Archive for febbraio, 2020

febbraio 29, 2020

Chiediamo troppo?

Interno_chiesa_San_Lazzaro_Faenza“…e se ne vanno gli uomini ad ammirare le alte vette dei monti e i maestosi flutti dei mari e gl’immensi corsi dei fiumi e l’ampiezza dell’oceano e le enormi distanze delle stelle, e si dimenticano di se stessi….” : meditazione agostiniana, su cui casualmente cade l’attenzione di Francesco Petrarca, in preda ad un forte e autentico tormento spirituale per l’innegabile sua incapacità di non amare ciò che la mente gli dice di non amare… la gloria…l’amore….Laura! Gli si è appena svelata la grandezza dell’animo umano e della sua propria interiorità, che è in lui, e non ha necessità di essere cercata all’esterno! Perché cercare al di fuori di sé una bellezza che è da sempre e per sempre dentro di noi? E tale certezza acquieta l’angoscia del poeta, pur se momentaneamente. Mi viene in mente, per analogia, un Santuario dedicato a San Michele Arcangelo, in Piemonte, prodigiosamente innestato su uno sperone di roccia. Vi ascesi vari anni addietro, in tempi ahimé lontani dall’oggi e…dalla fede, ed esso fin dalla gradinata di accesso m’ispirò una prepotente, seduttiva, idea di ‘altrove’. Per la sua posizione elevatissima? Per la musica sublime che m’inondò? Che le eteree orbite celesti, ruotanti intorno al mondo, esistano davvero? e producano veramente un suono impercettibile ad orecchio umano, e che lì, e solo lì, l’immensità dell’etere si sia condensato anche per me, per me! in ‘musica mundi’ udibile?

Di esperienze analoghe ciascuno ne ha e ne ha avute. Ce le offre Qualcuno? Magari…! Saremmo già belli e appagati tutti! La musica, fino a prova contraria, nasce dall’uomo e nell’uomo. Ed essa si espande su un corpo: corpo che coincide con l’aritmetica dei ritmi, con le regolari alternanze di note e pause, con la successione di suoni secondo precise consonanze armoniche: tutto nasce dall’armonia, ma tutto va al di là dell’apparato tecnico e inventivo per creare… armonia! Come uno slancio vitale, sempre diverso e imprevedibile, infinito, la sua essenza, quella che ci cattura, che muove il nostro essere, è forse tutta qui: nel mistero della vita e della morte, o forse solo, esistenzialmente, nel ‘nonsenso’ della morte. Ed ecco l’interazione tra musica e fede. Ecco le domande fondamentali di cui vorremmo sentire dire: perché si muore? Da dove veniamo e dove siamo diretti? Esiste un fine in tutto questo vagare dell’universo? Altrimenti ci avrà detto più dei successori di Cristo il nostro Leopardi! Ma noi non vogliamo questo, in onore di quel Dio che continua a darci se stesso nel pane e nel vino. Basterebbe una liturgia veramente partecipata per sottrarci alla dispersione, alla frammentazione di vita persa dietro ai ‘fatti’ , alle ‘funzioni’, alla ‘chiacchiera’. Dispersione abbastanza alienante! Ah!… ecco forse la salvezza! Non abbiamo un rito settimanale, la Messa? Forse questa ci potrebbe aiutare!…. Ahi ahi! Ma perché spesso si è presi da un senso di insufficienza, teologicamente erronea, e di freddezza, durante la celebrazione? E frattanto siamo disturbati da canti a dir poco ‘parlati’, e chitarre a tutto spiano con tanto di microfono, che non hanno il potere di sollevarci di un solo palmo da terra! E così finiamo per chiederci perché quel Dio lì presente e vivo non abbia nulla da dirci! E magari ce ne usciamo di chiesa poi carichi di ulteriori sensi di colpa e di inadeguatezza personale. Forse dovremmo ripartire daccapo e cambiare qualcosa. Quanto sarebbe diversa la partecipazione personale, se nelle chiese non si fosse accantonata la tradizione della musica di qualità! Basterebbe riservare a strumenti come l’organo, o altro di serio, o a dei cori veri, professionali, qualche momento finalmente introspettivo. Forse non riusciamo a tornare dentro di noi al cospetto di Dio e non possiamo esprimergli i nostri lamenti, come Giobbe, certi di essere ascoltati… Perché mai Giobbe avrebbe gridato a Dio, se non avesse avuto la certezza dell’ascolto? Macché! Si sente solo il silenzio di Dio e quella stretta di mano che ci scambiamo tra vicini di panca non allude a riconciliazione alcuna, a nessuna ‘reductio ad unum’. Eppure non può essere tutto una formalità. E forse potremmo come S.Agostino desiderare di esporci allo sguardo dell’Altro non per vergognarcene, come Adamo ed Eva, ma per poterci a nostra volta guardare, guardare dentro di noi! con amore e perdono…perché forse ci sentiremo anche appagati dalla vita, ma non sapremo mai che cosa sia guardarsi con amore e rispetto di sé. E invece? In assenza di momenti interiorizzanti, veniamo invitati a ‘partecipare’ (!) aprendo e chiudendo le labbra, per cantare ‘in playback’ a volte amene canzoncine. Quanto sarebbe recuperato della nostra vita spirituale e culturale se, invece di ricorrere a giulivi musicanti, assordanti chitarre e festosi tamburelli, ci si attrezzasse a restaurare organi antichi facendo suonare e cantare chi abbia studiato musica! E se potessimo entrare in noi, e al contempo uscire da noi, su flussi di armonie….! Viene da chiedersi quali privilegiati percorsi spirituali avranno condotto ad opere spesso così ispirate. Altro che ritornelli e strofette pensate a tavolino…! Tanto per fare un nome, crediamo che il compositore che meriti il primato tra Sei e Settecento, se è lecito fare confronti tra diversi, tra i suoi contemporanei Couperin, Daquin, Clerambault, il nostro Corelli… è certamente Bach, capace di toccare le note più intime del nostro animo, come gli slanci più festosi e lieti, o grandiosi e alti. Si potrebbe, a questo punto, segnalare agli interessati qualche brano veramente significativo, nonché semplice, eseguibile in chiesa, ma anche per un ascolto privato. Nel periodo di Avvento, ad esempio, e Natalizio, è indicata, ed appropriata, l’esecuzione di Pastorali, caratterizzate da un ritmo ternario, e ne abbiamo di famosissime, come il corale di Bach: Wachet Auf BWV 645, compreso negli Schubler-Corale; o la pastorale di A. Corelli, dal Concerto Grosso op.6, n.8; il Noel X di C. Daquin (dal Grand Jeu et Duo) ; il Corale di Bach ‘In Dulci Iubilo’.. .. Invece, nel periodo quaresimale, che va dal mercoledì delle Ceneri alla Pasqua, la musica dovrebbe essere adeguata al tempo penitenziale ed escludere i momenti gioiosi delle Introduzioni e dei Finali, per conservare un tono più raccolto e sommesso. Ma, a parte le indicazioni ufficiali e no della Chiesa,comunque la musica liturgica è finalizzata sempre alla gloria di Dio e ad avvicinare la nostra creaturalità al Creatore, perché i nostri sensi ahimé sono deboli e necessitano di aiuto. E allora non resta che concludere che la musica è contemporaneamente ben più, e altrettanto meno, di una gratificante esecuzione concertistica, cosa che non avrebbe senso in quel contesto (per questo non è appropriato applaudire neanche alla fine della messa), né può apparire come una parentesi estetizzante per ‘alleggerire’ la ritualità. Certamente, invece, i brani sono sottomessi ai tempi e alle sonorità adatte per la liturgia, con preferenza per i bordoni e i flauti, registri bellissimi, che hanno un suono evocativo e intimo, con esclusione di trombe barocche, nazardo e simili dal timbro salottiero o stridulo, o rimbombante… E’ sempre non sottovalutabile, poi, tutt’altro, l’uso dei pedali, tipica peculiarità dello strumento in questione, che si inseriscono equilibratamente in un sapiente uso dei registri, già indicati negli spartiti, ma soggettivamente rielaborabili anche in ottemperanza all’organo di cui si dispone. (Gli organi, a differenza del piano, degli strumenti a corde, a fiato ecc. sono gli unici strumenti effettivamente diversi l’uno dall’altro per grandezza, numero di tastiere, estensione, registri, sonorità) Né il suono, per intensità, se accompagna il canto assembleare, può mai coprire le voci. Le sonorità spiegate in tutta la potenza dell’organo vanno riservate agli ‘a solo’ dell’inizio e della fine, e comunque usate con buon senso.

