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settembre 6, 2022

Più luce, più luce!

di  Beppe Sarno

Al VI° congresso dell’internazionale Comunista che si tenne a Mosca  dal 17 luglio al 1° settembre 1928 chiese la parola con le parole di Goethe “Più luce, più luce!” Nel suo intervento Togliatti aveva ammonito a proposito delle divisioni interne al Komintern affermando “l’avanguardia del proletariato non può battersi nell’ombra!” Togliatti dopo quel congresso entrò a far parte della direzione dell’Internazionale e fece sua la scelta di Stalin  della terza fase, cioè della strategia chiamata classe contro classe caratterizzata da una radicale ostilità verso la socialdemocrazia.

Togliatti non era fra i compagni che uscirono dal teatro Goldoni di Livorno Venerdì 21 gennaio 1921 era infatti rimasto a Torino laddove invece era presente Gramsci che però non prese la parola.

Il fatto è che Togliatti nella accidentata storia del movimento comunista ebbe un solo faro orientato ad est. Questa sua fedeltà gli dette grande potere che gli derivava dal peso politico, parlamentare sindacale del più grosso partito comunista occidentale. L’unione sovietica aveva grande fiducia e stima del “Migliore” perché Togliatti fu il fedele interprete delle direttive che provenivano da Mosca.

Note sono le polemiche all’indomani del delitto Matteotti, quando Togliatti rientrato da Mosca che rifiuta ogni accordo con il PSI e con i massimalisti giustificando l’uscita blocco delle opposizioni. Secondo Togliatti i socialisti erano c oloro che “lottano per tenere in piedi il sistema capitalistico dall’altra (i comunisti n.d.r.) chi la vuole mandare in pezzi per sempre. Da una parte chi vuole un governo non più fascista ma sempre di capitalisti e sfruttatori, dall’atra chi vuole un governo di operai e contadini.” Questa posizione antisocialista e la debolezza dei socialisti incapaci si assumere una decisione farà poi fallire la proposta di sciopero generale. Il 18 giugno il comitato esecutivo della CGL dirà “Si decide di invitare alla calma le organizzazioni confederate, i dirigenti, le masse lavoratrici, per non compromettere con iniziative particolari e inconsulte lo svilupparsi degli avvenimenti.”

Quando  Togliatti arrivò in Italia non dialogò con i gruppi antifascisti ma con Badoglio, con la monarchia e con gli alleati. Il suo arrivo fu preceduto da una lettera indirizzata a Badoglio per chiedere l’autorizzazione a rientrare in Italia. Con la monarchia assunse fin da subito un atteggiamento blando “Abbiamo sempre evitato di fare della monarchia e del re il problema centrale del momento presente.”

La cd. svolta di Salerno fu il risultato di un accordo fra le diplomazie sovietiche e le potenze alleate e che ogni iniziativa di Togliatti furono concordate a Mosca. Scrive in proposito Valiani” i documenti diplomatici dimostrano che la svolta di Salerno fu suggerita dal governo sovietico prima ancora dell’arrivo di Togliatti ….”. In questa visione non ci sarà spazio per gli altri partiti. Sull’Unità del 2 aprile Togliatti scriverà “E’ il partito comunista, è la classe operaia che deve impugnare la bandiera della difesa degli interessi nazionali che il fascismo e i gruppi che gli dettero il potere hanno tradito.

Il 22 giugno 1946 per celebrare la nascita della Repubblica italiana, Palmiro Togliatti, firmò la cd. amnistia Togliatti definita “colpo di spugna sui crimini fascisti»; amnistia che interrompe i procedimenti giudiziari nei confronti di criminali fascisti e imputati di «reati di collaborazione con i tedeschi».

L’amnistia che chiudeva la svolta di Salerno divenne grazie ad un’interpretazione estensiva della magistratura un generalizzato perdono, applicato anche a torturatori e ad assassini. Piero Calamandrei definì l’amnistia un clamoroso errore della nuova classe dirigente italiana, gravido di conseguenze.

Consapevole del radicamento della Chiesa cattolica in tutto il paese ebbe in grande considerazione le gerarchie vaticane  e con l’approvazione dell’art. 7 della Costituzione provò a mitigare l’ostilità della Chiesa verso i comunisti. L’ inclusione dell’ articolo 7 nella Costituzione, osservò Benedetto Croce, “è uno stridente errore logico e uno scandalo giuridico“. Accorata la perorazione di Piero Calamandrei: “La pace religiosa esiste. Se volete alterarla votate l’ articolo 7

Piero Nenni così commenterà il voto dei comunisti : “E’ cinismo applicato alla politica. Ma non è il cinismo degli scettici, ma di chi ha un obiettivo e non vede altro. E’ la svolta di Salerno che continua, applicata questa volta alla Chiesa e ai cattolici…“. 

Fu sempre Togliatti che fece bocciare con un artificio tecnico la proposta  di Mortati di inserire l’obbligo del sistema elettorale in Costituzione e di far approvare il sistema maggioritario al senato.

Dopo aver combattuto Tito definito “un tirannello Jugoslavo”, si recò personalmente in Jugoslavia per stringergli la mano non appena Mosca lo riabilitò.  Sempre dalla parte dei vincitori fu nell’immaginario collettivo considerato un nemico dei padroni, ma egli stesso fu un padrone severo con i suoi sottoposti. Nel partito Comunista Italiano non esisteva l’opposizione. Quanti compagni si scoprirono agenti dell’OVRA a loro insaputa solo per essere stati troskisti.

Il pensiero di Togliatti era un non pensiero e nella sua biografia non è possibile rintracciare alcun contributo teorico anche se con lui il PCI ha sempre raccolto valanghe di voti. Questi voti però non hanno contribuito significativamente nell’evoluzione della società italiana del dopoguerra condizionata positivamente dal compromesso fra la Democrazia Cristiana e il partito socialista.

La fortuna del partito Comunista fu dovuta in gran parte all’impotenza del partito Socialista che nel dopoguerra non riuscì ad attrarre i sindacati, il movimento cooperativistico, e perdette l’egemonia nelle amministrazioni locali di sinistra.

Certo il PSI non disponeva dell’appoggio internazionale dell’URSS e Togliatti da grande stratega quale era organizzò un gande partito efficiente compatto, con un grade giornale di massa “L’Unità” grandi pubblicazioni per la massa e per gli intellettuali. Per lunghi periodi potè contare anche sull’alleanza del PSI considerato un partito subordinato.

Con la forza politica che aveva e con l’organizzazione di tipo militare che era stata messa in piedi il PCI avrebbe potuto essere una reale alternativa alla DC ed imprimere alla storia italiana una ben  altra evoluzione.   La cultura italiana per oltre cinquant’anni è stata  monopolio esclusiva degli intellettuali comunisti. Malgrado ciò e con tutta la sua potenza di fuoco il PCI non è riuscito ad ottenere l’attuazione della Carta Costituzionale ed oggi stiamo ancora scontando questa sconfitta.

Togliatti disprezzava il riformismo e il massimalismo dei socialisti, ma quale risultato ha dato l’azione del PCI diverso dall’impotenza dei massimalisti? Se il movimento operaio  attratto dalla seduzione del Pci si è trovato isolato ed è stato spinto verso la DC e i partiti delle classi medie è stato solo ed esclusivamente per una scelta politica del PCI, che non ha voluto mai promuovere alcun sviluppo democratico e socialista della società.

Dei massimalisti Turati ebbe a dire nel congresso socialista di Bologna del 1919 “Il massimalismo è il nullismo, e il massimalismo è la corrente reazionaria del socialismo.” Questa definizione si adatta perfettamente alla personalità di Togliatti.

La domanda allora è perché malgrado la forza elettorale, il radicamento sul territorio, la presenza organica nelle fabbriche, l’essere stato il maggior partito comunista occidentale il PCI non ha combattuto una battaglia realmente socialista? Forse perché il Pci  nell’assumere posizioni a parole sinceramente socialiste nei fatti si smentiva perché quelle posizioni erano solo tattiche e strumentali. Il PCI non avrebbe mai contraddetto le indicazioni che provenivano da Mosca e queste indicazioni erano in contraddizione evidenti con i principi che venivano enunciati in Italia.

Togliatti era l’artefice e nello stesso tempo il prodotto di questo risultato politico negativo. Uomo freddo senza vera passione politica fu u costruttore politico ed amministratore accorto del patrimonio che gli era stato affidato. Non si può certo dire che sia stato un rivoluzionario di professione, piuttosto un burocrate attento a rispettare le direttive di Mosca.

 L’impotenza del PCI  è dimostrata dalla sua storia e dalla sua fine ingloriosa.

Riprendendo  le parole di Goethe mi sia consentito, ora che la  differenza fra comunisti e socialisti non ha più senso, invitare tutti quelli che hanno a cuore la democrazia di fare: più luce, più luce!

Ad esempio la subalternità del micro PSI di adesso al PD senza nemmeno quel senso critico del Nenni di allora che individuata il cinismo del PCI e Togliatti di predicare in un modo socialista ma di praticate in senso contrario.

