto cavalleresco. Nacque di conseguenza anche un’ adorazione ed un culto religioso per questo personaggio.

Così come nel mito l’arcangelo San Michele, un angelo guerriero e protettore, è sempre rappresentato con la spada sguainata accanto al Santo Galgano.

Il loro culto era particolarmente intenso e diffuso in tutto il Medioevo, presente nella vita dei guerrieri e dei combattenti dell’epoca. Un esempio sono i Longobardi ed i Franchi che esprimevano la loro devozione attraverso pellegrinaggi e riti, oltre che nella costruzione di chiese come Mont Saint-Michel in Francia, e sulla monetazione o negli stendardi.

Le indagini scientifiche su la spada nella roccia

Sono state condotte anche delle proprie e vere indagini scientifiche per analizzare l’autenticità di questa storia. I ricercatori delle Università di Pavia, Siena, Padova e Milano hanno confermato che l’elsa che emerge dalla roccia appartiene a una vera spada, realmente conficcata nella roccia.

Anche confrontando la cronologia della vita del Santo Galgano con le opere del ciclo arturiano realizzate dopo la morte di questo personaggio, si può facilmente ipotizzare che la sua storia sia stata la vera fonte ispiratrice della leggenda del re Artù.

Questo finché, nel 2011, una ricerca effettuata da Luigi Guarleschelli dell’Università di Pavia ha dimostrato le origini medievali dell’arma. La sua composizione metallica non mostra un uso di leghe moderne, ed il suo stile è perfettamente compatibile con quello di una spada del XII secolo.

Le Reliquie rimaste

Le testimonianze non sono molte; la maggior parte delle tracce sono andate perdute o distrutte col tempo. Ciononostante, la chiesa di San Michele di Chiusdino conserva il teschio della testa di San Galgano. Il Museo dell’Opera del Duomo di Siena tiene esposto invece un reliquiario del XIV secolo, usato in precedenza per custodirla. Lo stesso museo, inoltre, possiede il pastorale degli abati di San Galgano.

Molti pittori famosi, quali ad esempio Domenico Beccafumi, il Sodoma, Bartolomeo Bulgarini, Ventura Salimbeni, hanno rappresentato in diverse opere ed occasioni episodi San Galgano.

Nel 1268, fu consacrata l’Abbazia di San Galgano che visse un secolo di completa e ricca prosperità, prima di andare lentamente in declino.

Ciononostante, San Galgano è tutt’oggi venerato come Santo dalla Chiesa cattolica e la sua spada è ancora conficcata nella roccia. Quest’ultima è possibile trovarla nell’eremo che porta il suo nome, ed è divenuta una meta di curiosi e di devoti cattolici.

La sua narrazione è un simbolo forte di religiosità, e la sua spada è diventata uno strumento di pace e di speranza

febbraio 10, 2021

La storia di Leone Jacovacci.

La storia di Leone Jacovacci è l’esempio lampante di come un atleta, nel suo caso, non sia stato riconosciuto in quanto Italiano, complice l’ostracismo Fascista, e di come la questione della Cittadinanza non sia mai stata affrontata seriamente ed approfonditamente.