Ci aiuterà la musica ‘instrumentalis’a far fluire dentro di noi la musica ‘mundi’? Cioè la musica umana ci condurrà a quella musica che Dante immaginò prodotta dalla rotazione dei cieli eterei del Paradiso e dai cori degli Angeli? Chiediamo troppo? Noi suoniamo per Lui, ma la musica in compenso farà fluire dentro di noi il grande Assente-Presente rendendolo vivo e, chissà perché e come, rendendo anche noi stessi delle persone vive.

Gina Ascolese

 

febbraio 28, 2020

In occasione del Bicentenario dei Moti Carbonari del 1820

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Un romanzo storico: La fontana di Bellerofonte di C. Genovese

Quest’anno ricorre il bicentenario dei moti carbonari del 1820, che videro Avellino protagonista della storia d’Italia nel Risorgimento. Una testimonianza di presenza morale, intellettuale, civile, che ci fa onore e che fu l’anima del famoso moto rivoluzionario, iniziando col pronunciamento militare dei giovani ufficiali carbonari Morelli e Silvati, alla testa dello squadrone di cavalleria di stanza alla caserma di Nola. Il moto, partito quindi da Nola, coinvolse i centri di Monteforte, Avellino e Salerno e via via ingrossò le sue file con l’apporto di civili, liberali e Carbonari. Ma la proclamata monarchia costituzionale fu soffocata dopo soli nove mesi col sostegno di un esercito austriaco, che ripristinò l’ assolutismo borbonico. E il re Ferdinando I fu affiancato nella repressione dalla sanguinaria e vendicativa regina Maria Carolina.