La disputa coi socialisti massimalista di allora che oggi sarebbero stati come Craxi si oppose alla privatizzazione vergognosa della SME mentre il PDS DS favorì privatizzazioni delle grandi imprese anche in settori strategici espellendo lo Stato dal capitale come in Autodtrade e Telecom che nessun paese eutopeo… men che meno Francia e Germania ha fatto, al di fuori dell’Italia hanno fatto.

marzo 19, 2021

Nemesi

di Alberto Benzoni

Il Pd è ridotto male. E non per ragioni contingenti. Ma perché vittima di un contrappasso in cui i suoi punti di forza si sono trasformati in oggetto di debolezza E in ogni campo.Così il partito di “Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer”, dirigenti dalle virtù sacrali, ha visto Zingaretti prima schernito e poi dimissionario, vergognandosi del partito che (si fa per dire) dirigeva.Così, il partito, di cui i comitati centrali erano l’oracolo, è diventato un partito che non riesce a fare un congresso vero e in cui il capo dell’opposizione interna dirige un altro partito.Così il partito che si identificava con il Movimento Operaio sta cercando, affannosamente, di essere il punto di riferimento di qualcun altro ma senza riuscirci.Così uno dei fari del comunismo internazionale vota, al Parlamento europeo, una mozione in cui comunismo e nazismo vengono equiparati, dichiarando, successivamente, di non averla letta bene.Così, infine, il partito che era in grado di dettare sia le regole sia il campo di gioco, ne ha creato uno nuovo, dove è diventato terra di conquista, aperta al primo salvatore (?) di turno.Potremmo continuare all’infinito. Ma è quanto basta per usare un termine religioso, nemesi, per definire ciò che è accaduto.La nemesi non è, naturalmente, una punizione incomprensibile legata alle pulsioni di una divinità capricciosa.E non si conclude, necessariamente, con la condanna definitiva del reprobo.Diciamo allora che è un segnale. Una serie di eventi che vogliono essere un avvertimento. “Hai peccato e gravemente. Ma devi essere tu a capire in che cosa e perché. Solo così potrai salvarti dalla rovina”.A tutt’oggi nessuno sembra aver recepito questo messaggio. Né il Pd che continua a non capire quello che è successo (sino a rappresentare l’”andare verso il popolo” nella scena tragicomica di Martina – che gioca a pallone con i ragazzi di Scampia) e che, quindi, incapace di autocritica. Né i santoni che ieri lo esaltavano e oggi ci sputano sopra e sempre con la stessa boria. Né, infine, i rappresentanti della “vera sinistra” che oggi lo invitano a sciogliersi per lasciare loro il posto, salvo a non presentarsi all’appuntamento, perché chiusi in una stanzetta a litigare. Ora, rendere ciechi e sordi, è proprio della nemesi. A segnalare il fatto che gli ex comunisti si sono macchiati agli occhi di Dio (o, più modestamente, del dio della storia) di quello che forse è il peggiore dei peccati capitali: la superbia. Leggi la convinzione di essere creatori o quanto meno unici interpreti autorizzati della storia senza accorgersi che ne erano diventati seguaci passivi e proprio quando andava nella direzione opposta a quello che avevano sempre seguito.È la legge del contrappasso. Dove la convinzione di capire tutto ti porta a non capire niente. Come avverrà ai tempi di Mani pulite, quando gli ex comunisti pensavano di dirigere un processo promosso in realtà dai loro futuri avversari e con loro in tribuna a battere le mani. E ancora, con effetti ancora peggiori, quando furono in prima fila nel distruggere una prima repubblica, di cui erano stati protagonisti privilegiati per benedire una seconda, il cui ambiente sarebbe risultato per loro sempre più sfavorevole.La nemesi, si sa, confonde la vista delle sue vittime. Un partito che è giunto a tollerare il fatto che a porre il veto sulle sue stesse intenzioni stessi sia il segretario di un altro partito, sostanzialmente avverso, non sa difendersi e quindi non può essere difeso. E ancora, un partito che sale in cattedra mostrando di continuo il cartellino giallo al popolo colpevole di averlo abbandonato nega, con ciò stesso, la possibilità di recuperarlo. E, infine, l’incapacità, antica e recente, di essere o di sentirsi alternativi, in termini ideali o di rappresentanza di interessi, nega la capacità di svolgere la funzione che gli è stata affidata.Questo per dire che non c’è alcun pentimento. Anche perché, almeno in politica, tu puoi pentirti di tutto e di più e a sopportare ogni tipo di critica; ma non fino al punto di riconoscere coram populo di essere, individualmente o collettivamente, la sua stupidità.E, allora, a porre termine al contrappasso, non sarà la catarsi dell’interessato. Ma il suo istinto di conservazione. Nato dalla consapevolezza che il suo stesso destino si gioca nell’arco di quest’anno. In un arco di tempo, in vista anche del dopo Draghi e dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica, che ha come suo momento di verità le prossime elezioni in quasi tutte le grandi città. E in cui la scelta sarà fra il costruire (in una elezione a due turni) le premesse di una sinistra competitiva, anche se per ora basata sulla semplice intesa con il M5S e con le altre sue formazioni e il seguire Renzi in un viaggio nel centro e nella destra da cui rischia di non uscire vivo.Ed è in questo ambito ristretto ma decisivo che dobbiamo valutare il ruolo di Letta. A prescindere, per favore, di quello che ha detto o fatto anni fa e da chi ha frequentato; così da capire quello che significa oggi la sua chiamata in soccorso. E rispetto a quale pericolo.Riassumiamo ora, per concludere, la posta in gioco e le opzioni alternative. E la probabilità che Letta condivida quelle giuste; unita alla possibilità, tutta da verificare, che riesca a farle passare.Giusto, anzi essenziale, rivendicare l’autorità del segretario, in un partito in cui il diritto di veto è esercitato da tutti e di continuo, soprattutto dai cacicchi locali e da personaggi esterni, tipo Calenda, che non hanno alcun titolo per rivendicarlo. Qui nessuno dei vari candidati di area comunista era, anche, lontanamente, in grado di svolgere questo ruolo. Mentre invece Letta è perfettamente consapevole che l’accettazione, anche tacita, di questo veto, sarebbe per lui rovinosa. Sulla necessità vitale di diventare alternativi, lo steso Letta è stato estremamente chiaro. Anche se la sua appartenenza alla sinistra didattica lo ha portato a citare due iniziative, oggi purtoppo fuori tema, solo perché indigeribili per il centro destra.Infine, il Nostro dovrebbe aver capito che l’opzione maggioritaria può essere accettata dai suoi futuri compagni di viaggio solo se non sarà più uno sgabello per garantire al Pd il controllo sui suoi alleati e, insieme, la libertà di movimento nei confronti degli altri.Certo, siamo lontani dal pentimento e da qualsiasi nuovo corso. Ma, almeno, ci si è fermati prima di cadere nell’abisso e cominciamo a guardarci intorno.Poi si vedrà.

gennaio 9, 2021

Tre noterelle gramsciane

Per la ripresa di un dialogo

di Gaetano Colantuono

Riscoprire da socialisti la lezione di Gramsci

A Gaetano Arfé, indimenticato e indispensabile

  1. Rileggendo Raul Mordenti, Gramsci e la rivoluzione necessaria.

Libri su Antonio Gramsci ce ne sono tanti – si potrebbe dire. E una nuova, terza, fase della fortuna del suo pensiero è stata registrata da Giorgio Baratta: fase che ha una dimensione mondiale, camminando anche a fianco dei movimenti di contestazione verso la globalizzazione neoliberista, in tanti paesi e in differenti culture. Un Gramsci meticciato e diasporico (per utilizzare due categorie molto in voga nel lessico postcoloniale), i cui Quaderni divengono una preziosa “cassetta di attrezzi” (magari non sempre criticamente vagliata) del pensiero critico e per l’interpretazione di vicende storiche impensate dal comunista sardo. Ciò basti a confutare l’immagine, di matrice accademico-erudita, di un Gramsci come monumento letterario, tipo Madame Bovary o il Canzoniere petrarchesco, e perciò museificato e mummificato. Neutralizzato.

Parallelamente si sono diffusi proprio in Italia non pochi luoghi comuni sul suo pensiero, interpretazioni capziose e fuorvianti, estranee a corretti principi metodologici, insieme a continue illazioni sulla sua vita ed in particolare (c’era da attenderselo) sulla fase della sua carcerazione: così è divenuta merce corrente sentire o leggere che Gramsci fu sì imprigionato dal regime fascista, ma che gli venne riservato un trattamento di favore, che comunque non morì in carcere e che ad ucciderlo – o meglio a volerlo morto – furono proprio i compagni del suo partito. Sinteticamente un Indro Montanelli (figura incredibilmente rivalutata come testimone storico) poteva scrivere: «Togliatti non mosse un dito e anzi ostacolò il trasferimento a Mosca di Gramsci». Altri si sono “limitati” a esporre giudizi tranchant sull’opera gramsciana: un documento censurato da Togliatti e dal suo partito, ovvero un testo sopravvalutato nel quadro di quel (presunto) controllo della cultura attuato dalla Sinistra in Italia per quaranta anni (giova rammentare: di opposizione parlamentare). Nuove, ardite proposte sono venute su (o sono tornate) negli anni ’90: un Gramsci “socialista” degli ultimi tempi (secondo un’amena affermazione di Craxi: quindi con tutto ciò che tale qualifica in quel momento poteva significare); un Gramsci liberale e liberista; immancabile una sorta di “Codice da Turi”, ovviamente inteso come Gramsci versus Togliatti e l’URSS.

Solo da questa rapida rassegna è possibile constatare una costante – un’ossessione (anti)togliattiana – e due possibili operazioni su Gramsci uomo politico e teorico.

Si tratta di un’alternativa secca per vulgate ansiose di legittimazione: annettere o liquidare Gramsci. Tertium non datur. Occorre rinunciare preliminarmente ad entrambe le opzioni e riprendere le fila di un dialogo, per noi impegnati nell’arduo compito di ricostruire in Italia una presenza per il socialismo di sinistra, senza trascurare i punti di attrito fra gli assunti gramsciani (con particolare rilievo della sua produzione carceraria) e le elaborazioni dei dirigenti e studiosi socialisti [a mo’ di esempio il ripensamento critico delle categorie gramsciane per la storia meridionale moderna in Gaetano Cingari, uno studioso indubbiamente da recuperare, su cfr. Gaetano Cingari. L’uomo, lo storico, Manduria 1996].