Jacques Lutondo

Leone Jacovacci nacque dalla lunga scintilla d’amore accesasi tra un agronomo italiano e una ragazza della Repubblica Indipendente del Congo di nome Babuendi, dove Leopoldo II, re del Belgio, stava approntando uno sterminio immane della popolazione indigena.Era il 1902, secondo i documenti ufficiali, ma è plausibile che il reale anno di nascita di Leone sia il 1900, a causa del ritardo nel censimento anagrafico molto frequente in quell’epoca e a quella latitudine. Leone nacque a Sanza Pombo, capitale dell’allora Regno del Congo. Nel 1905 i genitori presero la decisione di far crescere il figlioletto in Italia, lontano da un Congo sempre più preda degli umori da sterminio del monarca belga e così Leone fu spedito a vivere con i nonni paterni, nel frattempo trasferitisi a Viterbo per salvaguardare il bimbo dagli sguardi sprezzanti della Roma borghese del tempo.Con grandi difficoltà d’integrazione, non favorita da compagni di classe e insegnanti, Leone giunse alla licenza elementare, vide morire la nonna e ritornare in patria il padre; la madre morì in Congo, senza che egli la potesse più riabbracciare.Nel 1916, stanco di un paese che non lo accettava e, forse, sentendo il richiamo esotico dell’esplorazione, Leone prese il mare a Napoli, come mozzo di bordo.Nel 1919, mentre vagabondava per Londra, un organizzatore d’incontri da luna park, notata la scultoria prestanza fisica, gli propose un combattimento da disputarsi nella serata, che prevedeva lo scontro tra un bianco e un nero. Leone accettò senza essere mai salito sul ring prima d’allora.Così ebbe inizio la carriera da pugile di Leone Jacovacci il quale, nel frattempo, aveva cambiato il proprio nome in John Douglas Walker, soldato afro-britannico, prima, e in Jack Walker, pugile afro-americano, poi.Con le prime generalità si era arruolato nell’esercito britannico, nel 1917, combattendo sul fronte russo, mentre con il secondo nome aveva appena dato inizio alla sua storia di campione del ring.Confinato in incontri periferici dall’impossibilità per i neri di combattere ad alto livello, Leone diede nuovamente ascolto al proprio spirito nomade, decidendo di attraversare la Manica per raccogliere la sfida dei ring francesi. Nel paese transalpino conobbe fama e agiatezza grazie ai tanti trionfi; la sua falsa identità, però, pesava come un macigno sul suo incerto futuro.Nel 1925 stupì il mondo del pugilato con la propria confessione: il pugile afro-americano Jack Walker era in realtà Leone Jacovacci, di padre Romano e madre Congolese, cresciuto a Viterbo ed educato in un collegio capitolino.Il suo accento trasteverino era già stato carpito da molti spettatori del bordo ring, durante gli incontri sostenuti a Milano, a quel tempo capitale europea della boxe.Se il pubblico accolse favorevolmente un nuovo grande campione, i burocrati, come oggi peggior espressione del paese, fecero forte ostruzionismo al suo tesseramento da pugile italiano.Il 16 ottobre del 1927, il campione milanese Mario Bosisio, che aveva raccolto la sfida di Jacovacci per il titolo italiano, vinse ai punti una sfida che, a detta di moltissimi spettatori e giornalisti, aveva perduto: il colore della pelle precludeva a Leone un traguardo meritato e raggiunto a tutti gli effetti.Sei mesi più tardi, questa volta a Roma, Leone Jacovacci dominava la rivincita con Bosisio, che in palio aveva anche il titolo europeo dei medi.Il braccio alzato del pugile italiano Nero che non figura in alcuna foto ufficiale dell’incontro, fu uno smacco ai serpeggianti sentimenti razzisti dell’Italia coloniale.La Gazzetta dello Sport, il giorno successivo, paventò dubbi sull’opportunità per l’Italia di essere rappresentata da lui, ferendo profondamente l’atleta che aveva meritatamente vinto sul ring. Per altri due anni, i grandi successi di Leone furono stravolti dai verdetti di giudici accecati dalle direttive di un’Europa tendente all’ingiustizia e all’iniquità. In anticipo sulle leggi razziali, Leone si trasferì nuovamente in Francia, terminando la propria straordinaria carriera dopo 155 incontri. Fino alla fine aveva risposto alle chiamate al combattimento di tutta Europa, ma il distacco della retina rendeva un supplizio ogni match.Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Leone Jacovacci tornò a chiamarsi John Douglas Walker e raggiunse l’Inghilterra allo scopo di arruolarsi nel vecchio battaglione per dare il proprio contributo contro il dilagare del nazismo.Con la sconfitta dei tedeschi entrò da fante britannico in Italia, a Milano, adoperandosi per l’aiuto dei molti profughi creatisi col caos bellico.Con spirito di sostentamento, nei duri anni del dopoguerra, si dedicò al wrestling per i teatri meneghini, facendo sempre onore, sebbene più che sessantenne, alla propria grande combattività.Senza tante cerimonie, il campione d’Italia e d’Europa dei pesi medi cadde nel dimenticatoio.Silente e solitario portiere di uno stabile di via Ghibellina a Milano, arrivò al crepuscolo della propria vita in povertà e gravemente malato di cuore. A più di 80 anni d’età, il grande spirito battagliero di Leone Jacovacci si spense nel silenzio che spesso accompagna gli uomini più straordinari, il 16 Novembre del 1983.Di lui restano poche immagini, nessuna proprietà, ma ne è palpabile l’esempio di uomo caparbio, mai arresosi alle prevaricazioni di una società che non lo ha mai riconosciuto, né nelle sue vittorie e né come cittadino Italiano, problema quello della Cittadinanza che sino ad ora non si è mai affrontato in maniera seria ed approfondita ai livelli politici.

febbraio 7, 2021

.. ed ho trovato l’invasore!

