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dicembre 31, 2021

“Abbiamo visto”

Documento elaborato da Beppe Sarno e Santo Prontera.      

L’ultimo documento del collettivo di fabbrica della GKN è un grido di dolore che commuove e nello stesso tempo invita a riflettere. La prima considerazione che il documento suscita è il fatto che gli operai del collettivo della GKN dimostrano di rigettare il pensiero unico dominante, che fa di loro una merce a disposizione del capitale e come qualsiasi altra merce sostituibile con merce a meno prezzo o con altri strumenti per creare plusvalore.

Il capitale, superata la fase della meccanizzazione, affronta adesso un nuovo meccanismo per la creazione del plusvalore di marxiana memoria: la delocalizzazione serve a sostituire operai qualificati con operai il cui minor costo dell’ora lavoro e le minori tutele sindacali serviranno ad aumentare il plusvalore, a farlo crescere ad un ritmo sempre più alto, servendosi di un esercito industriale di riserva rappresentato dagli operai dei Paesi terzi.

Ai detrattori del sindacato ricordo che Maurizio Landini ha detto che è necessario «ricostruire una cultura politica che rimetta al centro il ruolo del lavoro e il significato di ciò che attraverso il lavoro si fa». Sono parole importanti. Sono ovvie e centrali per la nostra prospettiva. È auspicabile che siano vincolanti ed effettivamente programmatiche per il sindacato, che deve riscattarsi per comportamenti non sempre i linea con il suo ruolo.

Gli operai della GKN, con i loro documenti e con la loro lotta, si ribellano al fatto di essere considerati merce ed esprimono, con dolore e fermezza, la dignità di chi si dichiara disponibile a ricominciare con rinnovato impegno quella lotta che è stata finora contrastata e sopita da decenni di liberismo.

Il lavoro non è merce; il lavoro è dignità, è l’essenza della democrazia!

Come ha detto Papa Francesco, “Il lavoro […] è la base su cui costruire la giustizia e la solidarietà in ogni comunità”; e ancora: “il profitto non sia l’unico criterio-guida”.

Nel documento della GKN si scorge quello che dovrà essere il progetto politico per una sinistra socialista che si proponga di essere avanguardia di questo rinnovato senso della politica: intendere, cioè, il lavoro e i suoi diritti come elementi unificanti di una comunità.

Per merito della GKN è accaduto qualcosa di antico e nello stesso di nuovo: nella società è tornato a scorrere il sangue della solidarietà. Accanto ai lavoratori ci sono infatti le istituzioni di base, la città di Firenze, gli intellettuali. La collettività è diventata solidale con i lavoratori perché ha voluto rompere la frammentazione sociale imposta dal pensiero neoliberista. L’isolamento e la frammentazione sono stati sostituiti con la solidarietà e con la condivisione della lotta per difendere la fabbrica, imponendo concetti che sembravano dimenticati: “solidarietà, comunità, lotta”.

Gli operai della GKN dicono: “Stupiteci. Portateci ancora in piazze piene ubriache di dignità. Dopo quello che abbiamo visto, non abbiamo più voglia di stare soli”. Sono parole che ripropongono e rinnovano un antico spirito socialista, solidaristico e pienamente umano, che richiama e reclama il bisogno di stare insieme per combattere contro le aride forze antisociali del puro profitto, che vedono l’uomo come un semplice mezzo da sfruttare.

Una politica di austerità, dettata dall’Europa neoliberista, e i fenomeni di delocalizzazione industriale hanno ridotto il nostro Paese alla condizione di area con risorse decrescenti, facendolo ridiventare un’economia povera, con un sempre minor numero di grandi industrie.

E’ sotto gli occhi di tutti che il punto vero di criticità, che tutto condiziona in negativo, rimane il sistema politico, che ha generato la grave crisi istituzionale con cui, ormai da anni, siamo alle prese.

Può la nostra democrazia reggere a lungo se è consentito a chiunque di commettere atti di pirateria economica e politica, come nel caso dell’Ilva di Taranto o della Wirlpool e oggi della GKN, senza che, da parte di chi governa, ci siano controlli o sanzioni, al solo scopo di non compromettere equilibri politici che sono frutto di compromessi non sempre nobili?

In questo scenario, il grande assente è lo Stato. La sua mancanza si sente ovunque. Ma il posto in cui si sente di più il peso di questa intollerabile situazione è nei posti di lavoro.

Pietro Calamandrei diceva: «La libertà è come l’aria, ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare»

Non c’è dubbio che l’aria, nelle fabbriche italiane, manchi ormai da tempo. La sospensione delle libertà è iniziata nelle imprese dove sempre più spesso si lavora senza tutele sanitarie adeguate, senza rispetto dei diritti sindacali, con i lavoratori ridotti letteralmente a produttori senza diritti e consumatori senza libertà, per non parlare del terziario, della grande distribuzione e dell’agricoltura.

Dagli operai della GKN e della Whirlpool ci viene indicato da dove bisogna partire per ricostruire una coscienza politica che combatta l’alienazione per poter vivere in modo autentico la democrazia. Dal loro esempio viene l’indicazione a non rassegnarsi ad una deriva autoritaria al servizio della finanza internazionale.

Gli operai della GKN ci dicono con dolore, ma anche con forza, che è dalle fabbriche, dal posto di lavoro, che deve partire l’iniziativa per combattere una battaglia politica generalizzata, che comprenda l’impegno per una sanità pubblica efficiente e non sotto attacco dei privati, i diritti dei lavoratori –con il giusto rifiuto di vedere i loro corpi ridotti a merce-, i diritti di chi non ha una casa né i soldi per vivere con dignità, il diritto alla vita degli anziani, il diritto all’istruzione e alla libertà di insegnamento, il finanziamento della ricerca pubblica.

Non si tratta di chimere, fantasie, desideri senza basi. Sono alcuni degli obiettivi che la Costituzione impone allo Stato. Un tempo, anche per merito dell’impegno socialista, erano in buona parte pratica corrente. Poi, con l’avvento del neoliberismo, la Costituzione è stata tacitamente svuotata di tante funzioni. Tutto ciò significa che lo Stato va ricostruito dalle sue fondamenta secondo il progetto della Costituzione. È questo il fine che deve unire le nuove lotte operaie e i soggetti effettivamente democratici del Paese. Risorgimento Socialista è una di questi soggetti.

Per ricostruire la democrazia bisogna disporre delle forze necessarie. Le lotte di cui sopra dimostrano che esiste un importante nucleo di tali forze. La democrazia va ricostruita partendo da lì, dai posti di lavoro, dove esistono forze organizzate e consapevoli dei bisogni propri e del Paese. La ricostruzione va fatta secondo un paradigma che c’è già: è costituito dai principi che ispirano la Carta Costituzionale. Per obbedire alla Carta, traducendone gli impegni in effettivi fatti sociali, occorre invertire la rotta neoliberista e andare nelle seguenti direzioni: nazionalizzazione delle industrie strategiche, revoca delle concessioni ai privati di attività economicamente produttive di proprietà dello Stato, cogestione nelle industrie a prevalente partecipazione statale, programmazione economica fondata su quello che in America è stato chiamato il “Il Green New Deal”. Tutto ciò significa realizzazione di un nuovo sistema produttivo nazionale, cambiando quello attuale, fondato sullo sfruttamento sull’uomo e delle risorse naturali.