Gaetano Cingari

È tuttavia confortante che il quadro degli studi gramsciani italiani non sia segnato dalla nota dominante della ruffianeria, assenza di scrupoli deontologici e filologici, sostanziale funzionalità rispetto al vigente status quo. E forse si può sostenere che, anche in questo caso, “non tutto il mal vien per nuocere”, poiché tali ricorrenti, persistenti luoghi comuni fallaci, teorie inverificabili e campagne di stampa hanno comportato una rinnovata lettura critica del corpus gramsciano, nei suoi vari passaggi diacronici, nelle sue parole tematiche (vedi Le parole di Gramsci. Per un lessico dei Quaderni del carcere, Roma 2004), nei condizionamenti terribili della sua situazione di prigioniero e delle ricadute sulle condizioni psico-fisiche, nella verifica storica dei suoi assunti. È stata così messa alla prova una nuova generazione di studiosi/e, che ha dovuto riverificare e rileggere i testi nel fuoco di un’altra, non trascurabile, battaglia delle idee. Quella di resistenza al discorso egemonico (è il caso di dirlo) neoliberista e di costruzione di efficaci alternative.

Fra le varie opere comparse nel corso del precedente anniversario gramsciano (2007), particolare rilievo va attribuito al volume di Raul Mordenti, Gramsci e la rivoluzione necessaria (Editori Riuniti, Roma 2007, pp. 206), per il nesso fra ricerca storico-filologica sui testi gramsciani e l’impegno storico-politico dello studioso attraverso gli stessi. Una dote non comune se si pensa alle tendenze di certa dirigenza dell’Istituto Fondazione Gramsci in Italia, legata organicamente alle trasformazioni che hanno condotto dal PCI al Partito Democratico. E chissà poi. È noto che in reazione a questa situazione si registra un crescente interesse verso le iniziative dell’International Gramsci Society (IGS) con le sue sezioni nazionali.

L’opera di Mordenti, in realtà, si presenta come una raccolta di precedenti lavori, cinque in particolare, rifusi a mo’ di sintesi organica in cui l’opera gramsciana viene analizzata ora sul piano filologico ed esegetico ora in relazione al proprio Fortleben. Ben chiare su entrambi i versanti le posizioni dello studioso, con una forte polemica contro alcuni degli stereotipi sopra accennati, mentre rigoroso è il suo procedere critico, alla ricerca di una rinnovata interpretazione iuxta sua principia di Gramsci, che se intende superare la vulgata genericamente denominabile come “togliattiana”, non per questo rinuncia agli ineliminabili fondamenti (i.e. comunisti) di quella ricerca politica e vicenda umana (su cui si veda il capitolo 2 La rivoluzione necessaria). Questi elementi, assieme a molti altri, rendono il testo al contempo un documento dell’attuale fioritura di studi, un’introduzione agli stessi e un saggio in cui convergono numerosi spunti di metodo, ipotesi di lavoro ulteriore, risultanze assodate e interessanti aperture al mondo variegato degli studi culturali.

Tuttavia, in questa sua cifra lo studio mostra alcuni elementi limitanti. L’aver insistito su una dicotomia (lettura togliattiana versus quella antitogliattiana) ha come effetto la sostanziale trascuranza di altri settori in cui si è in passato esercitata la lettura gramsciana, a partire, e.g., dalla variegata sinistra socialista, soprattutto durante la fase autonomista del PSI (1956-1963): Panzieri non è menzionato, Bosio solo di sfuggita e così via. La stessa cultura socialista legata al corso nenniano non fu estranea a studi e categorie gramsciani, per cui leggendo l’ampia citazione da una lettera del 2 maggio 1932 (a p. 46) sovviene al lettore accorto la ripresa di Antonio Giolitti [cfr. il suo Riforme e rivoluzione, Torino 1957] dei medesimi temi negli anni Cinquanta, quando maturò il suo passaggio dal PCI al PSI.

Antonio Giolitti

Conviene rileggere in forma estesa quanto Gramsci scriveva in quella lettera in cui si fondano critica anticrociana (ma anche antibordighiana) e formulazione di nuove proposte aderenti ad un contesto complesso come quello nazionale: «Si può dire concretamente che il Croce, nell’attività storico-politica, fa battere l’accento unicamente su quel momento che in politica si chiama dell’“egemonia”, del consenso, della direzione culturale, per distinguerlo dal momento della forza, della costrizione, dell’intervento legislativo e statale o poliziesco […] è avvenuto proprio nello stesso periodo in cui il Croce elaborava questa sua sedicente clava, la filosofia della praxis [scil. la dottrina marxista], nei suoi più grandi teorici moderni, veniva elaborata nello stesso senso e in momento dell’“egemonia” o della direzione culturale era appunto sistematicamente rivalutato in opposizione alle concezioni meccanicistiche e fatalistiche dell’economismo. È stato anzi possibile affermare che il tratto essenziale della più moderna filosofia della praxis consiste appunto nel concetto storico-politico di “egemonia”».

È tuttavia chiaro che come ogni epoca, così ogni tradizione politico-culturale della Sinistra ha il proprio Gramsci. D’altra parte, se lo stesso politico sardo realizzò un crescente distacco dal Psi e fu anzi uno dei promotori della scissione di Livorno, non bisogna dimenticare che è davvero disagevole pensare l’elaborazione del suo pensiero al di fuori della precedente esperienza politica accumulata dal partito del proletariato italiano e senza riferimento al patrimonio di sacrifici (si pensi alla scelta neutralista per oltre tre lunghissimi anni), resistenze e costruzioni di alternative (cooperative, mutue, sindacato, organi di stampa). La critica più feroce di Gramsci al Psi acquista così un senso di prospettiva, al di là delle mere contingenze polemiche e di taluni giudizi incresciosi. Una proposta interessante potrebbe essere una ricerca collettiva e aperta (cioè anche bidirezionale) sul tema Gramsci e la cultura politica dei socialisti, contemporanei e successivi.

Una sinistra, non indegna del patrimonio gramsciano, ancorché minoritaria, deve certamente comprendere (come annota l’autore, p. 21 e passim) l’importanza delle partite, a più livelli, giocate attorno alla memoria, alle tradizioni, alla storia – quella narrata e quella agita – come anche a temi attualmente assenti dal dibattito pubblico o degradati ad argomenti da chiacchiera da “bar dello sport”: fra questi, il folclore, la storia ai margini della storia stessa (ovvero la storia dei gruppi sociali subalterni), la quistione degli intellettuali – temi ai quali il volume dedica pagine molto impegnative e suggestive. Inevitabilmente alcuni temi, pur significativi (è il caso delle riflessioni sulle religioni e sul cattolicesimo), non sono affrontati nel volume in modo diretto.

Un approccio allo studio dell’opera gramsciana che ne possa garantire vitalità e forza (piuttosto che un pregiudizio di “attualità”) deve coniugare metodo filologico e rilettura collettiva e corale, aperta e rigorosa. Mi è francamente difficile ed al contempo spiacevole immaginare una futura trasmissione dell’opera gramsciana in assenza di pratiche di liberazione e di progetti di rivoluzione (necessaria). Qualunque cosa ciò possa significare nei diversi contesti? – è questa una domanda da non eludere.

2. La riflessione gramsciana sull’Azione Cattolica

L’ipotesi di lavoro gramsciana (Q.20) è in analogia con quanto sostenuto da uno storico sulle vicende politiche francesi post-napoleoniche: «pare che Luigi XVIII non riuscisse a persuadersi che nella Francia dopo il 1815 la monarchia dovesse avere un partito politico specifico per sostenersi». In altre parole l’intuizione dell’Azione Cattolica come partito politico specifico della Chiesa nella società, dopo la crisi europea culminata nel 1848, quando decade il monopolio delle istanze religioso-ecclesiastiche come elemento ordinatore, l’unico consentito, delle masse. L’AC ha assunto con il mutare dei tempi diverse funzioni, tuttavia resta l’espressione di una nuova fase (Gramsci lo dice più chiaramente in Q.2 confrontando AC con i terziari francescani) nella storia del cattolicesimo, quando le sue concezioni da insieme totalitario («nel duplice senso: che era una totale concezione del mondo di una società nel suo totale») si fa parziale (ancora nel duplice senso); ovvero come «la reazione contro l’apostasia di intere masse». Insomma, questo quadro dimostra che «non è più la Chiesa che fissa il terreno i mezzi della lotta; essa invece deve accettare il terreno impostole dagli avversari o dall’indifferenza e servirsi di armi prese a prestito dall’arsenale dei suoi avversari (l’organizzazione politica di massa)». Pertanto Gramsci può concludere che la nascita dell’AC, al di là dei risultati ottenuti, è prova del fatto che «la Chiesa è sulla difensiva», avendo perduto non solo il monopolio della formazione delle coscienze (come diremmo noi oggi) ma anche la scelta del terreno e delle armi (fuor di metafora: temi, forme, strumenti) dello scontro per il controllo delle masse. Ha perduto quindi la sua capacità di indirizzo culturale, sociale, morale – quello che potremmo chiamare egemonia.

Un altro strumento di presenza-controllo sulle masse è poi costituito dal sindacalismo operaio cattolico – e qui Gramsci nota come, ai suoi tempi, non fosse avvertita l’esigenza di un corrispondente sindacato confessionale degli imprenditori.

  1. Turati e Gramsci: una polemica mal posta.

Le seguenti brevi note nascono come commento sul dibattito innescato dall’articolo di Roberto Saviano “Elogio dei riformisti” apparso su “la Repubblica” (28.02.2012).

È un errore identificare l’articolo del Saviano col libro di A. Orsini [Gramsci e Turati. Le due sinistre], che meriterebbe di essere letto in sé, anche se credo che sin dalla intitolazione l’autore abbia voluto insistere sulla dicotomia fra Turati e Gramsci (ragioni non meramente cronologiche impongono che si stabilisca un ordine fra i due leader diverso da quello del titolo). Il Saviano evidentemente ne fa una lettura personale, scegliendo passi e temi funzionali alla propria linea.