Di Beppe Sarno

Con l’avvento del Governo Draghi quale che sia quello che succederà e quali saranno le soluzioni che verranno date ai problemi, che invece esistono, nessuno può negare che la caduta del governo Conte-due è stato  l’epilogo, di un lungo periodo nel quale la gestione della cosa pubblica è rimasta affidata ad una maggioranza che non ha portato quel contributo che tutti ritenevano necessario ed impellente alla soluzione dei problemi sociali economici e di salvaguardia dell’ambiente della società nazionale quali contrasto della disoccupazione, rilancio del sistema produttivo, livellamento delle differenze regionali esistenti, miglioramento del tenore di vita e soprattutto soluzione dell’emergenza sanitaria.

E’ certo che i governi che si sono succeduti negli ultimi trent’anni, inchinati pedissequamente al dettato dell’Europa e della BCE di cui Draghi era il dominus indiscusso nulla hanno fatto per una ricostruzione economica e sociale dell’Italia, con la conseguenza del permanere degli enormi squilibri economici e sociali nell’organismo nazionale.

Perdita di sovranità, concessione di enormi spazi ad organismi internazionali, rinuncia di funzioni strutturali dello Stato, questo il bilancio di un governo nazionale sempre teso alla conservazione del potere senza alcun supporto programmatico che ha prodotto il risultato di un indebolimento del sentimento democratico.

Il quadro che se ne ritrae è impressionante ed angoscioso per chi ha ancora a cuore la democrazia, la difesa dei diritti sociali ed economici conquistati con anni di lotta dei lavoratori.

Tutti osannano l’avvento di Draghi come il salvatore della patria, come se Draghi avesse in tasca la soluzione di problemi che esistono da sempre e che le scelte politiche passate hanno solo aggravato. Bisogna però riflettere sulla circostanza che quei partiti che oggi si preparano a sostenere Draghi sono gli stessi partiti che oggi occupano tutte le cariche più alte dello Stato.

Abbiamo potuto constatare che i più alti posti di responsabilità delle magistrature sono affidati a uomini compromessi con il potere come il caso Palamara ha disvelato.  I partiti al governo che si apprestano ad appoggiare Draghi controllano l’attività di tutti i ministeri, e tutta la vita della Pubblica Amministrazione attraverso i legami con l’apparato burocratico dello stato. Hanno a propria disposizione il potere dei Prefetti e della Polizia.

Tutto questo osannare Draghi da parte dei mass media dimostra come la stampa, i social, la televisione non sono altro che strumenti di penetrazione culturale ed ideologica e di propaganda politica. Alcune sere fa bruno Vespa ha dedicato un’intera trasmissione a Giorgia Meloni. Giorgia Meloni!

In questo pantano la classe politica legittima se stessa legandosi sempre più con i rappresentanti di un sistema finanziario internazionale: banche, fondi di investimento, settori confindustriali  e si alimentano della peggiore tradizione di corruzione e malversazione della nostra Repubblica. Ogni giorno dirigenti di partito vengono arrestati per fatti corruttivi legati al sistema degli appalti, dei favori, degli affari, del sottogoverno.

Così la cosa pubblica che dovrebbe essere votata al “bene comune” di fatto diventa mero strumento degli interessi privilegiati del capitale privato.  Ne è prova la privatizzazione della sanità realizzata dai Presidenti delle regioni in dispregio del dettato costituzionale.

Il Presidente della Repubblica ha chiamato Mario Draghi ad assumere la carica di presidente del consiglio dei Ministri. Le consultazioni sono iniziate, ma non si sa al momento quale sia il progetto politico economico del futuro premier.

Sappiamo però  quello che è stato Draghi e quello che ha fatto. IL Supermario non è un servo sciocco del potere, egli  è invece un ideologo del liberismo; egli è il potere e lo è sempre stato coerentemente fin da quando ha difeso le sue scelte quando era nel 1994 al ministero del Tesoro.

Draghi è stato uno dei teorici delle privatizzazioni iniziati da Prodi e D’Alema e perseguiti accanitamente dal Berlusconi quando divenne Presidente del Consiglio.

La longa manus di Draghi intervenne nell’operazione di acquisto della Antonveneta da parte del Monte dei Paschi di Siena. Monti con i soldi degli italiani pagò il conto. Infine Draghi è uno dei responsabili del massacro finanziario della Grecia.

Draghi farà quello che ha fatto sempre e traferirà la sua concezione dello Stato in materia di giustizia, legalità, sicurezza, ambiente, pensioni, precarietà del lavoro, spesa militare, istruzione, sanità, immigrazione, natalità, diritti civili, diplomazia estera, rapporti con la UE, spesa pubblica, stato sociale, agricoltura, OGM, ambiente, energia, infrastrutture, grandi opere. Non c’è da stare allegri!