A questo punto sembra doveroso, in tale contesto di celebrazione, menzionare il solo romanzo storico completamente incentrato sull’argomento, di notevole interesse, anche perché frutto di interessantissime ricerche personali, tutte documentate, opera dello scrittore, nostro conterraneo, Celestino  Genovese, che racconta efficacemente le eroiche vicende : “La fontana di Bellerofonte”, Pironti editore, Napoli 2014. Il romanzo ricostruisce la memoria dell’ evento a cui si sta facendo riferimento, e riguarda specificamente la storia degli anni venti-ventuno, ma con un’ottica puntata sull’Italia e sull’Europa. Un romanzo storico, quindi, che è ben più di un quadro della propria città. Ma il testo, unico nel suo genere, sembra ormai esaurito (qualche copia forse sembra sia ancora reperibile su Amazon) e pensiamo che sarebbe il caso che l’editore provvedesse a ristamparlo, anche in vista del Bicentenario.

Il titolo del romanzo deriva da una fontana seicentesca del Fanzago, anche detta ‘Fontana dei tre cannuoli’, sita lungo il Corso Umberto I di Avellino, all’epoca Via Regia delle Puglie. La città irpina viene fatta rivivere, come anche Napoli, nell’ antico aspetto, con vie, porte, ‘larghi’, attraverso una vicenda che specularmente riflette microstoria e macrostoria: i nove mesi di gravidanza segreta della giovanissima protagonista corrispondono a quelli del nonimestre costituzionale, mentre viene fatta ruotare una miriade di personaggi operosi e carichi di idee, dei quali diversi incarnano figure storiche reali, che ricorrono non casualmente nell’odierna toponomastica cittadina.

Il romanzo suscita interesse, dicevamo, per la fondata e convincente visione storica d’insieme, ma anche per i molti dettagli forniti. Ad esempio, si apprende, non senza sgomento, che sul patibolo, nei pressi di Porta Capuana a Napoli, il giovane Morelli orgogliosamente rifiutò di pentirsi, attestando di voler andare all’Inferno per aspettare lì il Borbone ed assistere alla sorte riservata al reazionario fedifrago…! Orgoglio per cui il suo corpo subì l’estrema infamia di non essere sepolto, ma gettato nella calce viva a bruciare! Il Pepe e il de Concilj non subirono la pena capitale, perché si sottrassero alla morte con la fuga per un volontario esilio, da cui tornarono in patria solo nel 1848, in mutate condizioni storiche. Apprendiamo che la Gran Corte Speciale di Napoli, attiva un anno circa dal ‘21 al ‘22, “comminò trenta condanne a morte con il terzo grado di pubblico esempio: trasporto del condannato sul luogo dell’esecuzione a piedi nudi, vestito di nero e con un velo nero che gli copriva il volto” e nel ‘23 aggiunse alle condanne quella in contumacia di Pepe, de Concilj, Carrascosa, Minichini. Leggiamo sempre : “Durante la repressione organizzata dal principe di Canosa, furono centinaia le esecuzioni capitali, le carcerazioni e gli esili, nonché i procedimenti restrittivi comminati a sacerdoti, insegnanti, etc”. E constatiamo che effettivamente, a proposito di Piazza Libertà : “Nessun monumento vi fu mai eretto a onorare la memoria di quei moti, tranne una targa con un piccolo altorilievo apposto sulla facciata del Palazzo del Governo. A Napoli, invece, in Piazza dei Martiri, fra i quattro grandi leoni di pietra che presidiano la colonna delle Virtù ve n’è uno, trafitto da una spada, che rappresenta i caduti carbonari del 1820-21”.

C’è materia sufficiente per celebrare la memoria di tale insurrezione?

Questo, sommariamente, il quadro storico dei moti carbonari e della “Fontana di Bellerofonte 1820”. Tuttavia sembra importante, per noi tutti meridionali e no, far menzione di un testo che lo onora, e ci onora, redatto da Giuseppe Poerio, padre di Carlo e Alessandro, quando il neoparlamento fu costretto a sciogliersi: testo riportato parola per parola, con cocente indignazione e fierezza, nel romanzo, alla data di Venerdì 3 marzo 1821.

Gina Ascolese

febbraio 13, 2020

Taranto città martire!

di Beppe Sarno Critica Sociale |

Scriveva Francesco Forte nel maggio 1969 sulla rivista “Critica Sociale”: “sono comunque del parere che la forza fondamentale di contrapposizione alle gradi imprese private e di salvaguardia del potere politico dalla loro influenza sta nell’azione delle imprese pubbliche e nell’espansione di tale azione. Per quanto “vecchia”  possa apparire questa dottrina essa è invece estremamente attuale. Rendere sempre più pubblica l’azione delle imprese pubbliche e mantenere e potenziare lo sviluppo dell’imprenditorialità pubblica sono i due elementi base per lottare contro la destra economica e contro le forze del potere economico privato come forza di dominio economico e di ipoteca politica.”

Non credo che il maestro con il passare degli anni abbia mutato parere, anche se espresse oggi queste idee lo farebbero mettere al bando da chi invece vede nel liberismo economico spinto e nel libero mercato la soluzione di tutti i problemi economici e politici.
Le parole di Forte, però, possono illuminarci ed indicare una possibile via d’uscita dal groviglio dell’ex Ilva di Taranto. Facciamo un passo indietro e ripercorriamo le tappe che ci  hanno portato all’attuale situazione.