Si tratta dunque di individuare con chiarezza gli scopi fondamentali di una politica effettivamente democratica e di sinistra, di trovare le soluzioni per portare la democrazia nei posti di lavoro, di ripristinarla in termini effettivi nella società.

Tre sono le strade da percorrere, non in contrasto fra di loro, per costruire un progetto politico che, sulla base delle leggi esistenti, possa riportare l’economia nazionale e quella europea in un coretto equilibrio fra capitale e lavoro e sul concetto di produzione non più come sfruttamento dell’uomo sull’uomo e distruzione delle risorse naturali, ma come  un’economia pensata per affrontare la sfida delle disuguaglianze e del cambiamento climatico, che invece continuano a crescere nel modello esistente.

La cogestione nelle fabbriche in cui è presente lo Stato attraverso il Ministero dell’economia e Finanze e altro.

Lo Stato Italiano è presente in alcune società attraverso la detenzione di quote azionarie. Si tratta di società quotate in borsa, di cui tiene il controllo azionario, di società con strumenti finanziari quotati e società non quotate. Fra le più importanti ricordiamo il MPS, Enel, Eni, Leonardo, RAI, Cinecittà, Poste e Ferrovie dello Stato.

E’ assolutamente indispensabile che in queste società lo Stato applichi il criterio della cogestione. In queste aziende la cogestione non deve essere uno strumento per massimizzare la produttività e quindi per allineare il più possibile senza contrasti i lavoratori con gli interessi dell’impresa. Questo equivoco stravolgerebbe il senso che si vuole dare alla partecipazione dei lavoratori alla vita dell’impresa. Lo scopo della cogestione, cioè l’intervento dei lavoratori nella conduzione dell’impresa, dovrà servire a creare strumenti di democrazia all’interno del sistema produttivo per meglio realizzare gli interessi dei lavoratori.

Fra la direzione dell’impresa e i lavoratori dovrà sempre esistere contrapposizione, ma il mutamento del paradigma presuppone sempre l’esistenza di un progetto diverso, teso non ad una accumulazione di plusvalore e di incremento di profitto a favore di pochi, ma ad assicurare libertà e dignità umana a tutti.

Con la cogestione si può raggiungere un equilibrio virtuoso: se da una parte i lavoratori sono interessati al successo economico dell’azienda, gli imprenditori -in questo caso lo stato- debbono essere interessati ad una condizione libera e dignitosa dei lavoratori.

Impossibile? Certamente no! Grandi multinazionali hanno adottato la cogestione come elemento fondante della gestione aziendale. Dunque è un obiettivo raggiungibile. Questa interazione significa che, da una parte, c’è una razionalizzazione dei sistemi produttivi posta in essere da chi la produzione la fa materialmente; dall’altra parte, c’è la creazione di ricchezza a favore non solo dell’azienda, ma anche dall’ambiente che la circonda. Le acciaierie Krupp furono salvate grazie alla cogestione.

In Italia un’imprenditoria conservatrice ha preferito vendere le proprie imprese. Con l’appoggio interessato di una classe politica subalterna, è stata sempre contraria alla cogestione, perché timorosa di vedere compromessa l’efficienza dell’azienda. Dal lato opposto, i sindacati hanno sempre cercato di impedire l’attuazione della cogestione, perché questo avrebbe ridimensionato il loro ruolo, che acquista valore solo in un rapporto conflittuale con l’impresa.

Eppure in Italia è esistita l’Olivetti, azienda leader nel settore dell’elettronica, che vantava una presenza su tutti i maggiori mercati internazionali, con circa 36.000 dipendenti, di cui oltre la metà all’estero. Olivetti credeva che fosse possibile creare un equilibrio tra solidarietà sociale e profitto, tanto che l’organizzazione del lavoro comprendeva un’idea di felicità collettiva che generava efficienza. Gli operai vivevano in condizioni migliori rispetto alle altre grandi fabbriche italiane: i dipendenti ricevevano salari più alti, godevano di convenzioni e, per iniziativa dell’azienda, usufruivano di asili e abitazioni vicino alla fabbrica. Essa, inoltre, era ecologicamente responsabile: rispettava infatti la bellezza dell’ambiente (fonte Wikipedia).

Se guardiamo alla ricca Germania, possiamo rilevare che la cogestione non solo viene praticata da sempre, ma trova il suo fondamento nella Legge Fondamentale (che ha il valore più a meno della nostra carta Costituzionale). L’art. 14 recita: “La proprietà privata è garantita nei limiti dell’interesse generale” (Eigentum verpflichtet); ”la proprietà obbliga”. L’art.15 (mai applicato) rende possibile la collettivizzazione del suolo, di risorse naturali e di mezzi di produzione. La Cogestione (Mitbestimmung), fu resa stabile al termine della seconda guerra mondiale con la promulgazione di una serie di leggi federali, sebbene le sue radici affondino ai tempi della Repubblica di Weimar (1919-1933), periodo in cui si realizzò, dal punto di vista politico, l’uguaglianza fra capitale e lavoro nell’economia nazionale.

Il principio trova la sua genesi storica in un congresso dei lavoratori a Berlino, avvenuto alla fine dell’Ottocento. A seguito di tale congresso, fu concesso il diritto di ottenere in fabbrica un capofabbrica. Dopo il periodo della repubblica di Weimar, passi concreti verso la cogestione furono compiuti dopo il 1945. In questo periodo, gli imprenditori del settore minerario e dell’acciaio chiesero ed ottennero la collaborazione del movimento sindacale e nel 1951 si giunse al consolidamento di un modello “paritario” di rappresentanza dei lavoratori all’interno del consiglio di sorveglianza (grazie all’approvazione della Legge sulla Cogestione da parte dei Lavoratori dei Membri degli Organi di Amministrazione e Controllo delle Imprese del Settore Minerario, del Ferro e dell’Acciaio -Montan-Mitbestimmungsgestz – MontanMitbestG-).

Nel sistema cd. “duale”, affermatosi in Germania, in cui operano il consiglio di gestione e il consiglio di rappresentanza, fondamentale è il ruolo dei lavoratori. Per la legge tedesca essi hanno lo stesso potere degli azionisti: hanno infatti poteri decisionali ed interdittori e rispetto agli azionisti hanno gli stessi diritti ed obblighi ed il diritto di voto.

Grazie al modello della cogestione, nessuna delle operazioni di delocalizzazione che hanno portato alla fine delle imprese di tutta Europa sono state possibili in Germania.

La giuslavorista Roberta Caragnano ha affermato che “la partecipazione si pone come strumento di redistribuzione della ricchezza e sviluppo economico sostenibile per gli effetti positivi che produce sulla qualità del lavoro, sulla conoscenza e sulla professionalità del dipendente, ma, al tempo stesso, è anche elemento di coesione sociale divenendo strumento di gestione aziendale”

Certo, i tempi sono cambiati e anche in Germania si tende a ridimensionare la presenza dei lavoratori nella partecipazione alle decisioni aziendali, al fine di creare un equilibrio fra i diritti dell’imprenditore e quello dei lavoratori.