Il tema, ossia la dicotomia di cui sopra, era nient’affatto inedito, direi anzi abituale in larga parte della storiografia. Ne esistono però due varianti opposte: quella anti-riformista e quella anti-comunista. Per fortuna già la migliore storiografia – in genere di sinistra – dagli anni Sessanta in poi aveva lentamente superato questa polarizzazione. Alcuni nostri colleghi – ed alcuni incauti loro lettori-recensori – sembrano ricaderci: è un segno dei tempi, del “nuovismo” fatto politica (PD ma non solo) e dominante in cultura. Il cui pendant, per curioso che possa apparire, è la generale marginalizzazione di una larga fetta di generazione dai venti ai quaranta anni.

Il riproporre la polarità Turati-Gramsci in termini così radicali appare nient’altro che il traboccare di antiche e insopite contrapposizioni che, in tempi di neoliberismo trionfante e di crisi indefinita, appaiono anacronistiche. Ogni santo anno, in occasione dell’anniversario del congresso-scissione di Livorno, debbo assistere al rinnovarsi del derby: aveva ragione Turati profeticamente e su tutta la linea, si affannano gli uni; il partito comunista, “luce che rischiara nelle tenebre”, nasce dal fallimento storico del partito riformista, celebrano gli altri. I nomi delle due “curve” si sprecherebbero e le loro analisi a dir poco condizionate da un forte senso identitario sono equivalenti: ed è un dato eloquente che non pochi di loro abbiano dato miglior prova dei loro studi in altri temi. Peccato che queste fazioni disconoscano che entrambi i tronconi fossero divisi al loro interno e non solo per ragioni di leadership. Ricordo a me stesso che le medesime fazioni fra loro accanite sono poi generalmente unanimi nel condannare (o obliterare) Serrati, nonostante già un Natta, purtroppo postumo, ne avesse composto una riabilitazione con tanto di duro giudizio sull’atteggiamento di Gramsci verso lo stesso Serrati nella celebre lettera di fondazione dell’Unità [ora si vedano gli studi di Marco Scavino].

In realtà, la canonizzazione di Turati presenta vari elementi di perplessità, primo fra tutti l’autocritica dello stesso politico nei suoi anni di amaro esilio parigino, quando si rimproverò l’ingenua fede nel metodo gradualistico-legalitario e di non aver compreso la forza della violenza, quella fascista (quella della parte estremistica del suo partito egli l’aveva già opportunamente contestata, anche per ragioni di lotta politica interna, in quel di Livorno). Turati, anche se idealizzato, va letto anche nelle sue pagine dell’esilio. Inoltre, lo stesso percorso politico-culturale di Turati appare tutt’altro che lineare ed esprimibile soltanto col nome “riformismo”. Sulla questione vale la pena riprendere gli studi del principale storico del socialismo italiano, Gaetano Arfé, nostro indimenticato maestro (cfr. in part. la sua Storia del socialismo italiano (1892-1926), Einaudi). I classici giacciono quasi inerti nelle biblioteche, mentre testi nuovisti occupano le pagine dei giornali. Ci si può chiedere se quest’ultimi faranno storia o non piuttosto cronaca, secondo il nostro parere, su quotidiani e social network.

Lo studio storico del movimento operaio e dei suoi partiti soffre in Italia di alcune lacune. Su due vorrei brevemente soffermarmi. La prima è la sostanziale assenza o la mancata fruizione di luoghi deputati all’archiviazione e allo studio dell’imponente massa documentaria prodotta in quasi 150 anni di movimento dei lavoratori. Ciò spiega anche il successo, spesso effimero, di determinate vulgate e metodologie. La seconda è la mancanza di quei partiti e della loro multiforme attività (case editrici, centri studi e fondazioni, attività didattica e divulgativa e così via). Un imponente processo di dissipazione, non c’è che dire.

Perché non possiamo dirci riformisti” – è questo il titolo di uno degli ultimi interventi di Arfé (“Il ponte” 2005). E forse lo sforzo di una società di studiosi/e che faccia filologia e divulgazione della tradizione socialista andrà ripreso nei prossimi mesi in un apposito progetto. Studuisse oportebat.

Gaetano Arfè

PS: le tre note sono state composte rispettivamente nel gennaio 2008, dicembre 2006 e aprile 2012. L’autore non sommessamente ricorda come tutti e tre i pensatori socialisti citati (Arfé, Giolitti, Cingari) abbiano abbandonato il PSI negli anni Ottanta in polemica con la leadership di allora.