Con la legge 3 dicembre 2012 lo stabilimento dell’ILVA viene qualificato come “stabilimento di interesse strategico nazionale” ciò perché doveva essere assicurata la “continuità produttiva dello stabilimento in considerazione dei prevalenti profili di protezione dell’ambiente e della salute, di ordine pubblico, di salvaguardia dei livelli occupazionali.”  La legge aveva quindi il compito di trovare soluzioni che ponessero in atto misure per risanare l’ambiente contaminato dalle scorie e dai fumi dello stabilimento; di impedire che diecimila persone andassero in mezzo ad una strada, creando  non solo problemi di miseria, ma soprattutto problemi di sicurezza che una disoccupazione così spinta avrebbe creato.

Il decreto legge 4 giugno 2013 autorizzava il Presidente del Consiglio dei Ministri a nominare Commissari per la gestione di stabilimenti di interessi strategici nazionali in caso di oggettivi “pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute a causa della inosservanza reiterata dell’autorizzazione integrata ambientale.”. L’art. 2 del decreto fa espresso riferimento allo stabilimento di Taranto.
Lo  Stato con inusitata sensibilità, con questi due strumenti legislativi aveva preso atto della gravità della situazione di Taranto  ed è intervenuto in prima persona perché le vicende dell’ILVA  incidono in modo grave sull’economia nazionale, affidando ai commissari la gestione  dello stabilimento.

Successivamente il ministro dell’ ambiente nominò un comitato di tre esperti che hanno realizzato il Piano Ambientale dell’ILVA per risolvere il problema dell’inquinamento dell’area intorno agli altiforni.
Accade però che nel 2015 c’è una prima inversione di tendenza il “Pubblico” si fa da parte e con il Decreto legge 5 gennaio 2015 il governo dà disposizioni ali Commissari di trovare un affittuario o un acquirente  “tra i soggetti che garantiscono la continuità produttiva dello stabilimento industriale di interesse strategico nazionale”.

Di fronte alla gravità del problema di Taranto qualcuno non ha avuto il coraggio di intraprendere una via difficile e tortuosa e piena di incognite e sicuri insuccessi. E’ cosi che lo “stabilimento di interesse strategico nazionale” scala di rango.
Il 15 gennaio 2016 i Commissari Straordinari bandiscono la gara per l’affitto o la vendita dello stabilimento di Taranto. Di 29 soggetti interessati  vengono ammesse alla gara solo la Arcelor Mittal e Acciaitalia s.p.a. Siam o al 30 giugno 2016.

La Arcelor Mittal nella gara era in cordata con la Marcegaglia Carbon Steel s.p.a., ma la Commissaria Europea alla Concorrenza impone l’esclusione della Marcegaglia da gruppo d’acquisto e  la vendita da parte della Mittal di sei stabilimenti di proprietà. Allo stato non risulta che questa seconda condizione sia stata rispettata.
La società Acciaiatalia era invece in partenariato con Cassa Depositi e Prestiti, Delfin, Arvedi acciai, Jsw Limited. In questo secondo gruppo è da evidenziare la presenza della Cassa depositi e prestiti società per azioni il cui capitale sociale per l’80% è di proprietà del Ministero del Tesoro e la restante è detenuta da Fondazioni bancarie che a loro volta son a gestione sia pubblica che privata, inoltre Presidente e Amministratore Delegato sono nominati dallo stesso Ministero e gestiscono di fatto un patrimonio economico e finanziario che si aggira intorno ai 230-250 miliardi di euro – oltre a decine di miliardi in obbligazioni e alla totalità delle azioni SACE – destinati sostanzialmente alla crescita economica del Paese.

Inoltre  l’Arvedi, società tutta italiana, ha una tecnologia produttiva che la Mittal non possiede. A prima vista sembrerebbe che la seconda dia maggiori garanzie da ogni punto di vista, ma per il governo non è così.
Il 5 giugno 2017 Il Ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda autorizza l’aggiudicazione in favore dell’Alcelor Mittal in maniera del tutto apodittica tenuto conto che gli stessi tecnici nominati dai commissari definiscono il piano della Mittal “Incoerente” e che la società Acciai Italia pare abbia offerto migliori garanzie della Mittal.
Gentiloni e Calenda tirano dritto.

In data 28 giugno 2017 viene sottoscritto il contratto fra i Commissari e la Alcelor Mittal e successivamente il 14 settembre 2018 viene sottoscritto un accordo modificativo e in data 31 ottobre 2018 venivano sottoscritti i contratti attuativi con decorrenza degli affitti aziendali dal primo novembre 2018. Ad oggi dei 180 milioni di affitto da pagare non c’è traccia.
Nel frattempo  i sindacati approvano l’accordo intervenuto fra i commissari e l’Alcelor Mittal. Il 92% dei lavoratori dice “sì” all’accordo e i capi sindacali parlano di autentico plebiscito.

Cosa prevedeva l’accordo?

