Archive for gennaio, 2021

gennaio 29, 2021

…. E se Gina non la pensasse come me?

Di Beppe Sarno

Il 13 gennaio 1921 il comitato esecutivo della terza internazionale inviava un telegramma alla direzione del Partito Socialista che si apprestava a celebrare il XVII° congresso nazionale.

Il telegramma firmato per la componente russa da Lenin, Bukarin, Trotsky, Lesowski, sulla  base delle considerazioni che in Italia più che in ogni altro  paese fossero maturi i tempi per una azione rivoluzionaria, nel condannare la frazione che faceva riferimento a Serrati, chiudeva il telegramma con la dichiarazione non negoziabile che “Il Partito comunista Italiano deve essere creato ad ogni modo” e concludeva “Abbasso il riformismo, viva il vero partito comunista italiano!”  e nel contempo si chiedeva l’espulsione della frazione guidata da Filippo Turati.

Con queste premesse è difficile pensare che il congresso potesse andare diversamente da come effettivamente si svolse. Era la terza internazionale che pretendeva la scissione. Il giorno successivo, 15 gennaio si riunisce il comitato dei comunisti unitari e Serrati tiene una lunga conferenza sulla situazione in Russia e sulle direttive della Terza Internazionale.

Il sedici gennaio si inaugura ufficialmente il XVII° congresso del partito socialista italiano.  Il Partito arriva a questo appuntamento diviso, confuso ed impotente incapace di scegliere tra la soluzione riformista e quella rivoluzionaria. La frazione comunista del Psi che aveva visto nell’occupazione delle fabbriche la premessa storica della rivoluzione proletaria nell’ottobre 1920 aveva elaborato a Bologna  un manifesto programmatico firmato da Bordiga, Gramsci, Terracini e Bombacci. Questo manifesto venne poi confermato ad Imola il novembre successivo e divenne il punto discriminante fra l’ala rivoluzionaria e quella riformista al congresso di Livorno.

Al congresso quattromila sezioni rappresentate salutavo il relatore ufficiale Giovanni Bacci. L’oratore ricorda che ricorre l’anniversario dell’insurrezione armata di Spartacus  e la ricorrenza della morte di  Rosa Luxemburg uccisa insieme a  Liebknecht, dai miliziani dei cosiddetti Freikorps, i gruppi paramilitari agli ordini del governo del socialdemocratico Friedrich Ebert.

E’ il tedesco Levi che accende la miccia della divisione. Ricordando la Luxemburg e Liebknecht afferma testualmente “Vi sono momenti in cui bisogna dividersi, chi è stato fratello oggi potrà non esserlo domani” e conclude il suo intervento dichiarando “il proletariato deve essere guidato da un partito comunista unico!”

Tranquilli nel portare il saluto della Federazione giovanile socialista afferma “oggi qui debbono essere bruciati i fantocci dell’unità!”

Per Graziadei l’esistenza delle condizioni per una lotta rivoluzionaria e l’impossibilità a far convivere in un partito l’anima socialdemocratica e quella comunista non può che portare ad una rottura per aderire alle tesi della terza internazionale.

Per evitare la scissione Serrati propone l’approvazione di venti dei ventuno punti posti dalla Terza Internazionale. L’ultimo punto quello che divenne lo spartiacque fra i comunisti ed il resto del partito fu l’espulsione dei riformisti di Turati e Matteotti. 

La relazione di Lazzari apre il terzo giorno del congresso ed è un invito all’unità. “La frazione che vuole la scissione contrappone socialismo e comunismo!” e  “La separazione che si vuole fare fra socialisti e comunisti è artificiale e artificiosa” Lazzari non dimentica di far osservare quanto possa essere dannosa una scissione che non sarebbe capita dagli operai e dai contadini. “Noi non abbiamo il diritto di distruggere tutto.” Di segno opposto la relazione di Terracini che afferma “il proletariato è pronto per la conquista del potere” e “Il partito socialista così come è congegnato non può compiere questa missione!”

Il 20 gennaio parla Amedeo Bordiga. Per Bordiga il riformismo è funzionale al capitalismo e quindi solo un’azione rivoluzionaria può liberare la classe operaia dall’oppressione capitalistica. In questo senso il partito socialista è incapace di sviluppare energie rivoluzionarie. Bordiga conclude il suo discorso affermando “A chi chiede cosa faremo noi rispondiamo che faremo ciò che fa Mosca …. non falliremo e prendiamo impegno di consacrare tutta la nostra opera alla lotta contro tutti gli avversari della rivoluzione, alla lotta per raggiungere l’ultima meta: la Repubblica dei Soviet in Italia!”

E’ Bordiga il regista della frazione scissionista, non Togliatti, che è rimasto a Torino, non Gramsci che non prende la parola durante il congresso.

Nella seduta pomeridiana è Turati a prendere la parola, con un discorso dal sapore antico e poco convincente parla e condanna la violenza come strategia per prendere il potere, ma in buona sostanza aspetta l’evolversi degli eventi.

Bombacci rivendicando la fedeltà alla Terza Internazionale parla di una scissione necessaria destinata a rimarginarsi dopo la rivoluzione imminente. Bombacci chiudendo il suo intervento dichiara “Usciamo dal partito, ma non dal socialismo, è’ la rivoluzione russa che ci chiama sotto la sua bandiera, perché l’opera dei soviet deve trionfare per tutta l’Internazionale.”

Il 21 gennaio la mozione unitaria vince il congresso non prima di un intervento ultimativo del delegato Kabaktchieff, il quale  comunica che qualora non si dovesse votare per la mozione comunista il partito socialista italiano sarebbe fuori dalla Terza Internazionale.

Infine Bordiga  invita la frazione Comunista, sconfitta dal congresso  a sbattere la porta e ad andarsene. «I delegati che hanno votato la mozione comunista abbandonino la sala. Sono convocati alle undici al teatro San Marco per deliberare la costituzione del Partito Comunista».

Nel comunicato conclusivo del congresso è scritto “Il Partito Socialista Italiano sostiene che la rivoluzione in Italia nelle forme violente e distruggitrici volute dal comunismo con l’immediata formazione di tipo russo  sarebbe destinata a crollare a breve scadenza ove mancasse la concorrente azione economica e politica del proletariato di alcuni paesi più ricchi durante l’immancabile precipitazione economica.”

L’articolo di fondo dell’Avanti del 22 gennaio analizza la scissione e le sue conseguenze. L’articolo presumibilmente firmato da Serrati afferma che la scissione è poca cosa difronte al più grave problema di capire “la posizione del proletariato dei vari paesi di fronte alla rivoluzione.” C’è da parte di Mosca la volontà di far precipitare “artificialmente” la situazione anziché analizzare gli avvenimenti. La scissione, denuncia l’articolo  “avvenuta per atto d’imperio….ed è stata come un fenomeno d’importazione” E conclude “ Così mentre il capitalismo sferra il proprio attacco, la Terza Internazionale, anche la dove non era necessario, provoca la scissura dei socialisti, spezza il movimento, scioglie le file di coloro che le creano, ….Questo è l’errore, errore pratico, politico del quale i compagni della Terza Internazionale si renderanno conto quando sarà loro dimostrato….che non si violenta la storia e non si provocano  artificialmente situazioni che non hanno la loro ragion d’essere nella realtà. “

“Non si violenta la storia! Frase potente e nello stesso tempo struggente.

Intanto arriva da Bologna la notizia che la camera del lavoro di Bologna e di Modena sono state incendiate dalle bande fasciste, nella mattina a Modena e la sera a Bologna sotto l’indifferenza delle forze dell’ordine. A Milano la libreria in cui si vendeva l’Avanti viene saccheggiata e distrutta. L’articolo si conclude con un appello all’unità “La scissione oggi nelle presenti circostanze è eminentemente reazionaria. Giova ai dominatori, spezza le reni al movimento di classe. Compagni restiamo uniti. E’ l’ora del pericolo.”

Mai allarme fu così fondato.

Il giorno successivo la direzione del Partito firma un appello ai lavoratori nel quale denuncia  che la scissione è avvenuta solo per la forte volontà dei rappresentanti della Terza Internazionale e dichiara che la scissione favorirà esclusivamente le forze reazionarie che già sono all’opera.