settembre 27, 2020

L’UMANESIMO ETICO DEL COMUNISMO ESISTENZIALE DI ROSSANA ROSSANDA

“Il comunismo ha sbagliato. Ma non era sbagliato”. Questo, che è un aforisma davvero bello, esprime a un tempo, con concettosa e appassionata sintesi, il valore di verità che Rossana Rossanda, che l’ha concepito e detto, attribuiva al comunismo (al marxismo, in primis) e il giudizio critico sulla drammatica esperienza storica dell’URSS, dei Paesi di socialismo reale, iniziata nel 1917 con la Rivoluzione d’Ottobre e conclusasi con il crollo del Muro e la fine dell’URSS (1989-1991). In controluce, poi, allude al senso che Rossanda attribuiva alla sua vita stretta nella difficile eppur esaltante dialettica politico-esistenziale della grandezza di un ideale e della povertà della sue realizzazioni. Tuttavia sapeva che, nella nostra epoca, lei, per quello che era e sapeva di essere, non poteva concedersi il diritto di venir meno al compito di essere comunista, pur con le contraddizioni che la cosa recava con sé. “Non ci sono mai state mai state tante ineguaglianze nella storia”, disse nel 2012. E, infatti, al suo compito politico-esistenziale è rimasta fedele fino alla fine della sua vita, sopraggiunta nel suo appartamento a Roma, nella notte tra il 19 e il 20 di questo mese, dopo una grave crisi cardiaca a fine aprile, superata a stento. In quella notte di quasi autunno di una settimana fa, in silenzio, in modo appartato e discreto com’era nel suo stile signorile, si è addormentata nel sonno senza sogni. Del suo stile, ha dato fulgida prova nella sua vita splendida ma anche segnata da delusioni, emarginazioni, dolori e sconfitte. Che non l’avevano però spezzata, meno che mai piegata. Qualche anno fa, bloccata su una sedia a rotelle da un ictus, che la privò della metà del suo corpo, aveva scritto in “Quel corpo che mi abita” (2018): “Ho corso sempre, continuo a correre per capire un mucchio di cose (…). Quelli come me sono vissuti come una tessera del mosaico del mondo”. Aveva 96 anni, un’età reverente, ma forse, da circa cinque anni, era solo “corpo vivente, anima assente”, per dirla con Garcia Lorca, cioè da quando era morto il suo amatissimo compagno e consorte Karol Kewes Karol, un ebreo polacco, che aveva combattuto nell’Armata Rossa ed era tra i fondatori del “Nouvel Observateur”. Negli ultimi anni Karol, ormai cieco e malato, aveva trovato in Rossana, che lo aveva conosciuto a Roma nel 1964, la donna che, con le sue amorevoli e quasi materne cure e con sollecito affetto e vicinanza, ne aveva alleviato le sofferenze se non allungando, rendendo meno penoso il suo ultimo vivere. Ma “La ragazza del secolo scorso”, come si era autodefinita nel titolo della sua coinvolgente e famosa autobiografia del 2005 (secondo classificato al premio Strega, ma meritava il primo posto), del suo privato parlava molto di rado. Piccola e minuta d’aspetto, dolce e bella nel viso, dallo sguardo severo con malinconia inclinante a un sorriso di simpatia per i giovani e per il mondo, specie se alle prese con “il male di vivere”, riservata e schiva nel portamento senza mai essere algida e distante, questa colta e sensibile intellettuale dell’alta borghesia era una comunista appassionata e combattiva, dotata di fine e meditativo spirito critico e di profondo senso umano. Insomma, una donna intelligente, libera, riflessiva e appassionata, amante della libertà, della democrazia e dell’uguaglianza; una donna autenticamente di sinistra, ovvero ricca di cuore accompagnato e guidato da rigorosa ragione critica e investigante, una femminista convinta, refrattaria però al femminismo gridato e retorico, non foss’altro perché era consapevole che le ingiustizie del mondo non si fermano al pianeta donna e quindi – affermava con sentimento e ragione – bisogna impegnarsi e lottare per l’unico obiettivo che pone fine alle ingiustizie: il superamento del capitalismo.Antonio Gramsci, credo io, non avrebbe esitato nel considerare Rossana Rossanda una “intellettuale condensata”, una donna destinata a svolgere un ruolo di egemonia culturale e politica, riassumendo nella sua figura, in ottima modalità, la giornalista, la direttrice di giornale, l’organizzatrice e la promotrice di cultura, la scrittrice e la traduttrice, la dirigente politica rivoluzionaria. A darle i natali era stata la città istriana di Pola il 23 aprile 1924, che sarà annessa alla Jugoslavia nel 1947. Suo padre Luigi Rossanda era un affermato notaio, un anticlericale e irredentista convinto ma anche un uomo all’antica che parlava, oltre che in italiano, in latino, greco e tedesco, lingua in cui conversava con sua moglie. Ovvero, sua madre Anita, di vent’anni più giovane del marito, anche lei poliglotta, di indole aperta e cordiale, che apparteneva a una famiglia della ricca borghesia istriana, proprietaria di alcune isole del Carnaro, tra cui Fenara e Scoglio Cielo. La crisi economica mondiale del 1929 mandò quasi in rovina la famiglia Rossanda. Rossana – insieme alla sorella Marina, di tre anni più giovane di lei, morta nel 2000 – visse, dal 1930 per sei anni, presso una zia a Venezia, per riunirsi poi a suoi genitori, che si erano trasferiti a Milano. Nel capoluogo lombardo Rossana frequentò il liceo classico Manzoni, dove fu studentessa brillante e precoce così da conseguire la maturità classica con un anno di anticipo e con un’ottima votazione. Per gli studi universitari, scelse la facoltà di Filosofia presso la Statale e divenne allieva prediletta di Antonio Banfi, filosofo marxista, vicino al Partito Comunista Italiana e alla Resistenza antifascista. Di Banfi, sposò il figlio Roberto, dal quale si separò agli inizi degli anni Sessanta. Alla domanda di Antonio Gnoli (intervista “la Repubblica” del primo febbraio 2015): “Lei come è diventata comunista?”, Rossana Rossanda rispose: “Scegliendo di esserlo. La Resistenza ha avuto un peso. Come lo ha avuto il mio professore di estetica e filosofia Antonio Banfi. Andai da lui, giuliva e incosciente. Mi dicono che lei è comunista, gli dissi. Mi osservò incuriosito. Poi mi suggerì una lista di libri da leggere, tra cui Stato e rivoluzione di Lenin. Divenni comunista all’insaputa dei miei, soprattutto di mio padre. Quando lo scoprì si rivolse a me con durezza. Gli dissi che l’avrei rifatto cento volte. Avevo un tono cattivo, provocatorio. Mi guardò con stupore. Replicò freddamente: fino a quando non sarai indipendente dimentica il comunismo”.Rossana era una giovane coraggiosa e forte: partecipò alla Resistenza attivamente col nome di “Miranda”. Della Resistenza, evidenziò sempre la decisiva grandezza libertaria, senza tacerne però qualche ombra: “La Resistenza – disse – non fu tutta concordia e virtù. Neppure noi eravamo senza macchia”. La cosa non deve sorprendere. In questa grande donna, ciò che fece sempre aggio su tutto fu il bisogno, morale prima che teorico, di verità e, con esso, l’imperativo di comportarsi in coerenza con gli ideali libertari e umanitari del socialismo e del comunismo, senza cedere alle lusinghe e alle ragioni del potere.Dopo essersi laureata in filosofia e un breve impiego alla casa editrice Hoepli, Rossana Rossanda si iscrisse nel 1947 al PCI. In breve tempo divenne una funzionaria di partito e svolse in modo veramente ammirevole il compito, affidatole dal Partito, di rimettere in piedi la Casa della Cultura di Milano. Ben presto Palmiro Togliatti, Segretario Generale del PCI, chiamato “il Migliore”, la notò e la inserì nella delegazione dei comunisti italiani che partecipava a una conferenza di partiti comunisti a Mosca,. nel 1949. Di più e meglio: data la sua eccezionale intelligenza e cultura, divenne in pochi anni amica ed interlocutrice culturale, di Jean-Paul Sartre, Simone de Beavoir, Luis Aragon, Bertold Brecht, Luis Althusser, Michel Foucault. Manco a dirsi, la Rivoluzione ungherese del 1956 fu un evento traumatico per Rossanda come per tanti militanti comunisti, innanzitutto intellettuali. Nella “La ragazza del secolo scorso” scrive: “fu terribile Quei giorni mi vennero i capelli bianchi, è proprio vero che succede., avevo trentadue anni”. In precedenza c’era già stato il trauma del rapporto Kruscev che aveva rivelato, al XX Congresso, i crimini commessi da Stalin, A Togliatti non perdonò mai di aver taciuto, di non aver detto al partito la verità sull’URSS, anche se ne riconosceva l’elevata statura politica e la prestanza intellettual-culturale. E fu proprio Togliatti che nel 1963 la nominò, ad appena 39 anni, responsabile culturale del PCI, una carica di enorme prestigio. L’anno seguente, volle che fosse candidata al parlamento e che il partito si impegnasse a farla eleggere, cosa che puntualmente avvenne. Di Togliatti, quando era sua collaboratrice a “Rinascita”, la rivista culturale del PCI, Rossana ebbe a dire: “talvolta, all’improvviso, aveva lo sguardo di un uomo che viene dall’Inferno”, Dall’Inferno, ovviamente, dell’Unione Sovietica di Stalin, da cui, senza rinnegare il “legame di ferro” con l’URSS, Togliatti prese le distanze, elaborando la teoria della “via italiana al socialismo”, che trovò il suo convincente compimento con teorizzazione di Berlinguer del “valore universale della democrazia”. I demoni dello stalinismo erano, però, nell’essenza stessa dei movimenti e partiti comunisti. Rossana Rossanda li ritrovò, per capirci, nei comunicati delle brigate Rosse durante il sequestro Moro.. Lo scrisse in un articolo del 1978, destinato a diventare famoso. Affermò tra l’altro: “Chiunque sia stato comunista negli anni Cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle BR. Sembra di sfogliare l’album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria. Il mondo, imparavamo, allora, è diviso in due. Da una parte sta l’imperialismo, dall’altra il socialismo. L’imperialismo agisce come centrale unica del capitale monopolistico internazione (…) Vecchio o giovane che sia il tizio che maneggia la famosa Ibm (la macchina da scrivere usata dai brigatisti per i loro comunicati – nda), il suo schema è veterocomunismo puro”. Velenosa e cattiva fu la risposta, a nome del PCI, di Emanuele Macaluso. Questi, mentendo sapendo di mentire, replicò: “Io non so quale album conservi Rossana Rossanda : è certo che in esso non c’è la fotografia di Togliatti; né ci sono le immagini di milioni di lavoratori e di comunisti che hanno vissuto le lotte, i travagli e anche le contraddizioni di questi anni (…). Una tale confusione e distorsione delle nostre posizioni da parte degli anticomunisti di destra e di sinistra è veramente impressionante”..Ma procediamo con ordine cronologico. Dopo la morte di Togliatti (21 agosto 19649 ), Rossanda si andò sempre più facendo sue le posizioni movimentiste e di sinistra di Pietro Iingrao. Nel 1968 pubblicò un breve saggio, “L’anno degli studenti” in cui a esprimeva la sua vicinanza al movimento studentesco in cui vedeva una forza in grado di rinnovare e, addirittura, “un detonatore della rivoluzione” . Per la Sinistra ingraiana, Rossanda in prima fila, era ormai giunto il tempo di agire politicamente, così che diedero vita al “Manifesto”, una rivista mensile, il cui primo numero fu pubblicato il 23 giugno 1969. La loro battaglia per la democrazia interna era sacrosanta. Giusta era anche la critica alla timidezza del dissenso del PCI verso l’invasione della Cecoslovacchia del 21 agosto 1968, espresso nell’editoriale: “Praga è sola”. Più discutibile, e alla fine astratta, era l’idea che il PCI non avesse un modello di sviluppo da contrapporre a quello capitalistico, anche perché era una critica ispirata a un romantico utopismo che faceva intravedere la rivoluzione quasi dietro l’angolo. Nell’elaborazione politica di Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Aldo Natoli, Lucio Magri e Luciana Castellina, i leaders del “Manifesto”, confluivano l’eredità del comunismo di sinistra da Luxemburg in poi e la suggestione del Maggio francese e della Contestazione giovanile. Questo fascinoso ma astratto universo teorico faceva loro perdere la capacità d’analisi si stampo marxista dei processi storici del tempo storico in cui il PCI si trovava ad operare. Che non era per nulla quello della vigilia della rivoluzione; anzi, in Italia e altrove, le forze reazionarie ed eversive di destra erano in agguato. Già la formazione dei governi di centrosinistra era stata punteggiata da tentativi di colpi di Stato: 1960, Tambroni-Gronchi; 1964, Segni-DeLorenzo; 1970, Borghese-Andreotti; 1969, strage di Piazza Fontana. L’Italia, dopo i governi centristi del dopoguerra, ebbe sì il centrosinistra con Amintore Fanfani e Aldo Moro, ma si formò anche l’antistato criminal-mafioso andreottiano e doroteo. Sarebbe stato, comunque, un gran bene davvero che il PCI si fosse evoluto, fin dall’epoca del “Manifesto”, in senso democratico e socialista. Fu, invece, necessario attendere, dopo il golpe cileno del settembre 1973, la proposta del Compromesso storico di Berlinguer e poi l’eurocomunismo, teorizzato anch’esso da Berlinguer. Ma forse era già tardi. L’assassinio di Moro nel maggio del ’78 vanificò il tentativo di fare dell’Italia una vera democrazia e un “Paese normale”.L’avventura del dissenso libertario e di sinistra del “Manifesto” si concluse a fine novembre 1969 con la radiazione (un’espulsione ipocriticamente dissimulata) dei suo9i maggiori esponenti, Leggiamo come la presenta il “Progresso irpino” del 2 dicembre, il settimanale comunista diretto da me giovanissimo (25 anni), in prima pagina, in un corsivo di 20 righe riquadrate, di cui questo era il testo: “La richiesta di radiazione dal Partito per Natoli, Pintor, Rossana Rossanda e Magri, avanzata dalla direzione del PCI, ed accolta a stragrande maggioranza dal Comitato Centrale e dalla Commissione Centrale di Controllo, suscita in noi non poche perplessità, e non solo per i problemi che essa viene a creare nella vita del più grande partito operaio italiano, ma anche perché si accompagna ad altri due episodi non meno preoccupanti: l’arresto del direttore di«Potere operaio» (come ai tempi della Francia di Napoleone «il piccolo») e l’invito rivolto dall’Associazione degli Scrittori Sovietici al romanziere Solzenitsyn a uscire dalla sua patria – se lo desidera.Quello che più impressiona è la sensazione di un’ondata che tutte e tre queste vicende producono sulle nostre teste e di quanti, nella riunione del Comitato federale del Pci, avevamo votato – ed erano la maggioranza dei presenti – una mozione contro l’adozione di misure disciplinari nei confronti del compagni del «Manifesto».Ci domandiamo perché e dove si corra a passi tanto spediti, e come una simile corsa si possa compierla, anche se involontariamente, con la magistratura dello stato borghese”.Orgogli feriti? Abitudini inveterate dure a scomparire? Nessuno può dirlo, se solo si cerca di sollevare il velo della salvaguardia delle istituzioni, con cui è stato giustificato un atto del genere. Una sola cosa è certa: non è stata né una vittoria né del socialismo né della democrazia”. Autori del corsivo eravamo io e il professore Federico Biondi, entrambi componenti della segreteria provinciale del Partito, che difendevano il diritto al libero pensiero nel PCI. La Federazione comunista irpina subito reagì, convocando il Comitato federale e la Commissione federale di controllo che ci “processò”. Il sette dicembre fummo “sollevati” da tute le nostre cariche.Rossana Rossanda fu, insieme a Pintor, l’anima del “Manifesto”, trasformato in giornale, che diventò la coscienza critica della Sinistra, ma non ebbe mai presa tra le masse. Con il passare degli anni, venne sempre più alla luce quella che era la sostanza profonda del suo pensiero filosofico-politico. Tale pensiero può essere definito come umanesimo etico e un comunismo esistenziale. In essi convergono l’eticità della “Philia” universale, incarnata dall’eroina tebana Antigone, di sofoclea memoria; l’umanismo dell’esistenzialismo di Sartre per cui è l’uomo, con la sua vita, a darsi un’indole e un compito; temi dell’antropologia di San. Paolo e Sant’Agostino, da Rossanda definiti “pensatori assoluti”, e del teologo protestante Dietrich Bonhoeffer, da lei “amato e ammirato per il suo magistero e il suo sacrificio” (fu ucciso dai nazisti). Infatti, in “Anche per me” del 1987 Rossanda vede “la condizione dell’uomo, appesa tra vita e morte” in quanto “dato biologico, “astorico”. E’ questo il “residuo indistruttibile della sua sofferenza”, “limite oscuro, che incontra al limite del suo cammino”. E il comunismo allora? La “sua missione”, dice Rossanda, “non sta nel restituire l’uomo alla felicità, ma soltanto (soltanto!) liberarlo dalla intollerabilità dell’ingiustizia”.Dunque, non è erroneo dire che Rossana Rossanda lascia in eredità molte cose pregiate e belle – da pensare. Tra queste, due in particolare. La prima: la vita vale la pena di essere vissuta in nome della libertà e della dignità umana, i principi che fondano e migliorano la razza umana. La seconda cosa: non risolvendosi solo in una pur fulgida figura libertaria e critica, colta e umana della tragedia del comunismo, ci comunica pensieri, valori ed emozioni che ci aiutano ad affrontare la notte del mondo in cui ci dibattiamo e a cercare di costruire, come vuole la Bibbia, un mondo in cui sono rese nuove tutte le cose.Luigi Anzalone