Il versamento di 1,8 miliardi di euro per l’acquisizione del gruppo ILVA; la garanzia di una produzione di 6 milioni di tonnellate all’anno, con l’impegno ad arrivare al 2023  a dieci tonnellate, in cambio si chiedevano  ingenti tagli occupazionali 9.440 con un taglio di 4.880 unità lavorative, per poi scendere nel 2023 a 8.400. Sotto il profilo ambientale la Mittal si impegnava a impiegare nuove tecnologie, a bassa emissione di anidrite carbonica, che poi si è scoperto non avere, la copertura dei parchi minerari, e investimenti per il risanamento ambientale paria euro 1,15 miliardi. Dal punto di vista industriale la Mittal si impegnava al rifacimento del forno “5” per una spesa di 1,25 miliardi.

Passa un anno e la Mittal introduce presso il Tribunale di Milano una citazione per ottenere la risoluzione del Contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta ai sensi dell’art. 1467 e contestualmente il 4 novembre 2018 viene inviata dall’amministratore delegato una lettera ai Commissari Straordinari in cui si comunica che entro trenta giorni si procederà alla restituzione degli impianti ed allo spegnimento graduale dei forni entro la di gennaio.

Ma che cosa è successo nel frattempo dalla sottoscrizione del contratto e la sua richiesta di risoluzione.
Ce lo spiegano i commissari straordinari nel ricorso ex art 700 c.p.c. depositato preso il Tribunale di Milano in corso di causa.
Mentre in perfetta buonafede i Commissari consegnavano uno stabilimento in grado di funzionare la Mittal fin da subito, come si legge nel ricorso depositato presso il Tribunale di Milano: “ha interrotto qualsiasi ordine ed acquisto di materie prime; ha rifiutato i nuovi ordini dei clienti; ha interrotto i rapporti con i subfornitori; ha interrotto l’avanzamento del piano ambientale  sta interrompendo la manutenzione degli impianti (da mesi eseguita – ora si comprende perché – con modalità non corrette e poco diligenti.)

I commissari, nel ricorso ci spiegano anche che al momento della presa di consegna dello stabilimento il magazzino aveva un valore di 500.000,00 euro “l’azienda non ha al momento alcuna giacenza e rifiuta di procedere ad alcun ulteriore acquisto.”
Sorge spontanea la domanda: che fine hanno fatto queste giacenze visto che non sono state utilizzate e non esiste più un magazzino ricambi?

La risposta arriverà dalle Procure di Milano e Taranto che stanno indagando.
Dal punto di vista politico il premier Conte afferma che lo stabilimento di Taranto non deve in nessun caso chiudere. Nel frattempo la triplice sindacale viene ricevuta dal Presidente della Repubblica Mattarella a riprova dell’importanza strategica dello stabilimento di Taranto per l’economia nazionale.
Facendo seguito alle dichiarazioni del Governo i Commissari introducono un ricorso ex art. 700 c.p.c. con il quale contestando le pretese della Mittal chiedono al Tribunale di Milano di ordinare alla Mittal di astenersi dal procedere allo spegnimento dei forni mantenendoli ad un livello di temperatura che ne garantisca la funzionalità; mantenere la continuità produttiva; adempiere alle obbligazioni assunte nel contratto a su tempo sottoscritto.

Nel giudizio sono intervenute la Procura della Repubblica di Milano e la Procura della Repubblica di Taranto oltre la Regione Puglia. Non si comprende perché non siano intervenuti i sindacati che sono quelli che avevano maggior interesse a contestare le pretese della Mittal.
La Procura di Milano ha giustificato il suo intervento “come portatrice di un Pubblico interesse”. Contemporaneamente il Procuratore Francesco Greco ha delegato la Guardia di Finanza a svolgere accertamenti preliminari per verificare l’eventuale sussistenza di reati.

La Procura di Taranto d’intesa con quella di Milano sempre con l’ausilio della Guardia di Finanza ipotizza la violazione dell’art.499 del Codice penale: ‘”Distruzione di materie prime o di prodotti agricoli o industriali ovvero di mezzi di produzione.” Si tratta dello stesso reato avanzato dai commissari Ilva nell’esposto presentato oggi in Procura a Taranto dopo il disimpegno di Arcelor Mittal. L’articolo punisce con la reclusione da 3 a 12 anni e con una multa non inferiore circa 2.065 euro «chiunque, distruggendo materie prime o prodotti agricoli o industriali, ovvero mezzi di produzione, cagiona un grave nocumento alla produzione nazionale, o fa venir meno in misura notevole merci di comune o largo consumo».

In buona sostanza costituendosi nel giudizio iniziato dalla Mittal a Milano i Commissari nel contestare le pretese della Mittal ipotizzano che la crisi che la Mittal denuncia, sia una crisi pilotata dalla stessa con i comportamenti messi in atto fin dalla presa di possesso dello stabilimento.
Si legge nel ricorso infatti “ Il perfetto coordinamento temporale della iniziativa (il comunicato nd.r.) con l’azione giudiziaria notificata il giorno successivo ben dimostra come tale condotta fosse il frutto di una accurata e programmata pianificazione..le vere ragioni dell’iniziativa della Arcelor Mittal nulla hanno a che fare con le questioni formalmente sollevate: esse sono evidentemente da ascrivere ..alla pervicace volontà di eliminare dal mercato definitivamente un proprio concorrente distruggendone l’organizzazione aziendale.”