Sta di fatto che nella Volkswagen il sistema della cogestione funziona perfettamente, tanto che l’industria automobilistica ha istituito nel 1990 il Consiglio europeo del Gruppo Volkswagen, per dare ai dipendenti il diritto di scambiarsi informazioni e per garantire azioni comuni. Successivamente è stato creata la “Carta dei rapporti di lavoro per le società e per gli stabilimenti del Gruppo Volkswagen”.

Ovviamente, il capitalismo finanziario internazionale non vede di buon occhio questo sistema di relazioni. In Germania, però, gli imprenditori accettano giocoforza il principio della cogestione perché, comunque, garantisce una serie di vantaggi, che derivano dall’equilibrio degli interessi delle parti coinvolte: gestione aziendale corresponsabile, risultati positivi in relazione alla crescita della produttività e dei salari, diminuzione del tasso di turnover, maggiore motivazione e formazione dei dipendenti.

La cogestione garantisce una mediazione non conflittuale fra proprietà e lavoro, il raggiungimento di obiettivi capitalistici e maggiore giustizia sociale, ottimizzazione del profitto e protezione dei dipendenti.

In Italia, l’art. 46 della Costituzione resta di fatto inattuato. Da una parte gli imprenditori non amano interferenze nell’ambito delle proprie aziende e dall’altra i sindacati sono contrari a forme di collaborazione. Il mondo politico, d’altronde, è di fatto storicamente schierato dalla parte degli imprenditori.

Storicamente possiamo riferire che, seppur la sua approvazione si ebbe nel 1947, l’articolo non venne attuato a causa dell’opposizione della maggior parte degli esponenti della Democrazia Cristiana (e soprattutto di Alcide De Gasperi).

Nel 1938, in Francia vennero istituiti -tramite un decreto legislativo- dei delegati operai eletti dai propri colleghi, anche se le radici storiche del tema della rappresentanza sembrano doversi rinvenire nella Carta del Lavoro della Repubblica di Vichy relativamente alla presenza delle figure dei comitati sociali.

Per quanto riguarda il Regno Unito, possiamo dire che solo più tardi (nel 1947) sarebbe stata emanata una legge volta alla costituzione di organismi consultivi (l’Industrial Organization and Development Act)

Altra tappa del processo di armonizzazione è quella relativa al “Programma di azione sociale” del 1974, fondato sulla convinzione che una forma di società vincente sarebbe dovuta essere basata sulla cogestione, accompagnata dagli imprescindibili diritti di informazione e consultazione.

Per concludere, merita un cenno il Libro Verde del 1975 sulla “partecipazione dei lavoratori e sulla struttura delle società nella Comunità Europea”

In Europa, dopo un lungo iter -a volte contradditorio- di progetti e risoluzioni, il 23 ottobre 2018 l’Europarlamento ha approvato, quasi all’unanimità, una risoluzione favorevole alla partecipazione finanziaria dei lavoratori e di una maggiore partecipazione dei lavoratori nei processi decisionali aziendali. In questa risoluzione si afferma che gli Stati membri debbono “collaborare con le parti sociali al fine di definire gli schemi di partecipazione finanziaria dei dipendenti e a negoziarli”. Esiste quindi un’altra Europa, che i nostri governanti fingono di ignorare. Una maggiore comprensione e attenzione potrebbe cambiare il sistema produttivo ormai agonizzante e ridare una speranza.

Purtroppo, però, il capitalismo nostrano ha adottato di fatto un sistema “amerikano”, rendendo impotenti sia i lavoratori che i sindacati. Qualcuno ricorderà che, a fronte dell’approvazione del referendum con il quale Marchionne chiedeva l’approvazione del suo piano aziendale, pena la chiusura degli stabilimenti, in cambio si promettevano 20 miliardi di investimenti nel nostro Paese.

Autogestione

In Italia non mancano esempi virtuosi di autogestione. Si sono verificati casi in cui i lavoratori hanno rilevato l’azienda fallita e l’hanno rimessa in piedi. È il caso della Italcable di Cairano, acquistata dal curatore fallimentare e dagli operai con il contributo di Cooperazione Finanza Impresa, Coopfond e Banca Etica. In questo modo, l’azienda è rimasta collegata al territorio, riuscendo allo stesso tempo a promuovere uno sviluppo sia dal punto di vista economico che sociale.

Per citare altri esempi, va ricordata la Manfrotto prevede che uno dei 350 dipendenti sieda nel C.d.A. (a ciò vanno aggiunte anche altre misure di welfare aziendale); il regolamento RAI prevede che un membro del CDA sia scelto fra i dipendenti RAI; alla rinnovata attualmente “Sider Alloy” è prevista una rappresentanza dei lavoratori nel consiglio di amministrazione, con in più il 5% della nuova società in proprietà dei lavoratori. Inoltre, la cd. “legge Marcora” permette che i dipendenti delle aziende in crisi ne possano prendere le redini; ripartendo sgravati dai debiti, ma accollandosi sia tutte le responsabilità di gestione sia i costi d’investimento.

Tra i casi più famosi c’è la Greslab, realtà con 68 operai nel settore della ceramica; è nata a Scandiano sulle ceneri della Ceramica Magica. Un caso di questo genere si trova in Lombardia: la Ri-Maflow di Trezzano sul Naviglio.

E’ chiaro, pertanto, che tanti presupposti per esperienze di co-gestione e autogestione ci sono già. Ciò che manca è la volontà politica di impegnarsi ad approfondire le reali possibilità che questo nuovo orizzonte potrebbe delineare. A tale riguardo, va detto che i principali ostacoli all’attuazione dell’art. 46 della Costituzione sono stati i sindacati confederali, da una parte,e la Confindustria dall’altra. I primi cercavano di impedirne la realizzazione poiché avrebbe portato alla chiusura del rapporto classista vigente tra gli imprenditori e gli operai e quindi, avrebbero visto venir meno la loro figura politica e sociale. La Confindustria, invece, è stata da sempre contraria perché si sarebbe compromessa l’efficienza economica dell’impresa.

Ricordiamo, però, che recentemente -con decreto del Ministero dello Sviluppo economico del 4 gennaio 2021- è stato istituito un nuovo regime di aiuto volto a rafforzare il sostegno alla nascita, allo sviluppo e al consolidamento delle società cooperative, prevedendo la concessione di un finanziamento agevolato alle società cooperative nelle quali le società finanziarie – partecipate dal Ministero dello sviluppo economico – assumano, ovvero abbiano assunto, delle partecipazioni ai sensi della predetta legge Marcora. (Cooperative – Nuova Marcora (mise.gov.it)

La Cogestione, come equiparazione fra capitale e lavoro, introduce la democrazia nei posti di lavoro, rendendo concreto il precetto dell’art. 46 della nostra Carta Costituzionale.

Nazionalizzazione delle industrie strategiche.

Il ministro federale dell’Economia della Germania Altmaier ha presentato il 29 novembre 2019 la sua “Strategia industriale nazionale 2030”.

Obiettivo della “Strategia Industriale Nazionale 2030”, secondo il ministro, è collaborare con gli attori economici per dare un contributo al recupero della competenza economica e tecnologica, della competitività e della leadership industriale a livello nazionale, europeo e mondiale.