Maggio 2, 2020

IL COMPAGNO GIUSEPPE DI VITTORIO.

di Giuseppe Giudice

Il comunista che più ho amato. L’uomo del riscatto sociale delle masse dei braccianti del sud contro l’aristocrazia fondiaria. Ma anche il padre, con Fernando Santi e Vittorio Foa del sindacalismo confederale, del rifiuto del carattere corporativo di esso. Uno dei più grandi sindacalisti mai esistito. Un comunista anomalo ed eretico. Ho rivisto , ieri sera lo sceneggiato “pane e libertà”, già mandato in onda nel 2009 in due puntate. Quella di ieri ne è stata un sintesi. Di radice anarco-sindacalista , ma amico fraterno di Peppino Di Vagno grande compagno socialista, ucciso alle spalle dai criminali fascisti di Caradonna. Ammirato dai socialisti Giacomo Matteotti e Bruno Buozzi operaio metallurgico e capo della Fiom che fu tra coloro che diresse l’occupazione delle fabbriche al nord. Con Buozzi manterrà sempre un grande sentimento di fraterna amicizia, fino alla esecuzione di Buozzi da parte dei nazisti nel 1944, anche dopo il passaggio di Di Vittorio al PCd’I. Un comunista anomalo contrario alla teoria staliniana del “socialfascismo” e mal visto da Stalin (è un suo grande titolo di merito-di Di Vittorio). Si scontrò spesso con Togliatti, c’erano antropologie politiche e formazioni diverse. Con SAnti e Foa diede vita al “piano del Lavoro” che incontrò la freddezza di Togliatti che di Nenni. L’unico politico della sinistra italiana ad esserne entusiasta fu Riccardo Lombardi (anche perché era uno dei più ferrati in economia , ed aveva letto bene Keynes oltre che Marx. ). La anomalia di Di Vittorio si manifestò con la terribile repressione sovietica della rivoluzione socialista , operaia e libertaria contro il regime stalinista. La CGIL condannò (a differenza del PCI) l’invasione, e Di Vittorio fece scrivere il testo della condanna a Giacomo Brodolini (il futuro autore dello Statuto dei Lavoratori) , allora vice segretario socialista della CGIL (subito dopo Santi). E secondo Antonio Giolitti (che poi passò dal PCI al PSI) ci fu uno scontro durissimo tra Di Vittorio e Togliatti. Di Vittorio disse: “i sovietici non sono compagni, sono solo dei delinquenti”. E mi fermo qui. Morì l’anno dopo forse anche con l’amarezza di non essere compreso dal partito. Comunque un grande compagno, un uomo del popolo , che ha vissuto sulla sua pelle lo sfruttamento più feroce. Ti ricorderò sempre compagno caro Di Vittorio. Come ricordo un altro comunista anomalo della CGIL, Bruno Trentin…ha commesso errori , ma ha dato un contributo di cultura politica straordinario , sulla storia del socialismo e del movimento operaio in Europa. Anche grazie alla sua cultura enciclopedica ed alla raffinatezza delle sue analisi. E comunque con Carniti e Benvenuto fu l’ideatore dei “sindacato dei consigli”

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aprile 17, 2020

Verso il 25 Aprile……………

(Tiziana Parisi)
Tra gli antifascisti aumenta la rabbia verso Togliatti che aveva, in nome della pacificazione, concesso l’amnistia ai fascisti.
Anche militanti del PCI scrissero lettere di protesta. Riportiamo il testo della lettera fornitaci dal partigiano Enzo Galasi, compagno di lotta di Sergio Bassi.
Caro Togliatti, sono un vecchio comunista compagno di Picelli . Lei mi crederà settario perché così sono chiamati quelli che hanno la propria fede e sono disposti a qualunque sacrificio. Intendo parlare dell’amnistia. So già che lei mi dirà che si tratta di una mossa politica indispensabile e strategica. I lavoratori, anche se ignoranti, sono in grado di capire certe necessità date le condizioni in cui ci troviamo, gli alleati ecc. Ma i lavoratori capiscono anche che c’è un limite a tutto, specie se hanno sofferto. I migliori compagni pensano che lei ha passato ogni limite e non conosce i fascisti se pensa che questi si ammansiranno di fronte al generoso gesto dell’amnistia generale. Perché di questo si tratta non si è ridotta la pena di cinque o dieci anni. No signori.
Si sono mandati addirittura a casa uomini che avevano meritato l’ergastolo o trent’anni di galera, che sono fra i maggiori responsabili della rovina del popolo.
Si è dato ragione in questo modo alle canaglie fasciste che si atteggiavano a martiri e che chiamano delinquenti i valorosi partigiani che hanno combattuto contro tedeschi e fascisti.
Io che le parlo sono il padre di Sergio Bassi. A 19 anni si è battuto come un leone in difesa della libertà e ha compiuto circa venti azioni pericolose. Anche lui è morto abbattuto alla mitraglia insieme ad altri cinque giovani generosi come lui all’idroscalo di Milano.
Ma il compagno Togliatti queste cose riesce a comprenderle? Mio figlio non può avere pace se io tengo ancora la tessera del Partito per il quale egli è morto, di quel Partito che trascura i migliori che favorisce i profittatori, di quel partito che non rispetta più nemmeno i suoi morti perché manda in libertà i loro assassini. Lei mi dirà che è stato obbligato a questo da altri componenti del governo, ma piuttosto che commettere una cosa simile era molto meglio dimettersi.
Distinti saluti.
Bassi Roberto
Via Carlo Imbonati 9, Milano. Buona giornata Comunisti Resistenti 

 

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marzo 23, 2020

Dopo i morti i fantasmi.

Il governo Conte all’articolo 76 del decreto cura Italia autorizza, «la costituzione di una nuova società interamente controllata dal Ministero dell’economia e delle Finanze ovvero controllata da una società a prevalente partecipazione pubblica anche indiretta». Pur non riuscendo a revocare le concessioni autostradali, per effetto congiunto della crisi della società Alitalia e della emergenza del coronavirus, il governo Conte ha avuto il coraggio di saltare il fosso e di nazionalizzare la compagnia di bandiera.

Ma la nazionalizzazione non basta. Non basta per Alitalia ed andrebbe estesa anche ad altre aziende strategiche che senza  l’intervento diretto dello stato rischiano la chiusura. E’ il caso della ex ILVA, che andrebbe sottratta agli sciacalli della Alcelor MITTAL e messa sotto il controllo dello Stato. Come pure andrebbero rinazionalizzate tante aziende strategiche regalate  a finanzieri senza scrupoli.