Un sinistra che non esiste avrebbe il dovere di contrastare tutto questo, di combattere questa deriva reazionaria in cui rischiamo di precipitare.

Cosa serve per un programma socialista per contrastare tutto questo?

Bisognerebbe farsi carico di un programma di risanamento e di incivilimento del Paese usando un linguaggio non più omologato a quello corrente. E’ necessario parlare alla gente di  una rivoluzione culturale, qualcosa che si avvicini sempre più ai problemi concreti di ogni giorno e cioè tutti quei problemi che fanno sentire le persone disperate: ambiente, sanità, lavoro, giustizia nei termini indicati dalla Costituzione..

A che serve parlare di “debito buono” quando le fabbriche chiudono, gli operai vengono licenziati e i disoccupati nel mezzogiorno d’Italia raggiungono cifre intorno al 50% e le donne e i giovani non hanno nessuna speranza di vedere un futuro diverso.

Draghi ucciderà la speranza di milioni di lavoratori fra l’indifferenza generale con i media che ne esalteranno le gradi doti di uomo delle istituzioni.

febbraio 1, 2021

INCERTEZZA E PROVVISORIETÀ’

di Franco Astengo

Il congresso di Sinistra Italiana, svoltosi in questi giorni in modalità online, può forse essere riassunto con due parole: quella dell’incertezza, termine usato dal segretario Fratoianni nelle sue conclusioni e quello della provvisorietà evocato da Luciana Castellina (Luciana ha usato “provvisorietà” ricordando il Pdup, ma aggiungendo opportunamente che in quel tempo c’era il PCI..).

Tra incertezza e provvisorietà corre una diversità di significato.

Una diversità da ricordare non casualmente: incertezza significa che l’orizzonte non appare e che, se di transizione si tratta, ci si trova ancora al centro del tunnel (considerato che si sia stati capaci di riconoscere di trovarsi in un tunnel); provvisorietà dovrebbe voler dire che la transizione ha davanti a sé una meta.

In particolare in politica se si è provvisori è perché si dispone di un progetto sufficientemente compiuto e la questione da affrontare risiede nell’individuare le tappe da percorrere per raggiungerlo: nell’incertezza questo non avviene.

Fin qui, beninteso, siamo all’abc: si tratta però di inoltrarci in un difficile cammino di interpretazione e di proposta.

Nelle scorse settimane abbiamo assistito a un grande dibattito e a una serie imponente di iniziative editoriali al riguardo del centenario del congresso di Livorno e della fondazione del PCI.

Uno sviluppo di attività memorialistica e di analisi forse inaspettata dal cui esito si possono trarre alcune indicazioni: il PCI non ha avuto eredi eppure, nonostante tutti gli stravolgimenti accaduti nel corso degli ultimi trent’anni sul piano delle relazioni internazionali, della tecnologia, dell’organizzazione sociale, l’ombra di quel partito rimane quasi come il fantasma di Banquo sulla scena della sinistra, non soltanto in Italia.

E’ curioso, infatti, che l’insieme della pubblicistica e della riflessione politica, dopo aver appunto dedicato tanto impegno e tanto spazio ad un avvenimento accaduto 100 anni fa si sia soffermata molto meno nell’analisi e nella riflessione sulla fase di scioglimento del Partito, verificatasi proprio oggi 30 anni fa.

E’ mancata fin qui l’esplorazione delle cause e degli esiti di quel fondamentale fatto politico riguardante la chiusura del PCI e rimane quasi assente l’analisi di ciò che è rimasto di vivo nelle diverse tradizioni della sinistra italiana.

Soltanto in pochi ormai continuano a coltivare un’idea di superamento delle divisioni di allora e proseguite nel tempo con la ricerca di recuperare una capacità di nuova proposizione politica.

Pare proprio non ci siano eredi per entrambi i filoni che uscirono dal congresso di Livorno e che l’esaurimento delle loro forme storiche di rappresentazione politica avvenuto all’inizio degli anni’90 interessi davvero molto poco.

Eppure l’analisi di quelle cause (e gli effetti che hanno prodotto) potrebbe tornare fattore fondamentale per uscire dall’incertezza e avviarsi, almeno, sul sentiero della provvisorietà nella ricerca di quel nuovo soggetto politico: ricerca che, in questo momento, sembra assomigliare sempre di più a quella del Santo Graal.

Francamente non credo che si possa uscire dall’incertezza senza compiere una scelta di fondo sul piano teorico in modo da riconoscere davvero la complessità delle contraddizioni in atto, evitando di limitarci ad una visione che alla fine rischia di assumere tratti quasi corporativi.