I Commissari a mezzo dei propri avvocati sostengono che le condizioni poste dalla Mittal e che sono il ripristino dello scudo penale, l’autorizzazione a licenziare 5.000 operai, ridurre la produzione da sei a 4 milioni di tonnellate e l’autorizzazione a tenere aperti i forni sotto esame della magistratura per altri 14-16 mesi sono condizioni irricevibili e che dimostrano “ in se il reale fine di rendere impraticabile qualsiasi trattativa concreta e portare a termine la iniziativa distruttiva illegittimamente assunta”

A riprova di questo intento fraudolento nel ricorso viene indicato l’esempio del centro siderurgico di Hunedoara in Romania acquistato dalla Alcelor Mittal, in cui “ successivamente all’acquisizione del 2003, Arcelor Mittal ha posto in essere una progressiva cancellazione del centro siderurgico, procedendo gradualmente al licenziamento di due terzi del personale rimanente ad una precedente riduzione nel 2011 a meno di 700 dipendenti.” Inizialmente i dipendenti erano 20.000 e fatte le debite proporzioni a Taranto i dipendenti alla fine dovrebbero ridursi a 350 unità.
Un bel successo!

Su richiesta delle parti dal sei novembre ad oggi ci sono stato una serie di rinvii di cui l’ultimo il 7 febbraio fino al 6 marzo per definire un ulteriore accordo fra il governo e la MIttal.
Le richieste della Mittal per riprendere la conduzione dello stabilimento di Taranto sono tre: la reintroduzione dello scudo penale per completare il piano di risanamento ambientale. Lucia Morselli Ad. della Mittal ha dichiarato: «Senza scudo lavorare a Taranto è diventato un crimine».

La seconda condizione di Arcelor Mittal riguarda gli esuberi ed è collegata al dissequestro dell’altoforno numero 2. Tale condizione è stata superata dalla decisione del Tribunale del riesame di sospendere le procedure di spegnimento del  cd. “Afo 2”
La terza condizione, è una rivisitazione del piano industriale. E qui entra in gioco la proposta di Conte e del ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, di un eventuale ingresso nell’azionariato di Am Investco Italy (la società del gruppo franco-indiano che gestisce gli ex impianti Ilva) di Cassa depositi e prestiti.

Ingresso che i Mittal sono pronti ad accogliere, anche perché permetterebbe all’azienda franco-indiana di abbassare i costi di gestione e di affitto e sarebbe il segnale (atteso) di garanzie solide e di interesse concreto nell’acciaieria da parte di investitori pubblici. Vi sono però in questa soluzione problemi operativi perché la Cassa depositi e Prestiti non può entrare in società in perdita.
Da parte sua Il Presidente Conte non accetta la richiesta di riduzione del personale e il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, ha messo  a punto una contro-proposta, per realizzare a Taranto uno stabilimento siderurgico all’avanguardia in Europa.

Strana ipotesi se si considera che con gli attuali dipendenti si può arrivare a sei milioni di tonnellate e riducendo ulteriormente il personale Patuanelli dovrebbe spiegare come potrebbe arrivare ad una produzione di dieci milioni di tonnellate.
Ci stanno prendendo in giro.

I rumori circa l’accordo definitivo fra Commissari e Mittal  parlano di un’accettazione da parte dei primi dei tagli all’occupazione con il ricorso agli ammortizzatori sociali, l’ingresso in qualche modo della Cassa depositi e Prestiti o comunque del Capitale pubblico, la reintroduzione dello scudo penale ed infine una clausola che definisce le condizioni del disimpegno della Mittal.
Questa ultima proposta, se è vera, dimostra che le intenzioni della Mittal non sono cambiate da quelle che aveva all’inizio e che i Commissari nel loro ricorso hanno efficacemente denunziato e cioè approfittare della  situazione di favore offerta dal Governo Conte, portare un po’ di soldi a casa e distruggere definitivamente l’industria siderurgica italiana, lasciandosi alle spalle solo macerie.

E Taranto e gli operai e i sindacati!

Non rappresentano nulla né per la Mittal nè per il Governo Conte, solo un fastidioso orpello.
Nell’articolo citato all’inizio Francesco Forte scrive “Vi sono però sfere ove il cordone ombelicale non è stato ancora reciso e l’impresa pubblica è spesso costretta ad un’azione difensiva rispetto alle pressioni che i poteri economici privati, nazionali ed internazionali esercitano o cercano di esercitare sul governo, sui partiti, sulla stampa, su forze di vario genere. A volte viene abilmente sfruttato l’argomento “programmazione” per cercare di tagliare le unghie alle imprese pubbliche e per dare una veste progressista a questa azione.”

Nel nostro caso più che di pressioni si tratta di un vero e proprio ricatto.
Ma può l’Italia accettare questo ricatto sulla base del quale la Mittal resta ma a spese dello Stato, dei lavoratori dei cittadini di Taranto e dell’intera comunità nazionale per poi alla fine lasciarla andare via come ha già fatto in altre situazioni?
Bagnoli di Napoli che era una piccola realtà rispetto a Taranto, quando fu chiusa i politici dell’epoca promisero risanamento ambientale, rilancio della zona, investimenti, lavoro. Rimangono solo spazi vuoti e scheletri di capannoni dove una volta il lavoro c’era.