Lasciando il Teatro Goldoni gli scissionisti cantando l’internazionale si avviano verso il Teatro San Marco  dove viene celebrato il primo congresso del Partito Comunista “ Sezione dell’Internazionale comunista “ Fra tutti spicca la figura di Amedeo Bordiga capo effettivo del partito. Oggi si celebra il centesimo anno da quell’evento con grande e sospetta enfasi. La domanda che sorge spontanea è se quel partito nato al Teatro san Marco di Livorno è veramente il partito che oggi si celebra e soprattutto: fu vera gloria?  Veramente quella scissione era necessaria per il movimento dei lavoratori? Va detto che la scissione di Livorno non nasce per caso essa è solo la certificazione di una lacerazione profonda che si era andata creando all’interno dl partito Socialisti negli anni precedenti. A Livorno si arriva con un’Italia scossa da una profonda crisi economica  con una classe operaia che esce sconfitta dal biennio rosso. Nel 1917 il partito adottò un programma  come base della sua azione per il dopoguerra. Chiedeva il suffragio universale, era favorevole alla repubblica, proponeva un vasto intervento economico con la promozione di una serie di lavori pubblici e con la bonifica delle terre incolte. Il giovane Amedeo Bordiga, aveva appena 28 anni, denunciò questo programma  perché non si poneva il problema delle guerra. In realtà la sinistra di Bordiga, Bombacci, era decisamente rivoluzionaria  e contro la guerra, mentre l’ala destra del partito sotto la guida di Filippo Turati aveva appoggiato apertamente lo sforzo bellico.  Lo scoppio della rivoluzione russa entusiasmò la base del partito che si sentiva pronta per la rivoluzione, ma fra il dire e il fare……e  poi non va dimenticato che nel 1919 le gerarchie vaticane autorizzarono don Sturzo a fondare un partito cattolico, che ebbe grosse adesioni soprattutto nel meridione. Gli attori di quel momento erano i Socialisti,  cattolici, e la destra di D’Annunzio con Mussolini che cominciava a crescere  deciso a prendersi la rivincita sui socialisti che lo avevano cacciato. In questo contesto nel congresso di Bologna i socialisti si pronunciarono decisamente in favore dell’opzione rivoluzionaria. “In Italia è iniziato il il periodo rivoluzionario di profonda trasformazione della società, che conduce ovunque all’abbattimento violento del dominio capitalista borghese.” Le elezioni dovevano servire solo per “agevolare l’abbattimento degli organi della dominazione borghese. “Il Partito aderì alla terza internazionale definita “l’organismo proletario mondiale che tali principi propugna e difende,” Da una parte quindi la ricerca di un collegamento con la base operaia per preparare la rivoluzione e dall’altra il lavoro all’interno delle istituzioni primo fra tutti il parlamento per portare avanti una implacabile opposizione per rendere impossibile il funzionamento dello stato borghese. Al fascino per ciò che era avvenuto in Russia si contrapponeva la consapevolezza da parte della maggioranza del partito dell’impreparazione dei lavoratori a affrontare l’avventura rivoluzionaria. A Bologna Bordiga usci sconfitto, come uscirà sconfitto dal congresso di Livorno. Non a caso la CGL nel 1919 aveva approvato un programma per la ricostruzione postbellica che chiedeva la repubblica, l’abolizione del senato, la rappresentanza proporzionale, l’abolizione della polizia politica, l’introduzione del referendum, e il controllo della politica estera da parte del parlamento. In più si chiedeva l’istituzione di una costituente, la riforma agraria e il controllo dell’industria da parte dello Stato. Un bel pacchetto di riforme, insomma. Questo programma fu respinto dalla destra di Turati e dall’ala rivoluzionaria fautrice dell’abbattimento violento dello stato. Mentre le altre organizzazioni sindacali (USI e Confederazioni italiana del lavoro) erano variamente composte la CGL era composta in maggior parte da quadri socialisti. Intanto il fascismo cresceva e D’Annunzio occupava Fiume e a conclusione del biennio rosso Giolitti affermava “«Ho voluto che gli operai facessero da sé la loro esperienza, perché comprendessero che è un puro sogno voler far funzionare le officine senza l’apporto di capitali, senza tecnici e senza crediti bancari. Faranno la prova, vedranno che è un sogno, e ciò li guarirà da pericolose illusioni.»   Questa era la situazione quando si apre il congresso di Livorno e lo scontro fra le tre anime del partito: i comunisti puri, favorevoli all’espulsione dei riformisti, i comunisti unitari che volevano l’adesione al Komintern e accettavano la linea politica dettata da Mosca,  ma erano contrari all’espulsione dei riformisti e infine i concentrazionisti contrari ad ogni espulsione e che miravano a salvare l’unità del partito. La vittoria andò al gruppo più forte: il gruppo di centro. Sia Lazzari che Serrati si recarono a Mosca per negoziare ma inutilmente perché il Komintern comprendeva il pericolo di un partito autonomista. Il congresso di Livorno fu una sconfitta per tutti i lavoratori, divisi e disorientati ed indeboliti dalle scelte di Bordiga: non a caso alle elezioni del maggio 1921 i comunisti ebbero solo 13 deputati ed il PSI risultò indebolito. Insomma la scissione fu per coloro che la organizzarono un fallimento, ma tale fallimento purtroppo non coinvolse solo i velleitari scissionisti ma l’intero movimento operaio che vide infrangere i propri tentativi di resistere all’onda fascista che cresceva con lo sciopero generale dell’agosto 1922. Dopo l’agosto 1922 la forza dei sindacati e dei socialisti era infranta. Con l’espulsione di Turati, reo di essersi recato al  Quirinale per incontrare il re  per discutere del nuovo governo, ratificata dal congresso di Roma, l’intero movimento socialista divenne l’ombra   di quello che era stato pochi anni prima. Il 28 ottobre 1922 i fascisti marciano su Roma. Gli errori di una classe politica che ha preferito coltivare il sogno rivoluzionario ad una presa d’atto della situazione reale del movimento operaio furono riconosciuti dallo stesso Gramsci che nel 1923 come certifica Paolo Spriano nella sua storia del partito Comunista che scrive “Su questo aspetto è giunta presto un’autocritica da parte comunista . anche profonda perché non ha eluso il nesso tra la scissione e l’indebolimento della resistenza operaia all’offensiva dell’avversario di classe. Gramsci giungerà nel 1923 a collegare la vittoria fascista con il modo della scissione, ad annotare che non essere riusciti nel 1920/21 a portare l’Internazionale comunista la maggioranza del proletariato italiano è stato senza dubbio il più grande trionfo della reazione” e nel 1924 scriverà che da Imola fino a Livorno la frazione comunista si limitò “a battere sulle questioni formali di pura  logica, di pura coerenza e, dopo, non seppe, costituito il nuovo partito continuare nella sua specifica missione, che era quella di conquistare la maggioranza del proletariato.”  Se questo è vero forse è anche vero  riguardo al PSI quello che scrive Gramsci nel marzo 1921 quando afferma “ ora i socialisti, posti di fronte alla storia hanno confermato la loro incapacità ad organizzare la classe operaia in classe dominante.” E soggiunge “dopo il congresso di Livorno il partito socialista si ridusse ad essere un partito di piccoli borghesi, di funzionari attaccati alla carica come l’ostrica allo scoglio capaci di qualsiasi vergogna e di qualsiasi infamia pur di non perdere la posizione occupata.” A chi dice aveva ragione Turati rispondo che non è vero, come non è vero che aveva ragione Bordiga e forse aveva ragione Gramsci quando afferma che “il movimento politico della sinistra sia esso socialista che comunista non è riuscito ad organizzare i lavoratori  consentendo l’ascesa del fascismo.” Da una parte un partito sclerotico e arroccato su posizioni formali e dall’altra un partito settario gestito da Mosca. Quest’ultima considerazione ci porta a rispondere all’ultima domanda: quel partito nato al teatro S. Marco   è lo stesso partito di cui quest’anno si celebra il centenario? Molti compagni socialisti hanno risposto di no ed io mi sento di condividere questa interpretazione.  Il Partito nato a Livorno era il partito di Bordiga che “«definisce la classe, lotta per la classe, governa per la classe e prepara la fine dei governi e delle classi», ma aera anche il partito di Gramsci, entrato in carcere quando era il segretario del Pcd’I, e poi abbandonato a sé stesso. il partito comunista che abbiamo conosciuto è il partito di Togliatti che a Livorno non andò. E’ lo stesso Togliatti che ce ne dà testimonianza in una sua intervista pubblicata  su “Trent’anni di storia italiana – (Einaudi 1975 pp. 365 e segg.)”. In questa testimonianza il PCI viene presentato non più come il partito che come diceva Bordiga  di voler lottare per “ raggiungere l’ultima meta: la Repubblica dei Soviet in Italia!” Molto più realisticamente Togliatti  dice “nel nostro paese sono presenti oggi alcuni elementi di fondo, di natura democratica avanzata, i quali ci consentono di andare avanti e sperare meglio per l’avvenire: il regime repubblicano, ,una Costituzione dal contenuto politico e sociale avanzato, la presenza di grandi organizzazioni popolari e di massa.” Egli poi definisce il PCI come un partito di democrazia e progresso.” Questo partito di democrazia e progresso non può assolutamente essere considerato l’erede di un gruppo di scismatici irrilevanti. In riferimento alla monarchia Togliatti afferma che all’indomani della svolta di Salerno si domandò che fare, la risposta fu “La nostra risposta fu accantoniamo il problema, dichiariamo solennemente tutti uniti  che lo risolveremo quando tutta l’Italia sarà stata liberata e il popolo potrà essere consultato. Allora vi sarà un plebiscito, vi sarà un’assemblea costituente il popolo si libererà dell’Istituto monarchico e verrà proclamato quel regime repubblicano che era nelle nostre aspirazioni.” Il partito che  Togliatti disegna  rinuncia a a costruire la repubblica dei soviet e decide di combattere con le altre forze democratiche per  ricostruire l’Italia su basi democratiche. Ancor più chiaramente Togliatti afferma” Quali erano  i nostri obiettivi?  La guerra(contro i tedeschi n.d.r.), l’unità della nazione, un governo di unità.” E ancora “Eravamo repubblicani, volevamo liberare l’Italia dalla monarchia….che doveva avvenire, secondo noi per via democratica, attraverso una consultazione democratica del popolo ed un voto popolare.” Riferendosi alla svolta di Salerno Togliatti afferma  e queste sue affermazioni ci fanno comprendere ancora di più quanto fosse diverso il partito nuovo che Togliatti metteva in gioco che con il partito di Bordiga aveva in comune solo il nome “Nessuno conosceva più i partiti politici . Se ne era perduta, anche nelle masse popolari, la tradizione. Soprattutto poi quando si parlava di comunisti e socialisti era come parlare del demonio. Il veleno inoculato dal fascismo agiva ancora.” Venti anni di regime, le lotte partigiane, la repressione, l’esilio avevano abbattuto il muro che aveva diviso i socialisti e i comunisti e Togliatti parla dei due partiti come di una parte del movimento della sinistra   poteva essere coesa. Dice Togliatti “Dovevamo abbattere questa barriera, affinchè venisse compreso da tutto il popolo che cosa erano e sono queste forze popolari avanzate, che così eravamo e siamo noi comunisti, i socialisti il partito d’azione.” Questo atto di onestà intellettuale deve essere rimarcato ed apprezzato perché Togliatti, malgrado quello che poi è accaduto,  comprende che in una nazione lacerata dal fascismo, dalla guerra, dalla crisi economica, solo la solidarietà fra le forze politiche avanzate può portare l’Italia fuori dal Tunnel in cui Mussolini l’aveva portata. Continua Togliatti “ tra i sei partiti del CLN i socialisti e noi fummo in tutto questo periodo pienamente d’accordo, ed è questo un punto che intendo sottolineare, perché di grande importanza e perché oggi alle volte fa comodo dimenticarlo.” Per chiarire ogni dubbio circa il fatto che il PCI che si celebra in questi giorni non è nato cento anni fa ci viene in aiuto lo stesso Togliatti che afferma, rispondendo ad un funzionario americano presente in Italia all’epoca della svolta di Salerno “Molto modestamente invece gli feci osservare che noi lottavamo non per la Repubblica dei Soviet, ma perché l’Italia partecipasse alla guerra, cacciasse dal proprio territorio i tedeschi, distruggesse pienamente il fascismo e si costruisse niente altro che un regime democratico e repubblicano.” Il grande partito di massa che abbiamo conosciuto non ha nulla a che vedere con il gruppuscolo settario che provocò la scissione di Livorno. Grazie agli errori dei socialisti, che nel 1946 era ancora un partito di massa e alla capacità strategica di Togliatti quella saldatura fra i partiti popolari si incrinò con l’evolversi della situazione politica italiana per non mai più ricostituirsi. Oggi che i due più grandi partiti della sinistra non esistono più bisognerebbe domandarsi chi è perché, fingendo di ignorare la storia, ha dedicato tanto clamore mediatico a questo evento e perché costoro ignorano quel partito socialista che malgrado i suoi limiti ed i suoi errori subì la scissione di Livorno e malgrado ciò rimase per anni l’unico partito   a difesa dei diritti dei lavoratori e che nel ’46 era ancora il secondo partito italiano. Bisognerebbe anche domandarsi perché Amedeo Bordiga padre fondatore del PCI e leader indiscusso del partito per i primi anni della sua vita venne cancellato dalla storia del PCI ed oggi viene del tutto ignorato. Ricordo a me stesso che Gramsci aveva stima e simpatia per il comunista napoletano. Queste risposte andrebbero date perché ancora oggi ci sono tantissimi italiani che hanno creduto nel comunismo e che meritano rispetto per una vita di coerenza agli ideali che hanno perseguito. L’attualità senza il PCI e senza il PSI ci fa intravedere un’Italia travolta dalla crisi economica in cui una destra arrogante rappresentata dalla Lega di Salvini, dai postfascisti della Meloni e dal partito di Berlusconi riesce facilmente ad arginare le pretese di un partito che nato dalle ceneri della DC e del PCI costituitosi ad imitazione del Partito democratico americano. L’Italia non ha bisogno di festeggiare un centenario che non esiste se non nella mente di chi ha escogitato questo diabolico tranello. l’Italia che  non rinuncerà mai ad una democrazia faticosamente costruita deve essere vigile affinchè i demoni che la destra sta provando a risvegliare in Italia come nel resto del mondo non creino danni irreparabili all’impianto democratico nato dalla Costituzione. Al di là delle celebrazioni è la Costituzione “più bella del mondo” che va difesa provando a ricostruire una sinistra unita e coesa che non sia la pallida imitazione di sistemi politici che non ci appartengono.     .    
 
gennaio 27, 2021

Non basta ricordare!