La strategia industriale presentata è la prima a sviluppare una coerente strategia industriale nazionale ed europea basata su considerazioni fondamentali. Definisce i casi in cui l’azione dello Stato può essere giustificata -o addirittura necessaria in casi eccezionali-: a) evitare gravi svantaggi per l’economia nazionale; b) il benessere generale dello Stato. È allo stesso tempo un contributo alla formazione di un’economia di mercato a prova di futuro e la base per un dibattito normativo.

Altemaier ha dichiarato: ““La Germania è una delle realtà industriali più competitive al mondo e dovrebbe rimanere tale. Raggiungere questo obiettivo è responsabilità congiunta delle imprese e dello Stato. È un punto di vista unilaterale. Ciò porta infatti vantaggi solo alla Germania. Il proposito, infatti, rientra nell’aggressiva ideologia “mercantilista” tedesca, che rende quel Paese strutturalmente incapace di “cooperazione” secondo i criteri keynesiani (non a caso Keynes è da sempre detestato dagli economisti e dai politici tedeschi).

Resta il fatto che la Germania si pone il problema del ruolo dello Stato nell’economia (libera da condizionamenti sociali, non è sostenibile e non genera ricchezza per la collettività). Ne consegue che in quell’ottica il ruolo dello Stato non può essere marginale, ma deve viceversa svolgere un ruolo attivo, indirizzando e talvolta assumendo in prima persona le scelte economiche. Non a caso Altemeier parla di responsabilità congiunta delle imprese e dello Stato. Il tema di un ritorno dello Stato in economia, sia pure fuori dall’orizzonte mercantilistico tedesco, deve diventare centrale anche in Italia. C’è dunque bisogno di Stato.

Se ciò è vero per la Germania, a maggior ragione è vero per l’Italia, dove, per le congiunte dinamiche neoliberiste interne ed europee, da troppo tempo assistiamo ad un aumento delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza all’interno del Paese e ad un generale pessimismo su un futuro apparentemente senza prospettive. Lo Stato dovrebbe svolgere azione di sviluppo generale e di riequilibrio di una situazione nettamente sbilanciata a favore del capitale, che lascia ai lavoratori solo la prospettiva di salari magri oppure quella di rimanere senza lavoro, quindi destinati a far parte dell’esercito “industriale di riserva”, che da sempre ha la funzione di schiacciare i salari a vantaggio dei profitti.  In strema sintesi più stato e meno mercato.

giugno 23, 2021

l’ex Ilva non si ferma.

TARANTO 23 giugno 2021: Il Consiglio di Stato annulla sentenza del Tar di Lecce: l’ex Ilva non si ferma. Ancora una volta lo stato non si smentisce: il profitto prima di tutto, prima della salute dei lavoratori e dei cittadini.Accolto il ricorso dell’azienda contro lo spegnimento dell’area a caldo dello stabilimento di Taranto. Gli impianti vanno avanti. Il Consiglio di Stato ha deciso l’annullamento della sentenza del Tar di Lecce. Viene accolto il ricorso dell’azienda contro lo spegnimento dell’area a caldo dello stabilimento di Taranto. “Vengono dunque a decadere le ipotesi di spegnimento dell’area a caldo dello stabilimento di Taranto di Acciaierie d’Italia e di fermata degli impianti connessi, la cui attività produttiva proseguirà con regolarità”, spiega la società in una nota con riferimento alla pronuncia del Consiglio di Stato che, all’esito dell’udienza del 13 maggio 2021, ha pubblicato oggi la decisione con cui è stato disposto l’annullamento della sentenza del Tar di Lecce dello scorso febbraio. I giudici del Tar avevano riconosciuto la legittimità dell’ordinanza del sindaco di Taranto di spegnimento dell’area a caldo. Il Consiglio di Stato si è espresso su ricorso di ArcelorMittal.”Questa sezione ritiene che gli elementi emersi dall’istruttoria processuale abbiano fornito un quadro tutt’altro che univoco sui fatti dai quali è scaturita l’ordinanza contingibile e urgente. Anzi, quanto è emerso è più incline a escludere il rischio concreto di un’eventuale ripetizione degli eventi e la sussistenza di un possibile pericolo per la comunità tarantina”, si legge nelle motivazioni della sentenza.Ora i programmi del governo per avviare la transizione green dell’acciaieria possono andare avanti. “Alla luce del pronunciamento del Consiglio di Stato sull’ex Ilva, che chiarisce il quadro operativo e giuridico, il governo procederà in modo spedito su un piano industriale ambientalmente compatibile e nel rispetto della salute delle persone”. afferma il ministro dello sviluppo economico Giancarlo Giorgetti. “L’obiettivo – aggiunge il ministro – è rispondere alle esigenze dello sviluppo della filiera nazionale dell’acciaio accogliendo la filosofia del PNRR recentemente approvato”.I LAVORATORI E I CITTADINI POSSONO CONTINUARE A MORIRE PER I PROFITTI DEI PADRONI

gennaio 3, 2021

Covid e disoccupazione nel mezzogiorno.

Di Beppe Sarno

Gli effetti del Covid 19 in Campania e sul Mezzogiorno più in generale sull’occupazione e sul sistema produttivo si inseriscono in un quadro già drammatico che è conseguenza delle politiche governative ossequienti alle politiche monetarie europee.

Le politiche europee che pure hanno sviluppato misure a sostegno dell’occupazione, non tengono conto  della circostanza che nel Mezzogiorno la situazione occupazionale è resa ancora più drammatica a causa dell’elevata disoccupazione giovanile, la bassa partecipazione femminile, la lunga durata nella ricerca di impiego e da quelli che il lavoro non lo cercano più.  Per ciò che riguarda i giovani a fronte di  nove regioni nell’UE in cui il tasso di disoccupazione giovanile era inferiore al 5,0%, in Italia “Più di un membro della forza lavoro di età compresa tra 15 e 24 anni su cinque era disoccupato in ogni regione della Grecia e della Spagna, nonché in ogni regione del sud Italia. All’estremità superiore dell’intervallo, c’erano sei regioni – in gran parte periferiche – in cui il tasso di disoccupazione giovanile è salito a oltre il 50,0%: Ciudades Autónomas de Ceuta y Melilla (Spagna), Mayotte, Guadalupa (Francia), Dytiki Makedonia (Grecia) e Sicilia (Italia).”(fonte Eurostat)

E l’occupazione, già in calo nel 2019, si è contratta nel primo trimestre del 2020 ed è destinata a contrarsi ancor più per il perdurare degli effetti della pandemia.

 “Le regioni rurali, scarsamente popolate e periferiche hanno registrato alcuni dei tassi di occupazione regionale più bassi nell’UE. Questo modello era evidente nella Spagna meridionale e nell’Italia meridionale, nelle regioni ultrapériphériques della Francia e in molte aree rurali dell’Europa orientale (alcune delle quali rimangono caratterizzate da un’agricoltura di semisussistenza).”