La Mittal a detta dei commissari ha posto in essere fin dal suo insediamento a Taranto un piano preordinato creando i presupposti di per una crisi  tesa ad “eliminare dal mercato definitivamente un proprio concorrente distruggendone l’organizzazione aziendale.”
La Mittal potrebbe essere imputata di reati gravissimi di vario genere.
La Mittal potrebbe aver sottratto beni per cinquecentomila euro.
La Mittal vuole pervicacemente portare a termine la iniziativa distruttiva illegittimamente assunta” .
Dovunque è stata ha prodotto disoccupazione e disastri ambientali.
Cosa fa pensare a Conte che la Mittal in Italia si possa comportare in maniere diversa?
Non ci si può affidare ai privati per la soluzione del problema di Taranto perché il governo ha chiarito fin da subito che il problema della siderurgia in Italia si risolve solo con l’intervento dello Stato, perché come opportunamente sancito dalla legge 3 dicembre 2012 lo stabilimento dell’ILVA viene qualificato come “stabilimento di interesse strategico nazionale”. Perché il Presidente della Repubblica con la sensibilità che gli è consueta ha sottolineato la gravità del problema sia dal punto di vista industriale, occupazionale e ambientale.

La risposta c’è! Basta guardarsi attorno. Se Il governo si è reso conto che senza l’intervento dello Stato non si può risolvere il problema della siderurgia italiana che è un problema economico rilevante e che secondo stime del Sole 24 ore, la sua perdita farebbe perdere un punto virgola sei di PIL perché invece di regalare soldi ad una multinazionale vampira che ha dimostrato di voler fare esclusivamente una rapina ai danni dell’Italia non ci si rivolge agli attori silenti di questa tragedia e cioè agli operai delle acciaierie e con esse ai sindacati che in questa occasione stanno dimostrando di avere senso delle istituzioni?

Qui non si tratta di avviare una anacronistica operazione in cui lo Stato sostituendosi al privato si comporta in maniera simile. Un operazione in cui lo Stato si sostituisca al privato sic et simpliciter  non avrebbe senso come non ha senso l’opzione ventilata da Conte di entrare in società con la Mittal. I cinque stelle che tanto parlano di democrazia diretta perché non affrontano il problema da questo punto di vista?
La cogestione, perché è di questo che parliamo, esiste già in altri paesi: in Germania, ma non solo Germania.

Dopo la seconda guerra mondiale vi sono state forme di cogestione in Inghilterra, in Francia dove i consigli di azienda hanno conquistato un’importanza fondamentale della cogestione delle aziende statalizzate.
Ma è in Germania che la cogestione aziendale ha trovato la sua massima applicazione. Infatti nel 1919 fu approvata una legge che istituiva la rappresentanza operaia nei consigli di fabbrica: Inizialmente i poteri di questi consigli di fabbrica erano limitati, ma poi dopo la seconda guerra mondiale la necessità di riprendere l’economia nazionale spinse il movimento sindacale ad ottenere maggior potere soprattutto nella zona del bacini della Ruhr dove la ripresa della produzione si verificò quasi esclusivamente per l’iniziativa operaia.

A quell’epoca tutte le aziende erano sotto il controllo delle autorità britanniche di occupazione che affidarono ad una Società Fiduciaria la gestione aziendale. I sindacati ottennero il riconoscimento del diritto di cogestione. Tutte le aziende costituirono consigli di amministrazione con undici delegati di cui cinque di nomina sindacale, cinque di nomina aziendale più un tecnico estraneo.
Le acciaierie Krupp in crisi accettarono la regola della cogestione. L’azienda Krupp fu trasformata in società per azioni e così fu possibile applicare la cogestione prevista da una legge del 1951, che consentiva tale istituto alle aziende con più di mille dipendenti e ai lavoratori fu consentito di esercitare un certo controllo sull’attività dei complessi industriali che avevano un peso determinate nella vita economica del paese.

Nel 1976, il governo del socialdemocratico Helmut Schmidt approvò, con un largo consenso politico, la riforma che introduceva in Germania il principio della cogestione (Mitbestimmung). La gestione delle imprese tedesche era affidata a due organi: un Consiglio Esecutivo (Vorstand) e un Consiglio di Sorveglianza (Aufsichtsrat). I lavoratori avevano diritto di eleggere metà dei rappresentanti del Consiglio di Sorveglianza. La restante metà e il Presidente sono eletti dall’Assemblea degli Azionisti. Per le delibere del Consiglio di Sorveglianza, il voto del Presidente vale doppio in caso di parità degli esiti elettorali.

La Germania non è un paese comunista né un paese in crisi. Allora perché invece di regalare soldi ai briganti venuti dall’India non si pone in essere un modello che ha dimostrato di funzionare da più di ottanta anni, introducendo nel nostro ordinamento principi di democrazia industriale che porterebbero dare più frutti di quanti ne possa portare la Mittal. Gli operai di Taranto non possono delocalizzare e gli stessi in quanto vittime dell’inquinamento ambientale avrebbero sicuramente interesse ad risolvere il problema del risanamento ambientale.
Peraltro la cogestione in Italia divenne legge all’indomani della Liberazione poi gli alleati imposero la revoca. Uno dei fautori della cogestione furono Rodolfo Morandi.