 Di Beppe Sarno

Il 27 gennaio di ogni anno viene celebrato Il Giorno della Memoria  per commemorare le vittime dell’Olocausto. Morirono milioni di esseri umani, ebrei, omosessuali, rom, comunisti, oppositori.

L’avventura hitleriana iniziò in una birreria di Monaco e si concluse fra le macerie del Palazzo della Cancelleria. L’olocausto  rientrava in un progetto preparato da uomini e da forze politiche complici dell’ascesa del dittatore, che aggredì in maniera brutale le democrazie occidentali.  Questo progetto fu assecondato da forze che favorirono il nazismo e rimasero indifferenti alla furia scatenata delle forze naziste. Se il nazismo avanzò così prepotentemente lo fu perché ci fu chi non volle o non seppe fermarlo. Si parla sempre delle vittime ma non bisogna dimenticare i carnefici che non furono soltanto gli aguzzini di Hitler.

Nel complesso e vastissimo panorama della storia nazista c’è una fase sulla quale la nostra attenzione non deve mai stancarsi di ritornare specie in un periodo come questo che vedono l’autoritarismo reazionario nascere dovunque e dove personaggi inaccettabili predicano odio e razzismo.

Il nazismo si affermò in Germania in un periodo abbastanza breve circa un anno e mezzo. Tra l’investitura di Hitler quale Cancelliere di un governo “legale” , il 30 gennaio 1933 e lo sterminio delle S.A. di Ernts Rohm il 30 giugno del 1934 si svolge tutta la conquista totalitaria del Reich da parte dei nazisti. Essa passa attraverso L’incendio del Reich (27 febbraio 1933) la capitolazione e la dispersione delle opposizioni socialiste  e comunista, l’annullamento dell’autonomia dei Lander regionali, lo scioglimento dei sindacati, dei partiti cattolici e la penetrazione nazista in tutti i settori dell’amministrazione statale. Il processo di Norimberga ha documentato che la grande finanza tedesca agevolò e sostenne l’ascesa di Hitler. Lo stesso Hitler in polemica con Goebbels affermò che alla prima rivoluzione non poteva seguirne una seconda e cioè in ossequio al principio che le promesse demagogiche fatte per attirare il consenso del popolo non sarebbero state mantenute. Anche l’eliminazione delle S.A. risponde a questa logica. Eliminare gli intransigenti per essere accolto come il salvatore dello Stato e il garante dell’ordine nei confronti del potere dell’esercito e della borghesia imprenditoriale ed dei magnati della Rhur. Hitler si incaricò personalmente di epurare l’ala estremista del suo movimento per consolidare il suo potere. Le linee guida di questa strategia sono perfettamente illustrate nel “Mein Kampf”. Un movimento fascista, secondo Hitler può conquistare il potere solo con l’ausilio delle “istituzioni” conservatrici esistenti: l’esercito, il capitale finanziario, gli imprenditori e la Chiesa.  Ciò comportava e comporta ancora oggi, l’annullamento di ogni velleità sovvertitrice nei confronti di tali istituzioni.  Ricordare l’olocausto deve servire anche a ricordare che il pericolo reazionario, oggi come ieri poggia su quelle forze che garantirono a Hitler l’ascesa al potere. Oggi come allora il pericolo fascista è sempre vivo perché quel blocco storico che garantì il successo nazista, ad eccezione della Chiesa Cattolica, è sempre vigile ad attento esclusivamente al proprio tornaconto economico.

Conoscere e scoprire la cause dell’olocausto deve servire ad attualizzare e confrontare ciò che accadde in quell’infausto periodo con i tempi in cui  viviamo  perché nell’indifferenza e nel silenzio dei governi e  dei mezzi di comunicazione nel Mediterraneo diventato un invisibile campo di concentramento, ogni giorno continuano a morire persone che fuggono da guerre, miseria, violenza.

Bisogna ricordare perché come dice Papa Francesco “il razzismo è un virus che muta facilmente e invece di sparire si nasconde, ma è sempre in agguato”.

gennaio 25, 2021

VORREI UNA POLITICA SENZA EMMA BONINO: VI SPIEGO PERCHÉ.

Emma Bonino continua a presentarsi come la saggia europeista del Parlamento italiano e colpisce (i più sprovveduti) il fatto che non abbia concesso la fiducia al Governo dopo un discorso del Presidente del Consiglio che definire supino a Bruxelles è davvero poco.A mio avviso, ma premetto che si tratta di una illazione, la ragione è riconducibile al fatto che non siano stati riconosciuti (a lei o a chi dice lei) incarichi governativi.Detto questo, mi preme ricordare un fatto storico di grande importanza che è invece bene tenere a mente, soprattutto è bene che lo rammenti chi vede nella Bonino una figura di grande prestigio e autorevolezza politica.Erano da poco concluse le elezioni europee del 1999 e la Bonino aveva portato a casa con la sua lista l’8.45%: un risultato straordinario, se paragonato ad esempio al 17.34% dei DS.Inebriati dall’entusiasmo, i radicali promossero da soli un referendum che avrebbe dovuto rivoluzionare il Paese in chiave liberista e vale la pena ricostruire alcuni obiettivi fissati e alcune argomentazioni presentate.Il referendum fu fallimentare, sia perché alcuni quesiti non vennero ammessi, ma anche perché nessuno dei restanti raggiunse il quorum.Cosa proponeva Emma Bonino (con i suoi)?Volevano l’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori considerando la reintegra in caso di licenziamento illegittimo un «vincolo disincentivante alla creazione di nuovi posti di lavoro» e si intendeva dunque «aprire uno scontro su di una norma che irrigidisce oltre ogni misura il mercato del lavoro italiano» (questo quesito non solo mancò il quorum, ma – nonostante il supporto di Forza Italia e del Partito Repubblicano Italiano – vide la vittoria del NO con oltre il 66%). Anni dopo, a seguito di numerosi fallimenti da parte di alcuni governi precedenti, Monti e la Fornero riuscirono a destrutturare l’art. 18 ricorrendo alla stessa velenosa e mendace retorica della Bonino: sappiamo bene che il mondo del lavoro ci ha soltanto rimesso.Volevano la totale liberalizzazione del collocamento privato. Come sapete, purtroppo, nel nostro ordinamento, a seguito di una sentenza della Corte di Giustizia Europea, è venuto meno il monopolio statale in materia di collocamento e col Pacchetto Treu è stato introdotto il tristemente noto lavoro interinale che prevede l’esistenza di agenzie che affittino il lavoratore prestandolo a destra e manca. Data la delicatezza del tema, le agenzie sono sottoposte ad un regime legale di controllo (nemmeno troppo severo). Ecco, per la Bonino persino questi limiti andavano rimossi, per giungere alla «completa liberalizzazione del collocamento privato, attraverso l’abolizione degli assurdi vincoli previsti dalla legislazione vigente». A mio avviso il lavoro interinale andrebbe invece abolito.Volevano la totale liberalizzazione dei contratti a tempo determinato concedendo «agli imprenditori e ai lavoratori la libertà di concordare la durata del contratto di lavoro a seconda delle loro necessità». Purtroppo col tempo questo desiderio boniniano è divenuto realtà e, nonostante sostenesse ossessivamente che «i contratti di lavoro a tempo determinato sono uno strumento importante di flessibilità del mercato del lavoro, che aiuta le aziende e favorisce l’occupazione», gli effetti sono stati drammatici e sotto gli occhi di tutti: l’esplosione della precarietà è l’unico traguardo davvero evidente di questa impostazione.Volevano la totale liberalizzazione dei contratti a tempo parziale superando i «principali ostacoli alla diffusione del lavoro part time in Italia, (…) osteggiato anche e soprattutto da parte del sindacato». Il sindacato ha l’obbligo di vigilare sul ricorso a tale forma di contratto e spesso le norme prevedono dei limiti percentuali al ricorso al lavoro a tempo parziale e anche sul rispetto di esse il sindacato è chiamato a vigilare. La ragione è semplicissima e nota in letteratura e alla cronaca: spesso il part time è involontario (ovvero imposto al lavoratore, più spesso alle lavoratrici) e nasconde ore e ore di lavoro non retribuito (o pagato in nero). Viene da domandarsi se lo scopo della Bonino fosse davvero quello di aiutare i lavoratori e di creare nuova occupazione. Fate voi.Volevano «abolire l’obbligo di stipulare l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro con l’INAIL, lasciando la possibilità di scegliere, in alternativa, un’assicurazione privata». A fronte infatti della grande rilevanza nazionale del tema degli infortuni sul lavoro, l’obiettivo del referendum era quello di indebolire l’INAIL, creando margini di profitto per le assicurazioni private anche in quest’ambito. Viene davvero difficile immaginare come una visione del genere possa essere pensata per aiutare i lavoratori e la collettività in generale, quando molto più probabile è che possa ingrossare le tasche di banche, assicurazioni e multinazionali.Volevano di pari passo «lasciare ai cittadini la libertà di scegliere un’assicurazione privata in alternativa al Servizio Sanitario Nazionale». Nonostante l’inammissibilità del quesito, un indebolimento del SSN negli anni a seguire c’è comunque stato e gli effetti devastanti di tale deriva li abbiamo visti in questi tristi mesi di pandemia. Molti dei morti che abbiamo dovuto vedere sfilare in piena notte sono il risultato delle politiche di chi continua a credere nel ruolo del mercato e di chi continua ancora oggi ostinatamente a puntare sull’arretramento e l’indebolimento dello stato sociale. Volevano inoltre deregolamentare completamente il lavoro a domicilio, privando il lavoratore di importanti presidi di diritto che la legge del 1973 nonostante le modifiche ancora prevedeva, abolire il finanziamento pubblico ai patronati sindacali e quello ai partiti politici (in politica avrebbero trionfato i ricchi e il principe di quegli anni si chiamava Silvio Berlusconi). Chiedevano inoltre di innalzare l’età minima e il numero minimo di anni per accedere alla pensione e di «abolire le trattenute alla fonte effettuate dall’INPS e dall’INAIL in favore delle associazioni sindacali e di categoria». Se non è estremismo liberista questo, intolleranza astiosa verso le rappresentanze dei lavoratori, allora non ci abbiamo capito proprio niente. Ecco, questo è il sogno di Emma Bonino, un sogno parzialmente realizzatosi con la benedizione di Bruxelles e che con la nostra Costituzione non aveva, non ha e non avrà mai niente da spartire.Appare come una persona dolce e compita l’Emma di +Europa, ma incarna la peggior rappresentazione di liberismo sfrenato che la politica italiana abbia mai visto.Anche col senno del poi, direi +Italia e -Emma: tutta la vita.FONTE (radicali): https://www.radicalifvg.it/referendum.html

gennaio 24, 2021

Tomas Munzer.