Accanto ai poveri diventati tali  a seguito della crisi del 2008 e delle politiche restrittive messe in atto si vanno ad aggiungere nuovi poveri, quelli cioè che hanno perso il lavoro a causa del Covid, quei commercianti, ristoratori, baristi, albergatori, che hanno deciso e decideranno nell’immediato futuro di non riaprire i battenti.

A questi si aggiungeranno i lavoratori stagionali quelli “a nero” e quelli che per un motivo o per un altro non hanno ricevuto alcun sostegno né lo riceveranno in futuro, i migranti che vivono alla giornata senza diritti, tutele in condizioni di semi.schiavitù.

Secondo i dati forniti da Eurostat “più della metà (129 su 240) di tutte le regioni dell’UE ha registrato tassi di occupazione inferiori al livello di riferimento del 75% nel 2019. Tra queste, c’erano quattro regioni – Sicilia, Campania e Calabria (nell’Italia meridionale) e Mayotte (Francia) – dove era occupata meno della metà della popolazione in età lavorativa.”

Tutte le imprese campane nel 2020 hanno ridotto il loro fatturato di circa il 30%.  Quando finirà il blocco dei licenziamenti una massa di disoccupati si troverà a doversi inventare il sostentamento.

Nessuno investe in settori dove manca la domanda: sono le regole del mercato, che invece avrebbe dovuto salvare il mondo.

Nel settore delle costruzioni finché non si avvierà il “bonus del 110%”  c’è un calo di fatturato del 30% secondo le stime della Banca d’Italia.

Quanto alla finanza pubblica, si calcola che i bilanci dei Comuni campani, già diffusamente caratterizzati da condizioni di criticità finanziaria, saranno sempre più in rosso.

Secondo i dati forniti da Eurostat la Campania è la regione con maggior tasso di disoccupazione giovanile che si attesta intorno al 50%. Questo primato è condiviso con la Calabria e la Sicilia.

Il 53,6% dei giovani della Campania è disoccupato mentre  solo il 15,2% nel resto d’Europa. In Baviera, la disoccupazione giovanile è appena il 4% (record positivo d’Europa) (dati Eurostat). Questo dato fino a qualche tempo fa favoriva l’emigrazione verso altri paesi. Ma ora?

In compenso la Grecia sta messa meno peggio con un tasso del 51,1 % di media.

In Campania oltre al dato della disoccupazione giovanile emerge una grave situazione generale di disoccupazione. Prima della pandemia alla fine del 219 il tasso di disoccupazione si attestava sul 21% in provincia di Caserta, 13,6% in provincia di Benevento,  22,8% in Provincia di Napoli, 14,6 in provincia di Avellino e 17,5% in provincia di Salerno. Sarà importante verificare questi dati alla fine della pandemia.

In termini numerici ciò significa che “Nel primo trimestre del 2020 gli occupati del mercato del Lavoro della Campania sono risultati 1.615.331 con un decremento di 15.520 unità rispetto al IV trimestre del 2019.

Il 17,6% degli occupati ha trovato lavoro nel settore dell’istruzione, della sanità e dei servizi sociali, il 16,7% nel settore del commercio, il 15,2% nell’industria, 10,5 nel settore delle attività immobiliari e dei servizi alle imprese, il 7,7%negli altri servizi personale e collettivi, il 7% nelle costruzioni, il 6,1% nella pubblica Amministrazione e Difesa, il 6,1% nel Trasporto e immagazzinaggio, il 5,8% negli Alberghi e ristoranti, il 4% nell’ Agricoltura caccia e pesca, il 2% nei Servizi di comunicazione e informazione, il 1,4% in attività finanziarie ed assicurative.

Gli occupati per professione sono stati prevalentemente Dirigenti (33%), impiegati (32%) lavoratori manuali specializzati 21,3% lavoratori manuali non qualificati (13%).

I disoccupati  (379.314) risultano in calo rispetto all’ultimo trimestre del 2019 (417.484).Il tasso di disoccupazione resta ancora elevato attestandosi  al 19% ma in diminuzione rispetto al 2019 (21,6%).”

Secondo i dati delle camere di commercio ad inizio 2020 hanno cessato l’attività ben 137 imprese al giorno. Scendendo ancor più nel dettaglio, soltanto nella provincia di Napoli la «mattanza» delle imprese ha cancellato, sempre nel periodo gennaio-marzo 2020, quasi settanta realtà produttive ogni 24 ore. Ventotto al giorno, invece, le aziende che hanno alzato bandiera bianca nell’area salernitana. Ventidue al dì, invece, le società che hanno chiuso nella provincia di Caserta. Dal 2018 all’inizio del 2020 sono morte 21.659 imprese.

Sempre secondo i dati delle camere di Commercio al 31 marzo 2020 avevano cessato l’attività rispetto all’anno precedente 10.473 piccole imprese. Numeri impressionati e drammatici.

Non cambia il quadro nel settore agroalimentare: mentre i pastori sardi scioperavano perché il latte viene pagato 60 centesimi al litro in Campania il latte viene pagato 30 centesimi al litro e la carne viene pagata due euro al chilo. Ciò ha determinato la chiusura di 900 aziende nel settore.

Per non parlare del commercio della ristorazione e del turismo tenuto conto che in Campania il Terziario vale il 70% del PIL e l’85% dell’occupazione, appare chiaro quali saranno le devastanti conseguenze della tempesta perfetta che stiamo vivendo. Insomma prima della seconda ondata del coronavirus la Campania contava circa 500.000 disoccupati. Questo numero cresce di giorno in giorno e il blocco dei licenziamenti fino al marzo2021 serve solo a procrastinare l’agonia.

La Campania è la regione nell’eurozona con la percentuale più alta di popolazione a rischio povertà o esclusione sociale. Il 41,4% dei suoi abitanti vive in condizioni ben al di sotto della media continentale ferma al 16,8%, sono i dati evidenziati dall’Eurostat Regional Yearbook 2020. Non se la passano meglio le altre aree del Mezzogiorno con la Sicilia al 40,7% e la Calabria al 37,7%.

Ad Avellino la Novolegno società specializzata nella costruzione di pannelli in MDF ha chiuso licenziando in tronco i propri operai senza chiedere la cassa integrazione.

La Fiat di Pratola Serra (Av) che prima produceva motori per Fiat e Ford adesso ha iniziato a produrre mascherine anticovid, ma quando finirà la pandemia cosa farà? Chiuderà! Dove sono i miliardi di investimenti che la Fiat d Marchionne aveva promesso?

A Flumeri l’ex stabilimento Irisbus lavora a scartamento ridotto.

Per ciò che riguarda l’agricoltura al crisi riguarda il  latte bufalino, bovino e del comparto florovivaistico. Intanto, nel mese di marzo è stato firmato l’accordo tra Coldiretti Campania e Parmalat per il ritiro di latte vaccino alla stalla che dovrebbe mettere in sicurezza le produzioni degli allevamenti bovini in Campania. Parmalat acquisterebbe  180.000 litri al giorno per dodici mesi, al prezzo alla stalla di 0,43 euro al litro più Iva, per un valore complessivo di oltre 28 milioni di euro. Le principali aree produttive coinvolte sono le province di Caserta, Benevento, Salerno e il Basso Molise.