In Italia paradossalmente la cogestione non ha mai preso piede per l’ostilità dei comunisti verso questo strumento considerato da lor antitetico agli interessi degli operai. Chissà perché? Eppure l’inattuato articolo 46 della Costituzione recita testualmente “Ai fini dell’Elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi alla gestione delle aziende.”
Cogestione nel senso indicato dalla Carta Costituzionale non significa quindi collaborazione. Perché la collaborazione di fatto cristallizza i rapporti di forza all’interno della fabbrica dove il padrone è padrone e l’operaio resta tale. Cogestione invece significa l’introduzione del concetto di democrazia all’interno della fabbrica e diventa quindi strumento di progresso.

In questo senso gli operai, gli impiegati, i quadri prendono parte alla processo produttivo influenzandone le scelte, le strategie i progetti, godendo ampi poteri democratici all’interno dell’azienda.
In un saggio pubblicato nella Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2014, n. 1, parte I Pietro Ichino dopo aver chiarito che la responsabilità della mancata introduzione di elementi di cogestione aziendale sia da ascriversi alla opposizione del PCI e della CGIL afferma l’autore “La partecipazione dei lavoratori in azienda viene bollata come una “mistificazione”, funzionale alla cultura della pace sociale, al depotenziamento delle lotte operaie, quindi fondamentalmente agli interessi della classe imprenditoriale.”

Inoltre La Commissione Lavoro del Senato nel corso della XVI° legislatura approvò il testo l testo unificato dei disegni di legge in materia di partecipazione dei lavoratori in azienda. Da Questo testo scaturì la delega legislativa contenuta nella legge Fornero (28 giugno 2012 n. 92), rimasta disattesa, poi il disegno di legge bi-partisan 4 dicembre 2013 n. 1051, presentato  dal Presidente della Commissione Lavoro del Senato con le firme di senatori di tutti i gruppi.

Pur senza farmi eccessive illusioni ritengo che solo avendo il coraggio di intraprendere la strada della cogestione aziendale si può risolvere il problema di Taranto. I Produttori cioè gli operai e gli impiegati prendono in mano il processo produttivo ed il risanamento ambientale godendo di ampi poteri condivisi all’interno dell’azienda. E’ chiaro che una opzione del genere fa paura perchè essa costituisce il fondamento di una democrazia effettivamente funzionante in campo economico così come previsto dall’art. 46 della Carta Costituzionale.

Qualcuno potrebbe dire che gli operai di Taranto non sono maturi per affrontare un problema così grande.
Creto il problema e grave e la siderurgia è assai complicata come materia che presuppone conoscenze specialistiche. Ma siamo sicuri che la Mittal sia all’altezza del compito? Per i disastri che ha provocato nel resto del mondo sembra che sia solo un vampiro che produce devastazioni ovunque vada sottraendo ricchezze e lasciando dietro di sé solo macerie.

Quante aziende in Italia fallite si si sarebbero potute salvare dal fallimento, se la direzione avesse prestato ascolto alle proposte concrete dei consigli d’azienda del lavoratori.
Certo ci sarebbe una fase transitoria di preparazione e di acquisizione di esperienza. Tuttavia, neppure il migliore degli insegnamenti può sostituire la scuola dell’esperienza pratica. Bisogna smetterla di ritenere i lavoratori come una massa amorfa senza nessuna competenza buona solo ad eseguire ordini impartiti dall’alto. Questa leggenda non merita di essere presa sul serio perché esprime solamente l’arroganza di coloro che si immaginano di essere nati per comandare.

Al posto di riconoscere il diritto di disposizione dello stabilimento di Taranto in capo alla Mittal, macon i soldi dei contribuenti, il Governo deve aver il coraggio di riconoscere a Taranto ai suoi operai ai suoi cittadini il diritto collettivo di disposizione dello stabilimento, nel quale il “fattore lavoro” rappresentato da organi democratici dei produttori e delle vittime dell’inquinamento ambientale in condizione di parità di diritti diventa motore della rinascita dello stabilimento e del risanamento ambientale della città.
Il ministro dell’economia Gualtieri, che ha già dato prova di grandi capacità di  governo ha ipotizzato la creazione di una Newco in cui sia presente la Cassa Depositi e Prestiti. Si lasci andare al suo destino la Mittal e si faccia entrare in questa nuova società il Comune di Taranto, tutti i paesi della provincia di Taranto, si riservi gratuitamente un terzo del capitale sociale agli operai in forza allo stabilimento di Taranto e delle altre aziende siderurgiche coinvolte e si crei un consiglio di amministrazione con una rappresentanza paritetica degli azionisti introducendo il principio della cogestione aziendale.

Se questa formula ha dato buoni frutti in Germania, in Austria in Francia e persino nell’ultra-capitalistica America non vedo perché non dovrebbe funzionare in Italia.
Ritengo che ogni altra soluzione cosi come affermato dai Commissari nel ricorso presentato davanti ai giudici di Milano “comporterebbe la distruzione della maggior azienda siderurgica nazionale, centro di aggregazione socio economico insostituibile per non poche (e non ricche) aree e comunità sociali italiane, e di un patrimonio aziendale di esperienza e know-how incalcolabili, nonché la ferita mortale ad una platea di subfornitori di decisiva importanza per le aree interessate, con effetti quindi disastrosi sul tessuto industriale dell’intero Paese e della stessa Unione Europea.”