Di Beppe Sarno

In questo giubilare interessato del comunismo nostrano, mi piace ricordare un personaggio fuori dal tempo che può essere definito un comunista ante litteram nato e vissuto circa cinquecento anni fa.

Il personaggio è  Tomas Munzer, di cui parla diffusamente Engels, ritenendolo uno dei maggiori rivoluzionari della storia.

Tomas Munzer nel maggio 1525 venne decapitato dopo orribili torture. Spariva così una figura di agitatore e apostolo dopo essersi battuto alla testa dei contadini tedeschi accerchiati insorti in una lotta impari contro i padroni dell’epoca. Con la morte di Tomas Munzer la guerra dei contadini che aveva sconvolto la Germania finiva miseramente. Ricercare l’origine di questa lotta e seguirne le vicende diventa necessario se si vuol conoscere in Tomas Munzer il filosofo e l’uomo politico che destò l’ammirazione e la stima di uno dei padri del comunismo.

Nel sedicesimo secolo in Germania vi era un’agricoltura arretrata, industria ed il commercio erano limitati a pochi centri ed esisteva un potere politico estremamente frastagliato. Questo decentramento politico determinava l’aggrupparsi si interessi economici per singole regioni fra loro contrastanti. I principi nati dai grandi feudatari medioevali erano di fatto indipendenti e tassavano e riscuotevano a loro piacimento. Per questi signori i contadini erano sottomessi in maniera completa ed assoluta. Le famiglie patrizie che amministravano le città ne erano di fatto i padroni assolti, le gerarchie ecclesiastiche usavano ogni mezzo che il loro enorme potere conferiva per arricchirsi: torture, rifiuto delle assoluzioni, scomunica. Nel grado più basso della gerarchia stavano i contadini.  Sui contadini pesava tutta la società: principi, funzionari, nobiltà, preti, patrizi e mercanti borghesi.

Il contadino, a chiunque appartenesse, veniva trattato come una cosa, come una bestia da soma. La sua vita era contrassegnata da balzelli da pagare a questo o a quello. Ogni arbitrio era concesso a suo danno; la pesca la caccia, la coltivazione del fondo imponevano tasse da pagare e se al principe veniva in mente di prendersi la moglie esisteva lo ius primae noctis. Chi si ribellava finiva in galera o ammazzato. “ di tutti gli edificanti capitoli del codice criminale carolino che trattano del taglio delle orecchie del taglio del naso, del cavar gli occhi, del mozzare le dita o le mani, del decapitare, dell’arrotare, dell’abbruciare, dell’attanagliare con tenaglie roventi, dello squartare, non ce n’è uno che non sia applicato dai graziosi padroni ai propri contadini!”(F. Engels: La guerra dei contadini.)

La disperazione dei contadini determinò il nascere di sette che si fecero interpreti del loro malcontento perché era diventato impossibile tollerare lo stato delle cose. La violenza divenne l’unica risposta possibile. La finalità dei vari movimenti veniva mascherata dal presupposto formale dell’eresia religiosa che predicava il ritorno allo spirito autentico evangelico  e all’uguaglianza di tutti davanti al Creatore. Sostanzialmente si chiedeva un’eguaglianza civile ed economica con l’abolizione di tutti i privilegi.

Mentre la piccola borghesia urbana si limitava a cercare un accomodamento, i contadini chiedevano una radicale inversione di tendenza. Si creò così una tendenza moderata ed una tendenza radicale cappeggiata da spiriti rivoluzionari. Lutero si fece interprete delle esigenze dei primi, mentre Munzer si schierò dalla parte dei contadini e divenne l’animatore dell’insurrezione. Lutero inizialmente incitava i suoi seguaci a “lavarsi le mani nel sangue” dei prelati della curia romana, poi quando capì che le cose prendevano un indirizzo diverso da quello da lui auspicato cominciò a predicare il vangelo della tolleranza e della calma. Malgrado le prediche di Lutero la rivolta non si fermò e rischiava di coinvolgere l’intera Germania e di sconvolgere l’ordinamento sociale. Lutero diventato frattanto il beniamino dei principi dimenticando il suo messaggio iniziale, invocò la rabbia di questi sui contadini che meritavano di essere “schiacciati, strangolati, e pubblicamente dove si può, come si ammazza un cane arrabbiato.” sicuramente se la sconfitta dei contadini può avere un padre  questo è Martin Lutero.

Non cosi Tomas Munzer!

Il giovane monaco aveva un’anima ardente battagliera, intrepida e fin dalla prima giovinezza dedicò la sua missione all’idea di redimere il popolo tedesco dalla condizione di servaggio in cui era ridotto. Appena dottore si ribellò alla curia romana predicando dovunque contro i privilegi e le sopraffazioni dei preti e dei potenti. Fu ascoltato e seguito dal popolo che si riconosceva in lui e dovunque andava la sua parola veniva ascoltata con entusiasmo. La sua dottrina subordinava la Bibbia alla ragione e negava l’esistenza dello Spirito Santo al di fuori di noi. La sua dottrina è stata paragonata a ragione alla moderna speculazione positivistica.  Comunista ante litteram la nuova società che lui predicava presupponeva la scomparsa delle classi esistenti, alle quali si doveva sostituire un’unica classe che doveva contenere tutta la collettività. La proprietà privata sarebbe dovuta scomparire a vantaggio della proprietà collettiva ed il lavoro doveva perdere il carattere di subordinazione e mortificazione che rivestiva. Nella sua visione lo Stato doveva essere la rappresentazione della volontà popolare. Non solo il cambio di paradigma non doveva avvenire solo in Germania, ma in tutta la cristianità. Munzer predicava l’insurrezione violenta delle masse salvo che le classi privilegiate non avessero acconsentito a rinunciare ai loro privilegi. Pochi decenni dopo un monaco calabrese, scriverà “La città del Sole”. Campanella condannato al carcere a vita dalle prigioni napoletana ove era rinchiuso parlerà come Munzer affermando che era giunto il momento, segnato nei cieli e indicato nelle profezie, di una riforma religiosa e politica che, nell’imminenza della fine dei tempi, portasse il cristianesimo alla sua radice universale e naturale e instaurasse una forma di governo repubblicano fondata su principî filosofici.

Desta meraviglia di fronte ai balbetti della politica odierna la  modernità di questi precursori di Carlo Marx che avevano anticipato di  secoli i principi della democrazia.

Tomas Munzer non si limitò ad essere un teorico, infatti, egli rompendo con Lutero  da lui definito la mansueta volpe di Wittemberg, di cui aveva compreso i limiti si dedicò  a preparare ed organizzare la rivolta dei contadini passando alla lotta armata. Creò una vasta lega, impartì istruzioni, percorse con i suoi fedeli anabattisti l’intera Germania e quando l’insurrezione precipitò dalla Svezia dilagando nella Turingia, nell’Eichsfeld, nell’Harz, nei ducati sassoni, nella Franconia superiore, nel Vogtland,  Munzer si fece trovare pronto a capo deli contadini. Munzer, purtroppo, non era uno stratega, ai contadini mancavano armi e comandanti in grado di elaborare strategie di guerra e quindi la rivolta si risolse in una serie di battaglie locali mentre la reazione riusciva ad organizzarsi.

Il 15 maggio 1525 Munzer venne arrestato a Frankenhausen, dove era accorso in aiuto della città ribelle. A Munzer fu riservato un trattamento particolare: insultato, ingiuriato, schernito venne suppliziato e decapitato alla presenza del vincitore, il cristianissimo langravio Filippo d’Assia. Moriva così a soli ventotto anni questa intrepida figura di apostolo e rivoluzionario. Il suo martirio è stato celebrato da grandi storici. Io voglio ricordarlo come un precursore che ha combattuto contro l’ingiustizia in un periodo storico in cui essere  dalla parte dei deboli costava la vita.

gennaio 24, 2021

Come spegnere la luce della speranza.

Maria Di Dio, zia del detenuto Francesco Di Dio, esprime tutta la sua amarezza per il decesso del giovane, morto a meno di 48 anni, nel giugno del 2020. Originario di Gela, pagava un tragico errore compiuto quando era ancora adolescente ed era anche in balia del dramma della tossicodipendenza: avere partecipato ad un “regolamento di conti” tra appartenenti alla Stidda ed a Cosa Nostra, che, nel 1990, aveva causato purtroppo diversi morti. Traviato da persone più grandi e scaltre, che poi erano uscite  dal carcere, attraverso il percorso di “collaboratori di giustizia”, Francesco non aveva seguito la stessa strada, ma aveva iniziato un percorso di redenzione in altra forma… Francesco Di Dio, infatti, aveva aderito all’associazione non violenta “Nessuno Tocchi Caino”, coltivava la fede cristiana evangelica, scriveva poesie, aveva frequentato un corso di filosofia morale e di ceramica, oltre che il Liceo Artistico, per cui si era diplomato e si era iscritto alla Facoltà universitaria di Sociologia, oltre ad essersi interessato anche a  Scienze delle Comunicazioni. Condannato all’ergastolo, si era visto negare tutti i benefici, quindi le attenuazioni dei gradi d’intensità della pena, fondamentalmente per il non avere fatto il collaboratore di giustizia, più che per il suo reato.