Quali aziende alla fine di questa tragedia economica e sociale avrà la forza di rialzarsi ed investire in nuove attività produttive? con quali capitali?  Quale sarà il ruolo delle banche? Ed il mercato come reagirà? Lo stato avrà il coraggio e la forza di intervenire con misure adeguate che non siano mero assistenzialismo?

Nell’ultimo ventennio, in particolare, la frattura tra le due aree del Paese si è ulteriormente dilatata contribuendo all’impoverimento anche della zona industriale del Nord che nel Mezzogiorno d’Italia dispone di un florido mercato interno.

Se a fronte di questa realtà qualcuno si illude di poter risolvere la situazione con i soldi che l’Europa ci darà attraverso il meccanismo del recovery fund, non c’è molto da stare allegri perché i 209 miliardi di euro che ci sono stati assegnati non potranno essere assegnati prima del 1° gennaio 2021, ma questa data è solo teorica perché in primis l’Italia dovrà presentare un piano di ripresa nazionale per far capire come intende spendere i soldi che riceverà. Inoltre i soldi saranno spesi un organo tecnico costituito da 6 super manager, coadiuvati da una task force di ben 300 persone.  Non ci sarà pertanto nessun controllo dal basso su come saranno spesi questi soldi a riprova della distruzione della rappresentanza, come antefatto di distruzione della democrazia.

Sul piano pratico  i soldi del recovery fund arriveranno solo in piccola parte nel 2021 nel 2022 e nel 2023 periodo in cui verrebbero erogati soldi fino a poco più del 50% ed il resto negli anni successivi fino al 2026 secondo una nota del NADEF. L’anno prossimo, infatti, l’Europa darà all’Italia 10 miliardi di euro in sovvenzioni e altri 11 in prestiti, per un totale di 21 miliardi. Nel 2022, arriveranno 33,5 miliardi, l’anno successivo 41. Le sovvenzioni supereranno i prestiti soltanto nel 2023, mentre nel 2026 le sovvenzioni saranno ormai esaurite. Il totale alla fine sarà di 65,4 miliardi di sovvenzioni e 127,6 miliardi di prestiti, che fa in totale 193 milioni di euro. I conti non tornano. E dal 2027 dovremo impegnaci a restituire i soldi ricevuti a titolo di prestito. E’ vero che c’è una proposta di per consentire a ciascuno stato di ottenere un anticipo del 10% della somma spettante, ma la proposta non è stata ancora accettata e comunque per incassare questi soldi si dovrà aspettare aprile 2021, ma molto probabilmente concretamente si dovrà aspettare almeno fino all’autunno 2021.

I soldi del recovery fund per ciò che riguarda la Campania, come del resto in tutta il Mezzogiorno e forse in Italia tout court, non serviranno a superare l’emergenza sociale ed economica che esiste, perché anzi se è vero come è vero che i soldi dati a fondo perduto verranno spalmati su cinque anni a partire dal 2021 viceversa i soldi dati in prestito imporranno ai paesi che vi accederanno, tra cui l’Italia “chi vi accede deve allinearsi con il Semestre europeo e le raccomandazioni ai Paesi… finora dipendeva solo dai Paesi rispettarle o meno ma ora le raccomandazioni sono legate a sussidi e potenziali prestiti”(Van Der Leyen).

Ciò vuol dire che la condizione per accedere ai prestiti del recovery Fund imporranno  la pedissequa e cieca condivisione del progetto politico europeo. Già si parla di una stretta del sistema pensionistico in parallelo alla scadenza di quota 100 e di una possibile revisione del Reddito di Cittadinanza. Un vero disastro per tutti coloro che sono schiacciati tra disoccupazione e precarietà.

Il fenomeno dello spopolamento meridionale.

Di Filomeno Viscido

Sono molti i giornali che hanno lanciato l’allarme dell’emigrazione dalle zone meridionali.

Un’emigrazione della popolazione, specie in un Paese a basso tasso di nascite come quello italiano, comporta difficoltà di varia natura a cominciare dall’assenza di massa critica per impiantare attività economica, alla mancata innovazione tecnologica e culturale che una presenza giovanile forte porta sempre.

Ritornando ai dati, farò una veloce citazione di parti di articoli che hanno citato il problema:

Negli ultimi dieci anni la Campania ha perso quasi 50mila giovani con un alto livello d’istruzione che hanno deciso di trasferirsi in un’altra Regione, preferendo quelle del Nord e del Centro a quelle del Sud. Questo dato va sommato agli oltre 50mila ragazzi di età compresa tra i 20 e i 34 anni e un livello d’istruzione medio o basso che hanno lasciato la Campania per trasferirsi altrove in Italia e ai 10mila giovani che hanno scelto l’estero, per un totale di oltre 100mila persone. È la fotografia dell’emigrazione giovanile regionale scattata dall’Istat nel rapporto annuale 2019 presentato oggi a Montecitorio. Nel periodo 2008-2017, Campania, Puglia, Sicilia e Calabria, le regioni italiane con il peggiore saldo migratorio giovanile interregionale, hanno perso complessivamente 282mila giovani, l’80% dei quali con un livello d’istruzione medio o alto.(fonte:https://www.ildenaro.it/fuga-dalla-campania-listat-dieci-100-mila-giovani-emigrati-al-nord-allestero/ )

La Campania perde altri 20 mila abitanti circa, a fine 2018. Cala da 5 milioni e 827 mila a poco meno di 5 milioni 808 mila. Il dato più preoccupante è quello che riguarda le migrazioni interne, dalla regione verso il Nord, soprattutto verso i territori più ricchi, quali la Lombardia e l’Emilia Romagna, dove, invece, la popolazione cresce, con percentuali in Veneto dell’1,1 per mille, in Lombardia del 2,1 e in Emilia addirittura del 2,4.(fonte:https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/cronaca/19_febbraio_08/campania-rischio-spopolamento-nel-1413b0ea-2b72-11e9-8185-f12b2209c708.shtml )

Lo spopolamento dei comuni appenninici

Dall’analisi delle elaborazioni effettuate su dati censuari ed intercensuari Istat dal 1971 al2014, si perviene alla valutazione dei trend demografici nei 975 comuni considerati. Qui vivono, secondo i dati dell’ultimo censimento, 2.805.476 abitanti, il 5,2% della popolazione italiana, con una suddivisione di genere in linea con le percentuali nazionali. La caratteristica evidente della regione appenninica, in particolare dei comuni periferici e ultraperiferici, si riflette nelle analisi demografiche, da cui emerge che circa il 77% dei comuni è interessato da fenomeni di spopolamento. Nel corso degli ultimi quarant’anni, la popolazione dei comuni montani degli Appennini ha continuato a calare, con una diminuzione dell’8%, aumentando la forbice con il resto d’Italia dove, invece, la popolazione è cresciuta del 10% nello stesso periodo.