Il decreto “Cura-Italia” che è la risposta alla drammatica situazione sanitaria che stiamo vivendo, oltre al problema del funzionamento delle strutture sanitarie per far fronte all’emergenza del coronavirus si pone anche il problema del sistema produttivo dedicandogli un intero titolo. Il secondo in ordine di importanza “misure a sostegno del lavoro.”  “nessuno dovrà perdere il lavoro” dice Conte. Ci voleva il coronavirus per accorgersi che esistono   gli operai. Ci si illudeva che con la globalizzazione questa forza  fosse solo  un’opzione trascurabile e di cui si poteva fare a meno. Le navi che arrivavano dalla Cina ci portavano tutto quello di cui avevamo bisogno a prezzi stracciati alla portata di tutte le tasche.

Il mondo del lavoro  invece esiste e il governo ha messo  in evidenza la necessità di dare ai lavoratori  una protezione che fino a qualche giorno fa pareva inimmaginabile.

Esiste lo Stato, esistono i lavoratori, si comincia a nazionalizzare, il sistema di Maastricht scricchiola. L’austerità  sta facendo i bagagli, la Lagarde potrebbe fare i bagagli e se non li farà è stata sicuramente ridimensionata.

Molti analisti, che non riescono a vedere la luce oltre il tunnel del coronavirus auspicano la necessità di elaborare un “piano Marshall” per la ripresa economica europea dopo i disastri che questa pandemia comporterà. 

Niente sarà come prima!  Dopo i morti i fantasmi.

Quante piccole e medie aziende e quanti artigiani piccoli commercianti non supereranno il momento drammatico che stiamo vivendo? Quanti lavoratori prederanno il lavoro? Quante saracinesche rimarranno abbassate? E i migranti che vagano per le strade senza alcun sostegno? Dopo questa tragica pandemia dovremo trovare gli strumenti per risollevarci.

L’Italia, Europa, avranno bisogno di un gigantesco piano economico per evitare il definitivo deterioramento delle condizioni economiche politiche e sociali che una folle politica di austerità ha generato nelle economie delle nazioni più deboli dell’Europa.

Il problema  da porsi da subito è capire chi dovrà elaborare e gestire questo futuro così pieno di incognite, così difficile da affrontare e gestire. la nazionalizzazione delle industrie strategiche come Alitalia ex ILVA e tante altre è solo una risposta, certamente condivisibile, ma non è la risposta o almeno non è l’unica. 

“Insieme ce la faremo” è il mantra di questi giorni. Sta in parte funzionando, paradossalmente non sta funzionando solo nei luoghi in cui un’oligarchia di imprenditori ottusi e superficiali  interpreta quell’ “insieme” per tutti ma non per loro. Non a caso il morbo fa più vittime dove le attività si sono fermate solo per finta. Sindacati ed imprenditori seduti allo stesso tavolo insieme al governo decidono di chiudere la aziende non strategiche per la produzione.

Viene chiesta solidarietà e collaborazione. Ed giusto farlo  in questo momento come  è giusto che la scienza detti le regole da osservare.

L’attuale crisi ha dimostrato inconfutabilmente che le politiche economiche che l’Europa ha fino ad oggi adottate sono fallimentari ed è pertanto necessario elaborare un diverso modello  di sviluppo, che ponga al centro delle scelte l’intera collettività.

Non più un  sistema produttivo finalizzato esclusivamente al profitto gestito dalle multinazionali finanziarie, ma un sistema che ponga al centro le necessità e i bisogni delle collettività rappresentate dagli Stati nazionali  che recuperando la loro sovranità  costituzionale diventano  strumento di governo autonomo e democratico delle scelte economiche e sociali.

La domanda è questa: da dove bisognerà ripartire quando l’emergenza sanitaria sarà finita?

La risposta è semplice e ce la offrono gli avvenimenti di questi giorni: la nostra Carta Costituzionale!

 Attuare la Costituzione  significa però in primo luogo ridiscutere le regole per un’Europa più democratica individuando nella nostra carta costituzionale quegli strumenti, quelle leve che facciano diventare la collettività protagonista della rinascita economica e sociale. Bisogna rimanere in Europa, ma non più nell’Europa di Maastricht, dove gli stati nazionali sono spettatori assenti di decisioni prese da un gruppo di burocrati irresponsabili, ma in un Europa dove gli Stati nazionali si pongono il problema del bene comune secondo le regole che la carta costituzionale ha scritto con il sangue della Resistenza. Uno stato sovrano che affronti il problema dell’equilibrio fra sistema produttivo  e l’ambiente, la gestione produttiva, la salute delle aree industriali, modifica dei metodi di produzione, limiti del concetto di PIL, l’uso collettivo e democratico della tecnologia e degli strumenti di comunicazione di massa.

“Insieme ce la faremo!” Ma dopo? Niente sarà come prima. Dovremo ricostruire il tessuto sociale ed economico dalle macerie che questa guerra senza nemico avrà prodotto.

Dopo dovremo essere di nuovo insieme.  Solidarietà, però, non è collaborazione. Infatti nella nostra Carta Costituzionale tra i diritti e i doveri dei cittadini nei rapporti economici si trovano in ordine i diritti del lavoro, dell’iniziativa economica, e della proprietà. Vi sono disposizioni che indicano i fini dell’azione dello Stato che potremmo definire una costituzione economica che prende lo spunto da quello che fu definito il Codice di Camaldoli ispirato dall’allora cardinal Montini nel 1943, che aveva appunto lo scopo di creare la piena occupazione, riequilibrare il sud con il nord del Paese e, contemporaneamente, risanare il bilancio dello Stato. Fra questi l’opzione delle nazionalizzazioni, e socializzazioni (art.43), la protezione della proprietà terriera,  la protezione dell’artigianato e della cooperazione e infine “la tutela del risparmio in tutte le sue forme”(art.46)

Per ripartire ecco la risposta che Carta Costituzionale ci suggerisce: “ai fini dell’elevazione economica e sociale del lavoro, in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei limiti e nei modi stabiliti dalle leggi,alla gestione delle aziende.” I lavoratori non più come variabile di cui si può far a meno, ma come elemento essenziale e fondamentale del sistema produttivo per garantire la ” effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, sociale ed economica del paese“.(art.2)

Questa e la solidarietà che serve oggi ma che dovrà essere regola fondante del domani.

Togliatti che io non amo, parlò in seno alla Costituente di garantire “organi per l’esercizio di un controllo sulla produzione, da parte dei lavoratori di tutte le categorie e nell’interesse della collettività.” Ma Togliatti, si sa, era un opportunista  e non si curò di dare  gambe a questa dichiarazione di principio.

 La cogestione nasce in Italia  per opera di Mussolini, il quale con decreto legislativo  della R.S.I. del 12 febbraio 1943 intitolato  “Socializzazione delle Imprese”, creò una serie di regole che servivano a rendere le istituzioni funzionali. Ovviamente non vi era alcun diritto riconosciuto ai lavoratori.  Più pregnante risulta il riferimento ai consigli di fabbrica istituiti a Torino nel 1919 esaltati da Gramsci sull'”Ordine Nuovo”secondo il quale  i delegati potevano decidere “il controllo del personale tecnico, il licenziamento dei dipendenti che si dimostrano nemici della classe operaia, la lotta con la direzione per la conquista dei diritti di libertà il controllo della produzione dell”azienda  e delle operazioni finanziarie,”  Vi furono precedenti in Russia, in Austria, in Germania. L’art. 165 della Costituzione di Weimar così recita “per la tutela dei loro interessi sociali ed economici, operai e impiegati ottengono rappresentanze legali nei consigli operai d’azienda e in consigli operai distrettuali, articolati per settori economici, e in un  consiglio operaio dell’impero.” sappiamo come reagì la borghesia tedesca, ma il principio della cogestione sopravvisse fino a diventare legge nella Germania postbellica, grazie ad un socialista.

In Italia l’opposizione alla  cogestione è stata condivisa allegramente dai rappresentanti delle imprese e dei lavoratori. Eppure una serie di direttive europee (Dir. 2001/86/CE) Parla di “influenza dell’organo di rappresentanza dei lavoratori e/o dei rappresentanti dei lavoratori nelle attività di una società mediante il diritto di eleggere o designare alcuni dei membri dell’organo di vigilanza o di amministrazione della società o il diritto di raccomandare la designazione di alcuni o di tutti i membri dell’organo di vigilanza o di amministrazione della società e/o di opporvisi.”

La Volkswagen nella propria carta di comportamenti riconosce il diritto di cogestione nelle sue aziende in tutto il mondo. 

Non a caso la Germania e la Volkswagen!            

Le difficoltà finanziarie delle acciaierie Krupp furono risolte con la nazionalizzazione dell’industria  e con la reazione di una società nel cui consiglio di amministrazione sedevano rappresentanti delle banche, rappresentanti dello stato e rappresentanti dei sindacati del carbone e dell’acciaio.

Un sistema di pariteticità all’interno delle aziende strategiche per l’interesse nazionale attuerebbe quella democrazia industriale oggi assente in Italia. Grandi aziende sono gestite da funzionari che percepiscono stipendi giganteschi ma che non tutelano l’interesse delle aziende che amministrano e che dopo aver fatto disastri fuggono con liquidazioni milionarie.

Il problema del lavoro importante oggi, sarà vitale domani. Grazie al liberismo sfrenato di questi ultimi venti anni i diritti dei lavoratori sono stati calpestati. Oggi la televisione l’abbonamento a sky, l’autovettura a piccole rati mensili, il telefonino per tutti hanno fatto dimenticare alla colletività di dipendere da coloro che hanno avuto nelle mani le leve del potere economico e che pertanto per anni hanno potuto disporre del destino di masse di popolazione. Hitler non ebbe nè seguito, nè potere fin quando la Germania fu in espansione. Il potere venne quando in seguito alla grande depressione del 1930 entrò in crisi lo stato nazionale tedesco, fondato sul compromesso fra la grande borghesia  e le masse lavoratrici.