La Corte Costituzionale nel 2019, ha stabilito che non sempre il non essere collaboratore di giustizia vuol dire essere ancora collegati con il crimine; dietro la non collaborazione vi possono essere anche contrarietà alla delazione e timore di rappresaglie. Nonostante la  pronuncia di civiltà della Corte sono ancora molti i detenuti spesso arbitrariamente relegati a carcerazioni troppo automaticamente ostative. Nella sua testimonianza, Maria Di Dio esprime tutti i suoi dubbi sulle circostanze della morte di Francesco, e propende per l’ipotesi che potesse e dovesse essere assistito meglio, e certamente fuori dal carcere. Nella storia di Francesco emergono comunque dei dati di fatto: Francesco Di Dio veniva tenuto in carcere anche con la motivazione di rischi di attualità criminale, ma non aveva commesso reati in prigione e la Stidda è da anni organizzazione non più attiva; afflitto da grave malattia autoimmune, all’ultimo stadio, era persino mutilato di un piede; la relazione di una dottoressa di Milano ne attestava la necessità di cure esterne. Del resto, è lampante che il carcere non sia un ospedale, e, per quanto possa avere al suo interno alcuni presidi sanitari, nei fatti non può avere la stessa capacità di cura di una struttura esterna. L’ergastolo stesso, per essere distinto dalla pena di morte, non può essere inteso, logicamente, sempre nel senso di detenzione totalmente carceraria, ma deve prevedere almeno forme alternative, perché nei casi di persone molto malate, altrimenti, si rischia l’omesso soccorso, e quindi il negargli, a volte, possibilità di vita. Peraltro, una semplice richiesta di ricovero in centro clinico esterno è qualcosa di molto più basilare di un beneficio e può avvenire anche senza differimento ufficiale della pena, per intervento di direzione sanitaria di un carcere ed apporto di medici esterni: è quanto accaduto, ad esempio, dall’estate del 2020 nel caso di Raffaele Cutolo, che correttamente può essere così più adeguatamente curato, per le sue rilevanti patologie, tra cui una difficoltà a camminare, causata anche da problemi ai piedi per il diabete. Maria Di Dio chiedeva da mesi, altrettanta civiltà anche per Francesco, e tutt’ora chiede di potere vedere i filmati di sorveglianza del carcere, da mesi. Del resto, se davvero Francesco Di Dio fosse morto nel suo letto nel modo in cui è stato descritto, la possibile visione dei filmati non dovrebbe creare problemi. Più volte, comunque, le telecamere hanno chiarito delle situazioni: ad esempio, nel caso di abusi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, per le indagini riguardo le violenze a freddo, ai danni dei detenuti.

Ricciardi: “Chiedi chiarezza e piena verità sul caso di tuo nipote, Francesco Di Dio, purtroppo deceduto nel giugno 2020: detenuto da 30 anni continuativi (salvo una brevissima scarcerazione per decorrenza del termini di carcerazione preventiva, nel 1996), era gravemente malato per una malattia autoimmune, il morbo di Buerger, gli era stato amputato un piede. La direzione sanitaria  del carcere di Opera definiva le condizioni di salute di Francesco discrete, nonostante le sue difese immunitarie fossero bassissime, in tempi oltretutto di coronavirus, e lui fosse costretto con le stampelle. Puoi spiegare precisamente da cosa dipenda la mancata attuazione di tali misure?

 Di Dio: “Nell’ultima richiesta che abbiamo fatto, la responsabilità maggiore ce l’hanno il direttore  e la direzione sanitaria del carcere, perché secondo la circolare del 21 marzo del 2020 doveva essere il direttore  a segnalare al magistrato di sorveglianza chi stava particolarmente male e lui non lo fece; invece, in quel periodo fece uscire tante altre persone e l’unico che è morto è stato mio nipote. La direzione sanitaria  ha dichiarato che Francesco stava in discrete condizioni di salute, quando già in passato un primario specialista di Milano aveva scritto che il permanere nelle carceri per Francesco rappresentava un “alto rischio“. Inoltre c’è da rabbrividire dalla paura che in pieno lockdown in Lombardia i detenuti li hanno chiusi in celle separate  e  durante tutto il periodo mio nipote  non ha visto nessun medico.

Come si può lasciare un ragazzo gravemente malato senza medico?

E’ assurdo! Mio nipote non solo aveva bisogno di un medico, ma doveva essere monitorato costantemente.   Inoltre, durante una videochiamata chiesi a Francesco come mai non era stato inserito nell’elenco tra le persone che dovevano uscire: non rispose, abbassò la testa e venne richiamato dalla guardia. Una domanda semplice chiara, fatta da me, e per questo venne rimproverato mio nipote. Invece, nella penultima richiesta sono coinvolti tutti, perché il magistrato di sorveglianza ha tenuto conto solo della relazione del carcere e non ha tenuto conto della relazione medico specialistica, che dichiarava che Francesco era ad “alto rischio” e non poteva rimanere in carcere ma prospettare una diversa collocazione. Non riesco a capire l’accanimento che hanno avuto nei confronti di mio nipote, il carcere per qualsiasi istanza da noi presentata ci rispondeva che “loro erano in grado di gestire la malattia di mio nipote” Loro nei confronti di Francesco sono stati caini.” 

Ricciardi:  “Già prima della morte di Francesco, avevi “previsto” il grave rischio che correva, nonostante la direzione sanitaria del carcere avesse definito non prevedibile l’evento; cosa ti aveva fatto ipotizzare che invece le condizioni di Francesco rischiassero di precipitare? Ti eri rivolta anche a qualche persona esperta per una consulenza?”

Di Dio:  “Non è vero che non era prevedibile la morte di Francesco. Già nel  2016 un medico specialista di Milano aveva allertato il carcere e il magistrato sulle condizioni di Francesco, certificando che per Francesco   prospettava una diversa collocazione del carcere, in quanto era in una situazione precaria: l’arteriopatia agli arti inferiori di cui soffriva era in fase avanzata, e rappresentava una patologia ad ” alto rischio “sia in termini di sopravvivenza che di eventi acuti cardiovascolari oltre che distrettuali”. Francesco doveva vivere in un ambiente igienicamente controllato, dalle basse temperature e dall’umidità.  Inoltre, c’era bisogno di  medicazioni e una fisioterapia costante e continuativa, di cicli di terapia, controllo del dolore e di un monitoraggio delle condizioni distrettuali e generali, altrimenti avrebbe sofferto di dolori ingiustificati. Infatti diverse volte mio nipote mi riferiva che non sapevano gestire il suo dolore e che soffriva dolori inenarrabili, con urla fortissime. Nell’ultimo periodo, per la disperazione mi aveva chiesto di spedirgli un farmaco per attutire il dolore  e loro, che hanno sempre dichiarato di poter gestire la situazione, lo facevano urlare notte e giorno.”

Ricciardi:  “La direzione sanitaria del carcere ha definito i motivi della morte di Francesco naturali e non prevedibili, ma tu hai qualche dubbio sulle circostanze: perchè e se ci siano margini, di controllo, sull’operato della direzione del carcere? Inoltre, la famiglia Di Dio aveva richiesto l’acquisizione dei filmati di sorveglianza, nel giorno della morte di Francesco, ma non vi sono stati ancora forniti, almeno per il momento: perchè? Cercherete di insistere in questa richiesta, ed in che modo?”

Di Dio: “ Sì, perché chi muore di infarto in posizione supina, come ha dichiarato il carcere, non può avere degli ematomi sul viso. Fin dall’inizio abbiamo chiesto la video sorveglianza delle ultime 48 ore di vita di mio nipote Francesco Di Dio: ad oggi, dopo circa dopo otto mesi non ci è stata fornita.  La mia famiglia ed io insistiamo sulla richiesta della videosorveglianza per trasparenza, e poi se è morto come dicono loro, non dovrebbero esserci problemi. Dopo tante richieste da parte della stampa di rilasciare interviste e dopo circa otto mesi mi sono decisa di concedere intervista alla stampa proprio per questo motivo. Noi, famiglia Di Dio chiediamo fortemente la videosorveglianza alla magistratura di Milano che sta seguendo il caso di mio nipote.”

Ricciardi: “ Francesco era stato condannato all’ergastolo a soli 18 anni, per un grave fatto di sangue, nell’ambito della faida tra la Stidda (organizzazione rivale della mafia siciliana “tradizionale”) e Cosa Nostra: tuttavia, in carcere aveva aderito ad iniziative culturali e per la non violenza, ed aveva chiesto perdono, con tutto sé stesso, ad un membro dell’altra organizzazione, a sua volta in prigione per vari reati, che si era commosso: lo aveva in effetti perdonato, durante una iniziativa dell’associazione umanitaria “Nessuno tocchi Caino”. Eppure, le autorità statali, fino alla sua morte, e nonostante la disgregazione totale della Stidda, gli avevano negato tutti benefici, cioè le attenuazioni del grado di intensità della pena… Da cosa deriva, a tuo avviso, tale atteggiamento di completa chiusura?”

 Di Dio:  “Questa domanda me la sono posta tantissime volte anch’io e questa risposta ce  la dovrebbe dare la direzione del carcere. Io, ho avuto sempre l’impressione di un accanimento di cattiveria nei confronti di mio nipote, che peraltro gravemente ammalato. Tante è vero che aveva necessità della sedia a rotelle e non gliela hanno mai fornita. Personalmente io ho mandato e-mail al carcere in cui scrivevo che volevo regalare una sedia a rotelle ad un detenuto. Alla prima e-mail mi hanno risposto chiedendomi chi ero, ho risposto che ero la zia di Francesco Di Dio allegando la mia fotocopia di carta di identità, e da allora non mi hanno mai più risposto. Come devo definire questo tipo di atteggiamento se non sadico! Perché non solo non gliela fornivano loro, che sempre si sono sempre dichiarati in grado di gestire la malattia di Francesco e neanche hanno permesso a me di potergliela regalare: aggiungo che questa è violazione dei diritti umani .”

gennaio 21, 2021

Mi sono svegliato e ho scoperto che gli italiani sono tutti figli del PCI.

Di Beppe Sarno

In questi giorni la stampa nazionale, i social, Facebook sono pieni di commenti su questa data fatidica che è stata la scissione di Livorno cioè il 21 gennaio 1921. Si ricorda a giusta ragione l’importanza che il PCI ha avuto nella storia d’Italia, come se l’attuale situazione storico-politica fosse la naturale evoluzione, in positivo di quell’avvenimento.

Il PD dovrebbe essere l’erede morale di quella scissione. Si dimentica da parte dei più o meglio da quasi tutti che ci fu un partito che quella scissione la subì, ma non per questo divenne un partito reazionario o borghese e invece continuò il suo percorso politico affrontando i tragici avvenimenti che la storia riservava con la dignità e la coerenza che lo aveva contraddistinto fin dalla sua formazione. Il Partito socialista italiano è stato il partito dei lavoratori, ha affrontato e subito il fascismo, ha contribuito a liberare l’Italia dal fascismo e dalla furia nazista, in prima fila durante la Resistenza, ha lottato per costruire la Repubblica, la Carta Costituzionale ed è stato con i suoi rappresentanti protagonista della ricostruzione morale e materiale della Repubblica. Di socialisti invece oggi non si può parlare se non in termini negativi; noi siamo quelli che nel ’92 hanno depredato l’Italia.