Dall’analisi delle fasce d’età della popolazione, arrivano conferme sulle dinamiche della popolazione appenninica che, oltre a diminuire, invecchia sempre di più. L’indice di dipendenza strutturale medio, che prende in considerazione la percentuale di abitanti in età non attiva (minore di 14 e maggiore di 65) rispetto a quelli in età attiva, è superiore alla media comunale nazionale (62,3% nei comuni Appenninici e 55,6% nel resto d’Italia). Il dato, considerando anche la percentuale della componente anziana appenninica (intorno al 27% nel 2011 contro una media nazionale del 23%), evidenzia un forte calo nella popolazione under 14, ad ulteriore conferma del ben noto fenomeno dell’invecchiamento demografico, una delle maggiori cause del progressivo spopolamento di queste aree. (fonte testo e foto: https://www.slowfood.it/wp-content/uploads/2015/10/Studio-Appennini-2015.pdf)

Il caso irpino

Traggo l’analisi dei dati del caso irpino da: “Spopolamento e desertificazione nell’Appennino meridionale: il caso dell’Alta Irpinia” di Toni Ricciardi (fonte : https://archive-ouverte.unige.ch/unige:126656)

Restringendo il campo d’analisi, un dato che colpisce in tal senso è dovuto al fatto che, in Campania, ben 370 Comuni sui 550 complessivi (l’indice a livello nazionale più alto dopo quello del Piemonte) sono a rischio spopolamento: – 154 Comuni registrano un basso reddito, livello d’istruzione e una contrazione demografica (Avellino 45, Benevento 34, Caserta 55, Napoli 20); – 60 Comuni registrano ancor meno istruzione, produttività e servizi (Avellino 13, Benevento 7, Caserta 17, Napoli 23); – 81 Comuni rischiano di rientrare nei prossimi anni, per la staticità dei propri indicatori, nella categoria dei più disagiati (Avellino 36, Benevento 29, Caserta 16) (Confcommercio & Legambiente, 2008). Riepilogando, nel censimento del 1951 l’età media della popolazione italiana era di circa 30 anni, con una struttura demografica simile a Albania, Tunisia o Turchia di oggi. Al contrario, l’Italia attuale ha una struttura demografica che supera per invecchiamento il Giappone e la Germania. La provincia di Avellino, insieme a quella di Benevento, è tra le più anziane della Regione Campania e al di sopra della media nazionale. Se l’indice di vecchiaia in Italia è pari al 161,4% (117% in Campania), in Irpinia raggiunge il 164,2 (testo elaborato dal Compagno Filomeno Viscido.)

la situazione in Puglia.

Nel 2019 l’economia pugliese non era altrettanto disastrata quanto quella campana. Secondo i dati della Eures il settore industriale cresceva a” ritmi contenuti”, bene l’industria meccanica, l’alimentare ed il settore turistico; bene sempre secondo i dati forniti da EURES “Il tasso di occupazione della popolazione attiva (età compresa tra 15 e 64 anni) è pari al 46,8% di cui 33,2% donne e 60.7% uomini (dato del primo trimestre 2019), suddiviso, rispettivamente tra agricoltura, industria, costruzione e servizi (tra cui ristorazione)” Il numero di occupati è invece calato in misura marcata nell’agricoltura e nelle costruzioni.

In Puglia però pesa gravemente la situazione dello stabilimento siderurgico di Taranto dove il governo ha dato carta bianca alla multinazionale Arcelor Mittal che porterà inevitabilmente lo stabilimento alla chiusura e tutti gli operai con le loro famiglie per strada. La Mittal cosi come affermato dai Commissari nel ricorso ex art. 700 c.p.c., presentato a suo tempo, davanti ai giudici di Milano “comporterà la distruzione della maggior azienda siderurgica nazionale, centro di aggregazione socio economico insostituibile per non poche (e non ricche) aree e comunità sociali italiane, e di un patrimonio aziendale di esperienza e know-how incalcolabili, nonché la ferita mortale ad una platea di subfornitori di decisiva importanza per le aree interessate, con effetti quindi disastrosi sul tessuto industriale dell’intero Paese e della stessa Unione Europea”.Oltre all’Ilva rimane aperta la questione di numerosissime aziende presenti su tutto il territorio regionale fra cui TCT  quella ex dipendenti GSE di Brindisi ex GSE (DCM srl /DAR), la Santa Teresa di Brindisi, lo Stabilimento Bosch Bari, dove l’azienda ha dichiarato che 600 lavoratori sono in esubero. Infine c’è la questione Marcegaglia dove l’ambizione di reindustrializzazione del sito produttivo, presuppone un sostanzioso impegno di risorse private che non arriverà mai conoscendo l’ex presidente della Confindustria vera saccheggiatrice di risorse di Stato.

Allo stato in Puglia sono giunte all’INPS oltre 26 mila domande di imprese per concedere la Cassa Integrazione in deroga, rifinanziata dalla Regione con una seconda tranche di 120 milioni che si aggiungono ai 106 precedenti, a poco meno di 90 mila lavoratori. In Puglia l’emergenza coronavirus ha prodotto un calo del Pil, nel primo trimestre del 2020, del 4% circa.

Per ciò che riguarda l’agricoltura la seconda ondata della pandemia ha causato il crollo delle attività di 20.000 bar, trattorie, ristoranti, pizzerie e 876 agriturismi. In Puglia la pandemia ha un effetto negativo a valanga sull’agroalimentare con una perdita di fatturato di oltre 680 milioni di euro per i mancati acquisti in cibi e bevande nel 2020.

Per la Puglia si stima una perdita di oltre il 5,6% del Pil solo nei due mesi di lockdown e addirittura 20 mila imprese in meno a fine 2021, con la conseguenza drammatica di almeno di 70 mila posti di lavoro cancellati. Per concludere secondo un rapporto della regione Puglia relativo al 2018 a quella data i disoccupati della regione Puglia ammontavano a circa315.000. il tasso di disoccupazione cresce sino a raggiungere il 18,8% nel 2017. Il Pil pugliese ammonta a circa 73 miliardi di euro e rappresenta il 4,2% del Pil nazionale (pari al 19% del Pil dell’intero Mezzogiorno). Pwer fare un raffronto la Lombardia rappresenta il 22,2% del Pil italiano.

La situazione in Basilicata

La cessazione negli ultimi sei mesi del 2020 in Basilicata di 378 imprese artigiane, di cui 243 in provincia di Potenza e 135. La Basilicata è al 19° posto su 20 regioni per Indice di reddito;  è al 19° posto su 20 regioni per Indice di Consumo; è al 17° posto su 20 regioni per Tasso di Occupazione. Il settore più in crisi dal punto di vista dell’occupazione e quello relativo alle costruzioni con una diminuzione del 76% seguito dall’agricoltura e dall’informatica ed editoria  e delle attività finanziarie che registrano un -40%.

Da non dimenticare il dramma della Ferrosud, azienda lucana specializzata nel settore metalmeccanico rotabile. Sono 80 i lavoratori trascinati in un limbo, causato da un concordato preventivo nato  nel 2010.

La Lucania conta 72.00 disoccupati (dato ISTAT 2019) con un tasso di disoccupazione giovanile  del 38,7%.Per non parlare della situazione occupazionale delle donne che è drammatica tanto da far dire al  segretario generale della Cgil Basilicata, Angelo Summa e al  presidente Ires Cgil Basilicata, Giovanni Casaletto la Basilicata non è una regione per donne.” Le aziende produttive Lucane son legate soprattutto alla Fiat in quanto una delle autovetture in produzione la Jeep Kompass sta avendo grandi successi di vendite.