Una complessità delle contraddizioni che ormai rende da aggiornare il vecchio schema di Rokkan (1982) ed evoca la necessità di rivisitare anche l’antica suddivisione tra struttura e sovrastruttura.

Una complessità delle contraddizioni allargatasi nel periodo più recente per ragioni evidenti di cambiamento di qualità nel meccanismo della modernità e della globalizzazione.

Occorre però evitare il ritorno alla categoria dell’esaustività del “nuovo” che all’epoca costituì il vero e proprio parametro di valutazione per arrivare a determinare le ragioni dello scioglimento del PCI.

Da allora il mondo è sicuramente cambiato per tanti aspetti, ma non sono assolutamente cambiate alcune delle dinamiche di fondo che hanno regolato e regolano l’agire economico, politico, e sociale sulla base di ben precisi “sistemi” di carattere teorico, che abbiamo chiamato ideologie.

Nella presunta “modernità” la grande capacità nell’espressione di egemonia è stata appunto, quella, di far passare la propria ideologia come una “non ideologia” ma come un’inevitabile assunzione di buon senso comune, al grido “le ideologie sono morte”.

E’ ciò che è accaduto, a livello planetario, ormai da trent’anni, diciamo dalla chiusura storica della divisione in blocchi e dall’esclamazione, presa per buona da molti, di Francis Fukuyama, di “fine della storia”.

In realtà i fenomeni più evidenti hanno la caratteristica del “sempre uguale”, portandosi appresso una carica ideologica fortissima e del tutto sbilanciata e al ritorno a un confronto tra estremismi, con la sparizione nelle società occidentali avanzate della “middle class” e l’affermazione di diversi modelli di confronto.

L’epidemia globale non ha mutato questo quadro nell’insieme delle coordinate di riferimento del muoversi complessivo della dinamica planetaria accentuando, anzi, i termini di scontro e, da questo punto di vista, l’esito delle elezioni USA avrà probabilmente un impatto relativo.

C’è stato molto dell’antico nello sbandierato “nuovo”, oltre alla riproduzione dell’antico “ciclo delle crisi”: finanziarizzazione dell’economia, estensione della condizione materiale di classe (con la creazione di un “ventre molle” pauperizzato che, sicuramente nel “caso italiano” preferisce schiacciare chi si trova di sotto utilizzando la classica leva dell’assistenzialismo, non cercando di unirsi in un’idea di nuovo “blocco storico”), imbarbarimento nelle condizioni della produzione e delle qualità della vita se pensiamo all’emergente tema ambientale, insorgenza sanitaria, sostanziale mantenimento delle condizioni di “sopraffazione di genere”, impatto violento delle grandi contraddizioni epocali causate dalle guerre e da un processo di regressivo imbarbarimento che riguarda ampie zone del mondo causando fenomeni come quelli del terrorismo globale, dei migranti, dell’instaurarsi di feroci dittature com’è accaduto in gran parte dei paesi africani, si è riproposto in Europa e sta tornando in Asia.

Insomma: un arretramento a uso di una riduzione del rapporto tra politica e società, e quindi del meccanismo di regolazione democratica del consenso e del controllo sociale.

In Italia il punto di saldatura rispetto a questo stato di cose è stato ricercato nella personalizzazione della politica, che poi è franata nella ricerca del protagonismo populista alimentato da un utilizzo del sistema dei media che, in un primo tempo ha ovviamente favorito l’ascesa – sempre per restare in Italia – di un’estrema destra populista, ma che adesso pare molto più indefinito nei suoi orientamenti di fondo guardando a un sistema politico fragile, con soggetti di complicata legittimazione.

In queste condizioni ciò che rimane di sinistra, non può che ritrovare nella propria storia gli elementi portanti di una ricostruzione di autonomia di pensiero e di strutturazione organizzativa.

La lettura della storia intesa come fattore decisivo dell’autonomia culturale.

Per quel che riguarda l’Italia per una possibile sinistra emerge, sotto l’aspetto dell’autonomia culturale e politica, il fatto che non si possa assumere la questione del governo come questione dirimente arrestandosi ad essa quasi come punto di finalità “ultima” (come fu fatto al tempo dello”sblocco del sistema politico”).

Il tema del governo, nell’articolazione estrema del processo di relazione tra il sociale e il politico, rimane quello di un modesto cabotaggio da “politique d’abord”.

Il punto da ricercare,invece, dovrebbe essere quello del ritrovare la “provvisorietà” di un progetto di transizione nel corso del cui itinerario si riesca a delineare un quadro di radicale trasformazione dell’assetto sociale.

Per cercare di far questo serve una adeguata soggettività politica da costruire magari studiando al meglio la storia della sinistra nel nostro Paese.