Mentre si esalta la scissione di Livorno e si celebrano proprio oggi i cento anni della nascita del Partito Comunista, questi comunisti d’accatto, che della storia del comunismo nulla sanno se non le risposte da “settimana enigmistica”, dimenticano che oggi 21 gennaio 2021 ricorre un altro anniversario, che dovrebbe essere triste per i compagni comunisti: l’anniversario della morte di Lenin.

Lenin come padre della rivoluzione russa sicuramente appartiene al patrimonio di tutti i socialisti, comprendendo con questo termine tutti coloro che si riconoscono come fautori di una società fondata sulla solidarietà, sulla democrazia, sulla uguaglianza, sull’abbattimento dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

A questi compagni o pseudo tali che oggi con enfasi sospetta celebrano l’anniversario della scissione di Livorno voglio fare un regalo.

Ho trovato nella mia biblioteca un volumetto che raccoglie un’annata, il 1924, della rivista socialista “Pagine Rosse”. Un intero numero di questa rivista è dedicato alla scomparsa di Lenin. Fra le tante la più bella a mio avviso è la celebrazione che ne fa Lev Trotskij. Essa si intitola “Il dittatore povero”

Riporto testualmente: “ Lenin visse sempre poveramente. A Zurigo aveva un’unica cameretta in un quartiere popolare in casa di un calzolaio. A Ginevra abitarono, lui e la moglie, in una modesta cameretta che serviva da cucina, da studio e da camera da letto. La su spesa più grande erano i libri. Diventato capo della rivoluzione non cambiò costume. Restò modesto come sempre. Vestiva dimessamente e quando, durante la carestia, dai più diversi paesi venivano dei doni egli li ripartiva subito fra gli umili che gli erano attorno. Aveva come onorario, cinquecento rubli mensili e poiché la somma era insufficiente, il segretario Gourbunov, il primo marzo 2018 pensò di portarlo ad ottocento  di propria iniziativa: Lenin prima chiese perché di simile provvedimento, poi non avendo avuto risposta gli mandò il seguente biglietto ufficiale “…..omissis…..vista la illegalità flagrante di questo provvedimento, deciso di vostra propria autorità ……in infrazione al decreto del C.C. del partito  del 23 novembre 2017, vi infliggo un biasmo severo.” Conclude Trotskij il suo ricordo affermando “Lenin, il dittatore rosso, il capo della rivoluzione mondiale, l’uomo il cui nome faceva tremare i potenti della terra era un modesto, un povero.”  

La domanda sorge spontanea: perché i socialisti  nel 1924, quando ancora bruciava l’amarezza per una scissione che rappresentava una sconfitta del movimento di tutti i lavoratori onorava il capo del comunismo mondiale dedicandogli un intero numero della rivista “Pagine Rosse” in suo onore raccogliendo scritti oltre che di Trotskij di  Zinonev, Gorky, Nevskij, Bucarin, Kamenev e tanti altri, mentre oggi gli eredi o pseudo tali di tale scissione dimenticano il padre della rivoluzione russa?

Sono sicuro i comunisti “di buona volontà” come il mio amico Luigi Anzalone o il giovane Tony, figlio del mio indimenticato amico Stefano della Pia sapranno darmi una risposta seria, senza cadere nella odiosa banalità di questi giorni.

gennaio 20, 2021

EMANUELE MACALUSO

di Felice Besostri

Tra le fortune legate all’attività politica, sempre più rare per chi sia collocato a sinistra in questo XXI° secolo, vi è stata quella della conoscenza, frequentazione, confidenza, reciproco rispetto, e amicizia, pur correndo il rischio di essere considerato presuntuoso, di Emanuele Macaluso. L’occasione è stata la vittoria dell’Ulivo del 1996 con la mia elezione nel Senato della Repubblica, come candidato socialista della Federazione Laburista, che  sarebbe confluita nel progetto dei DS (Democratici di Sinistra), sorto in seguito all’ assemblea degli Stati generali della sinistra  del 12, 13 e 14 febbraio 1998, a Firenze. Quel progetto, purtroppo, non fu all’altezza di quello che avrebbe potuto essere nell’intenzioni dei suoi promotori al vertice delle formazioni coinvolte, ma soprattutto nelle speranze dei militanti. Il fatto, che fosse stata battezzata giornalisticamente la «Cosa 2» ha, con il senno di poi, contribuito al suo insuccesso. Si era dissolta l’Unione sovietica nel dicembre del 1991, dopo che uno dei simboli della divisione dell’Europa, il muro di Berlino era crollato il 9 novembre del 1989 (un evento da me vissuto, per caso assolutamente fortuito, in presa diretta), la divisione storica della sinistra europea poteva essere ricomposta almeno nell’Europa a 12 membri, che si era allargata a Spagna e Portogallo nel 1986, finalmente liberate dai regimi fascisti instaurati da Salazar e Franco. Nel 1989 le terze elezioni dirette del Parlamento europeo si erano concluse con una vittoria dei socialisti, primo partito con 180 seggi su 518, che con i 42 dei comunisti e i 30 verdi totalizzavano 252 seggi  e il 48,65% dei voti, erano a un passo dalla maggioranza assoluta di 260 seggi. Ebbene si propone? Una «Cosa 2», una “cosa” appunto, senza attrattiva e continuista dopo l’evidente insuccesso della «Cosa 1: sarebbe stato meglio, che si fosse organizza un’ Assemblea della sinistra comune, dopo qualche decina di migliaia di incontri di base, territoriali o di gruppi tematici, invece che ”gli stati dei generali della sinistra”. 

All’interno del Gruppo senatoriale dei DS-Ulivo si era costituito un sottogruppo dei socialisti, laburisti e democratici progressisti, di cui ero stato nominato coordinatore, che aveva come riferimento la rivista fondata e diretta da Emanuele Macaluso, “Le Ragioni del Socialismo”. Macaluso nelle vicende della sinistra italiana è stato un gigante, non il solo, di cui un certo numero ancora attivi, tra i quali annovero Rino Formica, che ha per primo usato l’espressione alla notizia della morte a pochi mesi dal suo 97° compleanno, era nato il 21 marzo del 1924: “Macaluso un gigante. Quando cade un gigante non c‘è spazio per piangere”.

Sindacalista della CGIL e organizzatore, nella sua Sicilia, delle occupazione contadine delle terre, scontro non solo con gli avversari politici, ma anche con il sistema di potere e di controllo della mafia, di cui sono perenne testimonianza i sindacalisti socialisti Placido Rizzotto e Salvatore “Turi”Carnevale, a prezzo della loro vita. Basta pensare alla strage di Portella delle Ginestre nella Pian degli Albanesi del 1° maggio 1947, dove Emanuele, che aveva 23 anni tenne il primo comizio e nella stessa località nella ricorrenza del 2019 il suo ultimo alla presenza di 5.000 persone o meglio compagne e compagni. E’ stato un discorso di quelli da imparare a memoria come quello di Piero Calamandrei sulla Costituzione di Milano 1955, decisivo nella mia formazione. Li potete sentire e quello di Macaluso, anche vedere nella rete. Ai miei tempi del primo impegno politico nella Federazione Giovanile Socialista nei primi anni ’60, dopo i fatti di Genova e Reggio Emilia, c’erano ancora i comizi, a distanza di oltre 60 anni mi ricordo ancora di un comizio di Pietro Nenni, in piazza del Duomo a Milano per la pace e contro la bomba atomica o quello  al Congresso del PSOE del 1976 a Madrid, dove aveva combattuto 40 anni prima.

Macaluso come altri è stato parte della storia della sinistra e perciò anche dei suoi errori, altrimenti non sarebbe ridotta al lumicino, come forza politica e parlamentare, con la formazione del PD, alla quale Macaluso non risparmiò critiche. Ad essere precisi, una sinistra non di testimonianza non esiste più, semmai un centro-sinistra, con o senza trattino di separazione. Non era questa la prospettiva di Macaluso, che avrebbe voluto una ricomposizione della frattura storica tra comunisti e socialisti, di cui si celebrerà quest’anno il centenario della scissione di Livorno. A questa scelta di fondo non appartengono solo i suoi scritti polemici, senza sconti per nessuno, ma anche atti simbolici, come quando fece uscire insieme con il quotidiano il Riformista la testata storica dell’Avanti!.

Sono convinto che per onorare Macaluso bisogna lavorare al suo progetto di ricomposizione dei filoni ideali

Storici della sinistra della italiana, che nel contesto europeo significa rimettere insieme socialisti, comunisti e libertari come suggerito da Edgar Morin a partire dal 2010, con il suo libro “Ma gauche” e che ha attualizzato alla vigilia di diventare centenario l’8 luglio 2021. Quest’anno non di potrà sfuggire al centenario di Livorno  che temo sarà un’occasione politicamente sprecata e spero ardentemente di sbagliarmi, se sarà un confronto su un passato, che non ha nulla da insegnare, invece di parlare del presente, che se non va in altra durezione esclude, che possa esserci un futuro. I compagni impegnati in questo progetto l’hanno intitolato “Dialogo Gramsci Matteotti” sapendo bene, che non c’è stato, anzi negli anni ’20 sarebbe stato impossibile, ora è semplicemente inevitabile.

gennaio 20, 2021

EM.MA.

di Franco Astengo

La sinistra italiana è rimasta orfana anche di Emanuele Macaluso, strenuo combattente per i diritti dei lavoratori, a 18 anni segretario della camera del lavoro di Caltanissetta.

Essere segretario della Camera del Lavoro di Caltanissetta in quel 1944 con la Sicilia occupata dagli americani e il separatismo in piena azione anche militare, voleva dire porsi il compito di difendere gli zolfatari da uno dei livelli di sfruttamento più inumani mai registrati nella storia del movimento operaio italiano.

Non è certo questa la sede per ripercorrere il suo cammino politico, la sua coerenza riformista, le sue travagliate vicende personali.

Nel PCI si era sempre distinto per la chiarezza della posizioni e la determinazione nel sostegno alle sue idee con l’utilizzo di una scienza politica ben degna del rappresentare uno degli ultimi epigoni della tradizione togliattiana.

Macaluso lo si poteva contrastare (e la sinistra comunista lo contrastò molto vivacemente in diverse occasioni) ma non certo senza riconoscergli coerenza e profonda onestà intellettuale

Em.Ma (come firmava i suoi editoriali all’epoca della direzione dell’Unità) sostenne sempre con grande forza le ragioni dell’unità a sinistra pensando anche ad un approdo di compiuta socialdemocratizzazione del Partito.