Una nuova strategia di ripresa economica in Italia, come in Europa, può svilupparsi solo nell’ambito di un sistema economico produttivo improntato sul principio della cogestione. Ogni altro  tentativo di ripresa economica è destinato alla sconfitta a al riproporsi di vecchi schemi in cui il potere economico e politico rimane nelle  mani della finanza internazionale con annullamento della sovranità degli stati e con l’isolamento dei lavoratori.

La cogestione invece può diventare strumento di mutamento sociale.

 Oggi  il lavoratori stanno collaborando per tenere in piedi l’emergenza. Nella fabbriche, negli ospedali, nei trasporti, nelle forze dell’ordine sono i lavoratori che stanno gestendo l’emergenza, ma questo dopo non sarà più sufficiente.

“Siamo nella stessa barca!” E’ vero, ma proprio perchè coloro che possiedono i mezzi di produzione e coloro che sono obbligati a vendere la loro forza lavoro i primi non dovranno più avere il diritto di gestire i propri strumenti in maniera autoritaria. Ci sono imprenditori che non sono altro che dirigenti e ci sono lavoratori che sarebbero in grado di gestire un’azienda proprio come sta succedendo oggi negli ospedali italiani.

Stiamo vedendo in questi giorni che gli imprenditori, malgrado l’emergenza, vogliono conservare il potere di decisione e di disposizione, mentre i lavoratori di fatto pongono in discussione tale diritto alla disposizione individuale. I lavoratori difendendo i loro interessi difendono l’interesse collettivo, che in questo caso è il diritto alla salute. Alla collaborazione allora si deve sostituire la cogestione.

Questa autonomia che i lavoratori, responsabilmente, si sono data, deve diventare effettiva in maniera tale che quel sistema che ci ha portato al tracollo economico venga stravolto in nome di un nuovo paradigma nei rapporti produttivi.

Introducendo nelle aziende il sistema della cogestione così come suggerito dall’art 46 della Costituzione significa allargare e approfondire il concetto di democrazia. Mentre la democrazia “normale” così come è concepita oggi è ristretta solo al livello politico e quindi soggetta a ridursi laddove le burocrazie nazionali ed internazionali prendono il sopravvento, la cogestione renderebbe democratici quei settori in cui le strutture autoritarie non sono mai state messe in discussione in nome di un efficientismo di maniera per cui l’azienda per come è strutturata è immodificabile nel tempo.  Siamo ancora ai tempi del “padrone del vapore”.

Tragica illusione.

La cogestione invece rende i produttori cioè gli operai, i dirigenti, gli impiegati, i lavoratori in  genere, cioè tutti coloro che prendono parte al processo produttivo   partecipi della produzione godendo nello steso tempo di ampi poteri democratici all’interno dell’azienda.

In questo senso la cogestione diventa il fondamento di una democrazia economica che significa controlla dal basso dei sistemi produttivi.

Certo si potrà dire che i sistemi produttivi attuali richiedono competenze e professionalità che i lavoratori non hanno, ma se questo è vero per i lavoratori, è  vero anche per i proprietari delle aziende. Oggi le azienda usano stuoli  di tecnici  cui far riferimento per tutte le esigenze aziendali Perché un’azienda cogestita non potrebbe fare lo stesso?  Quante aziende si sarebbero salvate dal fallimento se invece dell’uomo solo al comando avessero ascoltato il parere di quelli che lavoravano all’interno dell’azienda senza avere alcuna voce in capitolo sulla gestione.

Nei tempi recenti molte aziende si sono salvate perchè i dipendenti le hanno acquistate e ne sono diventati i titolari e con una gestione collettiva  hanno salvato i loro posti di lavoro e la produzione.

Molti soldi arriveranno dopo il coronavirus, già adesso i burocrati di Bruxelles lasciano che gli stati rompano il patto di stabilità per far fronte ad un’emergenza economica che già da adesso si profila disastrosa, ma non dovrà accadere quello  che è successo nel 2008 e cioè che questi soldi vadano solo ad alcuni dei protagonisti: alle banche, ai fondi di investimento, agli speculatori internazionali. Questa massa di soldi che sarà messa in circolo dovrà servire per ricostruire un tessuto industriale devastato da venti anni di iperliberismo.

Questa ricostruzione non si potrà fare se non ridando dignità agli stati nazionali e rendendo tutti partecipi della ricostruzione. Alitalia è stata nazionalizzata, ma non può essere messa in mano a burocrati super-pagati pronti  a svenderla. Alitalia vale molto, ma chi vuole prenderla la vuole senza prendere quelli che fanno volare glia aerei, gli stewards il personale di terra. Se invece costringiamo lo stato a mettere nella società costituenda nei consigli di amministrazione oltre ai rappresentanti del governo, delle banche che la finanzieranno, anche una rappresentanza dei lavoratori che possano decidere insieme il futuro forse salveranno un patrimonio costruito con i soldi degli italiani. Lo stesso discorso vale per la ex Ilva e per le autostrade.

Al posto del diritto individuale di diposizione sui mezzi di produzione del proprietario, sia esso pubblico che privato subentra un diritto di disposizione collettivo, nel quale i lavoratori quali organi democratici della produzione  hanno pari diritti. E’ un capitalismo nuovo che coinvolge la collettività e ed impone il diritto al controllo della produzione con un unico limite che è quello del bene comune. Si chiama democrazia ed i padri costituenti lo avevano capito.

Per evitare in futuro i disastri economici che fenomeni come il coronavirus  produrranno bisognerà arrivare insieme a queste emergenze.

“Insieme ce la faremo” diciamo oggi e ognuno sta facendo la sua parte: chi restando a casa, chi negli ospedali a salvare vite umane, che per le strade a presidiare il territorio, gli operai andando in fabbrica a lavorare  a rischio di contaminazione, ma domani dobbiamo lottare perché ci sia un processo di democratizzazione dell’economia, non più schiavi delle borse che non chiudono in questi giorni tragici e continuano a fare affari sulle cataste di morti. Il concetto che al proprietario, all’industriale può essere tutto concesso va ridimensionato.

Naturalmente la cogestione non riguarda il contadino che con le forze sue e della sua famiglia coltiva le terra, raccoglie i prodotti e li vende; nè può riguardare il piccolo negozio di ottica che vende occhiali. Viceversa la cogestione dovrà riguardare la fabbrica o la grande catena di distribuzione o quel settore strategico per l’economia nazionale che non possono essere gestiti senza l’apporto dei lavoratori. Abbiamo potuto tristemente constatare che il rischio d’impresa non è solo del proprietario ma anche e soprattutto dei lavoratori che dall’oggi al domani i trovano in cassa integrazione prima e in mezzo ad una strada dopo.

O si democratizza l’economia o questa massa di soldi che sta arrivando e che arriverà in futuro sarà preda del capitalismo finanziario che come dimostrano gli avvenimenti di questi giorni in cui mentre si muore da una parte dall’altra si continua a speculare tenendo le borse aperte.

Beppe Sarno

agosto 1, 2018

Testimone del tempo

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Andrea Camilleri,il papà di “Montalbano”cosa dice di Salvini
“Non ho rimpianti per il passato. Però questo è davvero un brutto passaggio nella storia italiana che temo non abbia paragoni con altri periodi-“Un paese che torna indietro, come i gamberi. È come se avesse cominciato a procedere in senso inverso, smarrendo le importanti conquiste sociali che aveva realizzato in passato. Se devo essere sincero, io non riconosco più gli italiani..
Non voglio fare paragoni,ma intorno alle posizioni estremiste di Salvini avverto lo stesso consenso che a dodici anni, nel 1937, sentivo intorno a Mussolini. Ed è un brutto consenso perché fa venire alla luce il lato peggiore degli italiani, quello che abbiamo sempre nascosto”. Quale? “Prima di tutto il razzismo. Noi ci siamo riparati dietro l’immagine stereotipata di ‘italiani brava gente’, ma non è sempre stato così, specie nell’Africa Orientale. Su questo preferisco sorvolare. Però ricordo ancora le scritte che mi accoglievano a Torino negli anni Sessanta quando andavo a lavorare nella sede Rai: ‘Non si affittano case ai meridionali’
“Una delle mie più grosse pene è proprio questa: a novantatré anni, a un passo dalla morte, mi trovo a lasciare a nipoti e pronipoti un’Italia che non mi aspettavo di lasciare in eredità. I miei uomini politici si chiamavano De Gasperi, Togliatti, Nenni, Sforza. Avevano un preciso concetto dello Stato e di quello che si poteva fare del paese. Abbiamo ricostruito l’Italia, ora la stiamo risfasciando. Per questa ragione sento di aver fallito come cittadino italiano. E mi pesa molto”
Andrea Camilleri
http://www.ilgiornale.it/…/camilleri-contro-salvini-attorno…

dicembre 4, 2013

Comunisti o riformisti?

novembre 19, 2013

Franklin Palmiro Roosevelt.

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Pubblichiamo un breve estratto del noto discorso su “Ceto medio ed Emilia Rossa” del segretario del PCI Palmiro Togliatti, tenuto a Reggio Emilia nel 1946, nel quale  riecheggia, quasi esplicitamente, l’ispirazione del New Deal di Franklin Delano Roosevelt. Come rileva Roberto Gualtieri, “il rapporto con i ceti medi, secondo Togliatti, era essenziale, sia per il radicamento del PCI che per la realizzazione di quel «patto tra produttori» che era al centro della proposta di politica economica da lui lanciata in agosto su «l’Unità» con un esplicito riferimento al New Deal rooseveltiano. Un «nuovo corso» la cui realizzazione era considerata necessaria per superare in modo duraturo le tensioni sociali che attraversavano il paese e per il successo della strategia lanciata a partire dalla «svolta di Salerno».

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