Per questo motivo, pur aderendo alla svolta occhettiana, restò sempre in posizione critica ritenendo quel processo politico non solo incompiuto ma oscillante e generico nelle sue coordinate di fondo: così sviluppò, ad esempio, il suo intervento nell’occasione della presentazione alla Camera del “Sarto di Ulm” di Lucio Magri, da lui distante per posizioni politiche ma sicuramente accostabile nel senso della tenacia di una ricerca per una dimensione diversa non dogmatica nella presenza della sinistra non soltanto all’interno del sistema politico italiano ma anche sul piano della dimensione internazionale.

Un ricordo politico coerente per Emanuele Macaluso allora può essere portato avanti anche nel solco di quel tentativo di superamento delle divisioni storiche che abbiamo cercato di realizzare attraverso il “Dialogo Gramsci – Matteotti”.

Sicuramente lui non si sarebbe fermato al “aveva ragione questo” o “aveva ragione quello” e neppure si sarebbe arreso considerando la sinistra vittima di una “eterna dannazione” come si sta cercando di descrivere in questi giorni, nei pressi del centenario di Livorno.

Ricordiamo allora Emanuele Macaluso ribadendo i punti di principio sui quali abbiamo cercato di elaborare, proprio nel nome del dialogo Gramsci – Matteotti, una visione strategica per una nuova sinistra.

Da molto tempo la sinistra italiana ha bisogno di avviare un processo di vera e propria ricostruzione.

Alcuni punti fermi di una tale rifondazione sono a nostro avviso ben individuabili e costituiscono i presupposti fondamentali della possibile ripartenza:

1)   L’inutilità del mero assemblaggio delle residue forze esistenti e della stanca riproposizione di liste elettorali sempre diverse, ma immancabilmente votate al fallimento;

2)   la necessità di richiamarsi ad un patrimonio storico e culturale valido sia sul piano della teoria, sia su quello della dinamica politica, superando in avanti antiche divisioni;

3)   è ora di riavviare, senza anacronistici riferimenti a modelli passati (Bad Godesberg, Epinay, Primavera di Praga: tra l’altro tra loro del tutto diversi) l’elaborazione di un progetto originale che riparta delle contraddizioni e “fratture” fondamentali, incrociandole però con le nuove contraddizioni imposte dal presente. Se da una parte infatti non basta più da sola l’antica “contraddizione principale” fra capitale e lavoro, certo non si può neanche sbilanciare il discorso dall’altra parte, lasciando campo solo a temi pure urgenti come la questione ambientale, peraltro strettamente legata al modo di produzione, o una strategia dei diritti riorganizzata esclusivamente attorno alle questioni di genere. Occorre invece tornare a pensare insieme i due piani: materiale e immateriale, struttura e sovrastruttura, economia e diritto. Le faglie oggi definite “post- materialiste” devono stare dentro una strategia complessiva di trasformazione dell’esistente. Per dirla con Carlo Marx: “Non basta interpretare il mondo, occorre cambiarlo”;

4)   Strettamente connesso a quanto appena detto sui mutati rapporti tra economia e politica, finanza e modello sociale, tecnica e vita civile, è anche lo sfrangiarsi individualistico della società, ma soprattutto la crisi evidente della democrazia, palesatasi dopo il 1989. Allora la fine della Guerra Fredda lungi dall’aprire ad un’epoca di “noia democratica”, ad un mondo pacificato all’insegna del liberalismo/liberismo, aprì piuttosto all’epoca della “guerra infinita” ovvero a modelli equivoci detti di “democrazia del pubblico” o “democrazia recitativa”. Si aprì insomma un’epoca di tensioni planetarie potenzialmente antidemocratiche, fondate sulla scissione tra procedimento elettorale e partecipazione dei cittadini, con l’esercizio del potere popolare messo pericolosamente in discussione. Per questo la sua rifondazione è oggi più che mai una priorità per una nuova sinistra che voglia essere all’altezza delle sfide del tempo nuovo;

5)   della crisi di sistema appena richiamata sono indizio anche alcune pulsioni che pensavamo ormai accantonate, da quelle nazionalistiche, a quelle imperialiste, al ritorno di fantasmi quali il razzismo e il fascismo. Anche tutto questo ovviamente deve essere inquadrato nel contesto del mutamento delle dinamiche internazionali degli ultimi decenni. La fase presenta infatti elementi di emersione di nuovi livelli di confronto tra le grandi potenze e di profonda modificazione del processo di globalizzazione, così come si era presentato alla fine del XX secolo e, successivamente, nella fase della “grande crisi” del 2007. “Grande crisi” riaperta improvvisamente all’inizio del 2019 con l’esplosione globale dell’emergenza sanitaria. Un’emergenza che reclama sicuramente un vero e proprio “mutamento di paradigma” nelle coordinate strategiche di qualsivoglia ipotesi di cambiamento rivolta al recupero del senso dell’uguaglianza, così ferito nel corso degli anni;

6)   In questo senso non ci interessa costruire una sorta di Pantheon comune fra compagne e compagni che hanno vissuto passate divisioni e che invece oggi sono unicamente impegnati ad affrontarne sfide nuove ed inedite; molto più interessante semmai una ricerca in mare aperto su quelle che definiamo “linee di successione” rispetto ai grandi del pensiero e dell’azione politica di sinistra del ‘900.

Queste la ragioni di fondo della nostra riflessione che abbiamo voluto intitolare ai due grandi martiri dell’antifascismo.

L’occasione dolorosa della scomparsa di Emanuele Macaluso nella sua proposta di laica forza del pensiero ci sembra proprio da cogliere per portare avanti il senso complessivo di questa nostra proposta di riflessione.

gennaio 20, 2021

Se cent’anni vi sembrano pochi!

di Felice Besostri

Siamo, idealmente, nel gennaio del 1891, abbiamo appena un anno davanti a noi prima di fondare un partito dei lavoratori italiani, nella città che offra le migliori condizioni logistiche per un’ampia partecipazione di lavoratori e delle loro associazioni, particolarmente presenti e organizzate nell’Italia settentrionale in varie forme, società di mutuo soccorso, casse di resistenza, leghe, camere del lavoro, circoli operai. Siamo in ritardo. In Germania è stato fondato nel 1863, in Austria è attivo dal 1874, persino la Spagna è più avanti di noi avendo fondato il suo nel 1879, mentre in Gran Bretagna nel 1881 si costituiva una prima formazione d’ispirazione socialista con la partecipazione di Eleanor Marx. Soltanto la Francia è più indietro dell’Italia, benché nel 1889, centenario  della Rivoluzione francese con la presa della Bastiglia, proprio a Parigi, sede di un’Esposizione Universale, si fosse riunita per la sua fondazione l’Internazionale Socialista, che radunò nel suo seno  tutte le diverse sensibilità socialiste, da quelle socialdemocratiche a quelle comuniste fino allo scoppio della prima guerra mondiale.

Nella situazione attuale della sinistra, scomparsa come forza politica influente in Italia, e in grave difficoltà in Europa, ma vince in Nuova Zelanda e in Bolivia, per invertire la tendenza dovremmo dedicare più tempo, energie fisiche ed intellettuali, nonché le limitate risorse materiali di cui disponiamo al 130° anniversario della fondazione, nel 1892, del primo partito dei lavoratori italiani, piuttosto che al centenario del Congresso di Livorno, inteso sia come data di fondazione del partito comunista in Italia, che come scissione del socialismo italiano al suo XVII° Congresso.  La situazione obiettiva non è paragonabile a quella degli anni Venti del XX° secolo, allora il Partito, ancora unico della sinistra, era il Partito di maggioranza relativa. Ora siamo come alla fine del XIX° senza un partito della sinistra, con quello che è rimasto non di può rifondare/ricostruire nulla, per non ripetere, bisogna come nel 1892 cominciare da capo.

La fondazione  partito dei lavoratori a Genova, per profittare delle agevolazioni ferroviarie per le celebrazioni della scoperta delle Americhe del 1492, era stata preceduta da una separazione, quella dei socialisti dagli anarchici, non una scissione, in senso tecnico, perché non si era formata un’organizzazione unica, perché sarebbe stato impossibile formarla per ragioni politiche ed ideologiche delle sue componenti.  Nel giro di pochi anni il partito dei lavoratori si sarebbe definito socialista, come nel resto d’Europa ad eccezione della Scandinavia e della Gran Bretagna, con varie combinazioni di aggettivi, che prescindevano dall’adesione o meno al marxismo, compreso il Partito Operaio Socialdemocratico Russo fondato a Minsk nel 1898, che comprendeva sia i bolscevichi, comunisti e rivoluzionari, che i menscevichi, socialisti democratici. Le vicende di quel partito strettamente legate alla Rivoluzione russa, un fatto epocale, sono in parte all’origine dell’evento  per Left del 8 gennaio 2021 Livorno 1921, come “c’è scissione e scissione, non tutto è dannazione”, perché ridurla al fatto dell’autoemarginazione dei comunisti per fondare il PCdI, esito non voluto se non da Amedeo Bordiga il leader della frazione d‘allora, in contrapposizione all’espulsione dei riformisti, chiesta nelle 21 condizioni dell’Internazionale Comunista, significa rimanere prigionieri del passato. Stabilire oggi politicamente, se avesse ragione Amedeo Bordiga, tra l’altro eliminato dalla storia ufficiale del PCI, come Lev Trotsky non compare in nessuna foto del PCUS, o Filippo Turati, ci renderebbe prigionieri, für ewig, del passato, porteremmo mattoni in più alla costruzione del muro, che ha diviso socialisti e comunisti, le principali componenti, anche se non esclusive, ideali e storiche della sinistra italiana, europea e mondiale. Erano due minoranze, che, anche sommate (58.783 i comunisti e 14.695 la mozione riformista), erano molto lontane da 98.628 voti dei massimalisti di Giacinto Menotti Serrati. Il confronto tra di loro, chiunque avesse vinto, non avrebbe evitato la sconfitta ad opera dei fascisti e dei loro alleati e/o complici, altrettanto determinanti degli squadristi. La verifica la si avrebbe avuta da lì a poco con le elezioni del  15 maggio 1921 il Partito Socialista Italiano era ancora il primo partito italiano con 1 631 435 voti e il 24,7% e 123 seggi, ma rispetto al 1919 -33 seggi e -7,6%, una perdita non compensata dal risultato del Partito Comunista con il 4,41% e 15 deputati.

Che la situazione stesse precipitando e che l’oggettiva situazione rivoluzionaria, preconizzata de Bordiga ma anche del Terracini nel suo discorso di Livorno fosse tramontata, fosse mai esistita se non come pio desiderio di “fare come in Russia” di convinti militanti senza base di massa, si manifestò nel giro di poco più di un anno: marcia su Roma del 28 ottobre 1922, incarico di Presidente del Consiglio del 30 ottobre a Benito Mussolini. Seguirono le elezioni del 6 aprile 1924 con violenze squadriste e brogli e con la legge Acerbo caratterizzata da un premio dei 2/3 dei seggi a chi avesse superato il 25% dei voti validi e l’assassinio di Giacomo Matteotti del 10  giugno 1924. Il 9 novembre 1926 la Camera dei deputati deliberò la decadenza dei 123 deputati aventiniani, nei quali la sinistra era rappresentata da 24 Socialisti unitari e 22 socialisti italiani e nel complesso del Parlamento del 1924 anche da 19 comunisti               per un totale del 14,67%: una percentuale paragonabile al 16,57% dei DS alle elezioni dei 2001, dopo la fondazione del PD con la scomparsa dell’ultima formazione erede nella sua stragrande maggioranza del PCI, non sono più possibili paragoni. La sinistra non esiste più, c’è un centro-sinistra con partito egemone il PD, aderente tardivo, grazie a Renzi, al PSE, ma non più ad un’Internazionale Socialista, nel frattempo smobilitata e una sinistra fuori dal PD e in Parlamento temporaneamente raccolta in Liberi e Uguali alleata con PD nel Governo Conte bis e fuori dal Parlamento quel che resta di Rifondazione Comunista e, forse Potere al Popolo, un abbozzo di progetto verde-rosso e un Comitato per l’Unità Socialista, che ha aderito al Manifesto promosso dall’ANPI.

Tutte queste forze nel nostro Paese non hanno un consenso superiore, sulla base delle elezioni col Rosatellum del 2018 e quelle regionali del 2019- 2020, a quello del solo PSU nelle elezioni del 1924, cioè, ad essere ottimisti, il 5,90%. Da quello che ho letto e visto o so si sta preparando per il centenario di Livorno, sono giunto alla brutale, ma spero provvisoria conclusione, che sarà un’occasione politicamente perduta, sul piano storico non mi pronuncio e neppure mi interessa la nostalgia di come eravamo. Livorno non ha nulla da insegnare, né sulla consapevolezza di chi siamo oggi come sinistra, ma soprattutto su cosa dovremmo pensare e fare per influire sugli eventi e acquistare consensi, formando cittadini partecipanti consapevoli.

Questo è il compito principale di forze preoccupate per la crescita delle diseguaglianze dovunque, anche nei paesi cosiddetti “sviluppati” e che non assicurano in troppe aree del mondo, dove vive la maggioranza della sua popolazione, il soddisfacimento dei bisogni primari alimentari, sanitari e educativi, per la sopravvivenza del pianeta, per la crescita esponenziale del potere di centri decisionali sottratti ad ogni forma di controllo pubblico politico democratico e a un prelievo fiscale equo e progressivo, ma che controllano la comunicazione sociale e influenzando i comportamenti individuali e collettivi, in altre semplici parole, che vogliono un mondo diverso e migliore.

Milano 18 gennaio 2021, terzo giorno del Congresso di Livorno cent’anni fa.

gennaio 19, 2021

Capire il senso di un film negli ultimi cinque minuti.

di Beppe Sarno

“Una intervista che lascia il segno.” Così è stata definita l’intervista concessa da MassimoD’Alema al “Fatto”il 6 gennaio scorso.  Non so se questa intervista lascerà il segno ma certo è un’intervista che presenta spunti importanti di riflessione. Afferma D’Alema “ Siamo in una situazione in cui le persone hanno paura e quando le persone hanno paura le istituzioni devono offrire sicurezza.” D’Alema chiama le istituzioni a garantire la sicurezza ai cittadini.  C’è, quindi, da parte di D’Alema un richiamo forte allo Stato come garante delle istituzioni e del loro funzionamento per allontanare le paure, ogni tipo di paura delle persone.  Nuovo lo Stato, finalmente.

Continua D’Alema “ La democrazia deve continuare a funzionare. Il problema vero è che questa esperienza deve essere l’occasione di un cambiamento. Ne abbiamo vissute due grandissime del modello della globalizzazione senza regole: una è stata quella finanziaria del 2008 e poi questa. In realtà, alla crisi del 2008 che doveva imporre un cambiamento, la risposta non è stata adeguatamente coraggiosa. C’è stata una capacità di resistenza, una pervicacia del modello neoliberista che è riuscito a spingersi oltre la propria manifesta insostenibilità.

D’Alema parla affermando “la ricerca e l’industria, dovranno orientarsi a dare risposte a bisogni umani collettivi……  Tornano di stringente attualità valori, idee che sono appartenuti al periodo d’oro della sinistra europea, quello del welfare, dello Stato sociale…ed ancora come si riorganizza una presenza pubblica nell’economia e in che modo i grandi beni comuni tornano ad essere considerati non delle spese ma fattori trainanti dell’economia.

Finalmente qualcuno esce dal solito dibattito asfittico in cui si parla di cosa fare per accontentare l’Europa o uscirne  e ben vengano le parole di D’Alema. Di fronte al rassegnato consenso dato all’Europa ed alle sue stringenti regole  che hanno impoverito le popolazioni di mezz’Europa c’è la necessità di ribadire come irrinunciabile e corretta alternativa un richiamo alla politica delle cose, dei bisogni, dei contenuti, dei caratteri distintivi qualificanti sotto l’aspetto sia ideologico sia operativo per consentire un’inversione di tendenza per modificare il contesto socioeconomico garantendo il diritto di rappresentanza ai lavoratori che oggi sono a margine del dibattito politico complessivo. In questa crisi si parla dei diritti delle imprese, delle imprese che chiudono, viceversa la parola “lavoratore”, “operaio” non viene mai menzionata, al pari di una bestemmia.

M domando di fronte alle osservazioni di D’Alema, come socialisti  quale strategia, quale base concreta di confronto ideologico abbiamo da proporre per superare i limiti di una frammentazione della sinistra che impedisce la nascita di una forza numericamente sufficiente a difendere i diritti dei lavoratori, dei deboli, degli ultimi.

Di fronte agli appelli di volenterosi compagni a ricostruire l’unità socialista mi domando se siamo capaci di dare una risposta che sia una elaborazione aggiornata e moderna  e che spieghi in termini chiari e compiuti quale realtà nuova economica, sociale e politica vogliamo creare. Mi domando ancora se abbiamo un progetto politico condivisibile che ci serva non per l’oggi e per il domani  ma per costruirvi attorno una strategia basata su precise sequenze logiche  e scadenze definite.

D’Alema parla nella sua intervista di irreversibile necessità di una svolta verso la green economy…… che non  può essere affidata soltanto alla logica di mercato e si domanda se
 esiste oggi un pensiero, oltre che un’organizzazione, di sinistra in grado di affrontare sfide quali quelle che tu hai delineato?
D’Alema risponde che esiste tale pensiero che abbia come linee guida la  riforma di un capitalismo  compatibile con la democrazia e che ……… richiede un maggiore equilibrio tra il ruolo dello Stato e il mercato; un nuovo patto tra pubblico e privato. Secondo D’Alema nel momento in cui si decide di finanziare il Recovery fund attraverso la creazione di un debito europeo, si fa una scelta politica, una scelta di sovranismo europeo e più avanti afferma . “E’ il tema affrontato, non a caso secondo me, nell’ultima Enciclica di Papa Francesco che rappresenta un punto di vista illuminante. Enciclica che è stata accolta con molta freddezza nel mondo occidentale, ma che io credo accenda una luce nella direzione giusta.” Anche io credo che l’Enciclica di Papa Francesco indichi una via, che io condivido, ma io la voglio percorrere da socialista perché la risposta dei socialisti deve fondarsi sulla convinzione che l’unica risposta possibile  ai problemi dei lavoratori e ai problemi del progresso sociale e quella ispirata dai principi espressi nella nostra Carta Costituzionale e che parli nei termini democratici e rinnovatori del pensiero socialista. D’Alema parla di una scelta giusta compiuta dal PD nell’avviare una collaborazione con i 5 Stelle ma secondo d’Alema non basta, bisogna spingere lo sguardo oltre l’emergenza, è necessario ricostruire un grande partito della sinistra che oggi non c’è. Quella del PD appare oggi un’esperienza non riuscita, così come gli altri tentativi di costruire esperienza politiche esterne o contrapposte al PD.”e conclude “Con onestà bisogna dire che non ce l’abbiamo fatta, c’è bisogno di una nuova forza…..c’è bisogno di una risposta ideologica. “ D’Alema non è Veltroni, fortunatamente, e infatti conclude affermando “. Non riesco ad immaginare una nuova sinistra che non assuma come propria l’idea di solidarietà umana e di fraternità che viene proposta nell’ultima Enciclica di papa Francesco.”

Questa intervista che secondo l’intervistatore è destinata a lasciare il segno, è certamente un’intervista importante perché D’Alema propone una base di discussione che innanzitutto prenda atto del fallimento del PD come forza innovatrice, che prenda atto della necessità di dare allo Stato la centralità che aveva e che oggi non ha più.

Lo Stato deve avere il diritto di intervenire per garantire La riduzione delle disuguaglianzenella distribuzione del reddito e della ricchezza all’interno della società e per eliminare quegli ostacoli atti ad eliminare l’incertezza del futuroche caratterizza l’attuale sistema capitalistico, dove ogni individuo deve sempre misurarsi in competizione con gli altri. D’altro canto D’Alema sottolinea la necessità di cambiare i sistemi produttivi adeguandoli ad un  sistema basato sulla green economy e  sullo sfruttamento devastante delle  risorse naturali e per questo ritiene necessario misurarsi con l’Enciclica di Papa Francesco.

Bisogna dare credito a D’Alema, ma D’Alema deve capire che esiste una sinistra che si richiama ai principi del socialismo. Una sinistra  che non è mai morta ed anche se non  organizzata in un partito di massa respinge ogni suggestione di subordinazione, ogni tentativo di subordinare l’indipendenza ideologica, ogni tentativo di agire in funzione dei possibili giudizi altrui.  Nessuno e tanto meno D’Alema, a cui va data l’attenzione e il rispetto che merita, può credere di arruolarci se non dopo un confronto aperto leale e paritetico che fondi le sue basi sulla necessità indifferibile di creare una nuova società che parta dal riscatto morale e materiale dei lavoratori, dei disoccupati, dei migranti, delle donne. In questa misura potremo misurarci con D’Alema consapevoli  che il socialismo è l’unico strumento indispensabile per un’autentica rigenerazione della società. Se noi continueremo, viceversa  a vivere la nostre vite come reduci di antiche e nobili battaglie, succubi dell’ascendente ideologico altrui, continueremo a navigare a vista e questa navigazione continuerà all’infinito impedendo ogni disegno strategico ed ogni confronto paritetico. Se questo dovesse avvenire non si potrà parlare per molto tempo, per nostra esclusiva responsabilità,  di strategie socialiste e forse anche di socialismo tout court.