E’ del tutto evidente che se si ferma lo stabilimento di Melfi si ferma tutto l’indotto che soprattutto in Basilicata ha un buon numero di addetti. 

La situazione in Calabria

L a Regione Calabria può contare un tasso di disoccupazione che riguarda soprattutto la componente più giovane di forza lavoro. Come già detto la  Campania (53,6%), Sicilia (53,6%) e Calabria (52,7%) sono fra le regioni europee con il più alto tasso di disoccupazione giovanile fra i 15 e i 24 anni. Secondo i dati  Eurostat, che inserisce le tre regioni del Mezzogiorno negli ultimi 10 posti su 280 regioni monitorate nel 2018 in tutta l’Unione, dove la media è del 15,2%. La Calabria (21,6%) ha anche l’undicesima percentuale più alta fra i territori europei per quanto riguarda la disoccupazione della popolazione fra i 15 e i 74 anni. La media europea è del 6,9%.Il totale complessivo dei disoccupati in Calabria ammonta a 105.000 unità. Questo significa che in Calabria un giovane su due non ha lavoro.

Dal punto di vista delle imprese  la sospensione delle attività ha comportato la paralisi del tessuto produttivo calabrese. Novemila imprese calabresi del terziario rischiano di scomparire, con una conseguente perdita di oltre 23 mila posti di lavoro.

Per ciò che riguarda il settore agricolol’attività è crollata di circa il 41% delle aziende agricole.

La situazione in Sicilia

in Sicilia La disoccupazione ha raggiunto il 20%. Secondo i dati dell’Istat in 346 mila non hanno un lavoro (la media nazionale è del  9,8%).

Secondo uno studio dell’Università di Catania “Se c’è un dato che non ha mai smesso di crescere, negli ultimi dieci anni, in Sicilia, è quello della disoccupazione; come se ciò non bastasse, assieme alla preoccupante percentuale di disoccupati siciliani, va ad aggiungersi quella dei giovani, che sempre di più non riescono a trovare un impiego.”

Sempre secondo questo studio “chiudono le imprese, calano i consumi per famiglia, cresce in modo smisurato la disoccupazione, specialmente quella giovanile.” e “si pone la drammatica soppressione di 4.571 altre imprese, “solo” 1400 a Palermo in un anno. In particolare, in tutto il territorio dell’isola, hanno chiuso 3582 esercizi commerciali al dettaglio, 946 aziende nel campo dell’alloggio e della ristorazione, e infine 754 ditte specializzate dalla comunicazione ai trasporti, dagli immobiliari ai viaggi, dal supporto imprese all’intrattenimento. Chiuse altresì 1948 ditte industriali, e 342 imprese agricole tra le province siciliane, quelle più preoccupanti sono Trapani, Agrigento e Messina, con un tasso di disoccupazione, rispettivamente, di 23,6%, 27,6% e 25,5%. Dato più preoccupante, inoltre, è quello giovanile: al 2018, i giovani siciliani che non lavorano sono il 53,6%, circa 1,5 milioni, dunque un giovane su due non lavora.” Unica  soluzione: l’emigrazione.

In Sicilia c’è il dramma sociale dell’ex stabilimento Fca di termini Imerese. Dopo l’abbandono della Fiat che aveva occupato fino a 3800 unità La società Blutec  aveva rilevato lo stabilimento ex Fiat. Lo Stato regalando,  con un ricco pacchetto di soldi,  la fabbrica ad avventurieri che si sono improvvisati costruttori di auto elettriche, motocicli e quant’altro è stata fermata dalla magistratura che ha arresto i vertici della società e sequestrato lo stabilimento. Ora si profila all’orizzonte l’ennesimo bluff,  giocato sulla pelle dei quasi 700 operai che da anni ormai vivono solo di ammortizzatori sociali. 

Intanto a nord di Siracusa l’inquinamento industriale si insinua da decenni nel suolo e nelle falde acquifere, si diffonde nell’aria e contamina il mare. Fabbriche, ciminiere e cisterne di greggio si estendono a macchia d’olio. Il polo petrolchimico a nord di Siracusa rappresenta venti chilometri di costa, un territorio e una baia imbottiti di sostanze contaminanti e nocive. Dall’insediamento negli anni cinquanta della prima raffineria, la zona è oggi stravolta dall’inquinamento. Sembra di vivere il dramma di Taranto.

Nel settore agricolo vi è come in tutte le regioni meridionali e non solo l’azzeramento del canale Horeca (hotel, ristoranti e catering) e delle mense scolastiche e universitarie; la chiusura di agriturismi, enoturismi, mercati storici e rionali, nonché di quelli dell’agricoltore e del pescatore; l’azzeramento della domanda di cibo da parte dei turisti in Sicilia; la difficoltà lungo tutta la filiera alimentare, in termini di approvvigionamento di materie prime e di spedizione e consegna dei prodotti; il ridotto funzionamento dei servizi di logistica, soprattutto internazionali, che ha già messo in difficoltà le imprese per il reperimento di materiali di consumo, di servizi e i prezzi di ricambio dei macchinari.

Concludendo prima della pandemia da coronavirus secondo una ricerca condotta  nel Mezzogiorno d’Italia ci sono circa 1,5 milioni di disoccupati, mentre molti di più sono gli inattivi.

Partiamo da un dato: il 40% più ricco della popolazione italiana detiene l’87% della ricchezza e il restante 60% più povero il 13%,  Il 5% più ricco della popolazione italiana detiene una ricchezza superiore all’80% più povero; l’1% più ricco detiene il 22% della ricchezza nazionalei 3 miliardari più ricchi d’Italia posseggono quanto il 10% più povero della popolazione, circa 6 milioni di persone.

Questo è il risultato di trent’anni di liberismo di  e della famosa formula imposta dal Governo Monti inserito nella Costituzione sul pareggio di bilancio  imposto dall’UE. Fin dall’inizio molti economisti e giuristi hanno spiegato perché il pareggio in bilancio configurava un vero suicidio economico. Grazie a questo sistema le nazioni europee più deboli fra cui l’Italia sono satte costrette  ad accettare ogni tipo di riforma richiesta dalla BCE che di fatto ha assunto il controllo delle economie nazionali e ha ridotto di fatto i poteri degli stati ed un indebolimento della democrazia.

L’economista Salvatore Morelli, ha detto:“L’Italia è uno dei Paesi dove il rapporto tra ricchezza aggregata totale e il totale dei redditi prodotti ogni anno è tra i più elevati al mondo, una delle nazioni a più elevata intensità capitalistica, dove la ricchezza vale molto più del reddito. […] Si accresce sempre di più il peso della ricchezza ereditata, della trasmissione dinastica patrimoniale, rispetto alla generazione di reddito. Una situazione dove, come è stato detto, il passato divora il futuro”.

Il World Inequality Report pubblicato nel 2018 suggerisce che una delle più influenti cause dell’aumento delle disuguaglianze sia dato dal passaggio della ricchezza pubblica in mani private. Negli ultimi venti anni, vi è stata una forte spinta alla privatizzazione del patrimonio dello Stato e questo ha portato una diminuzione di risorse in mano ai governi per combattere le criticità che portano alla disuguaglianza.

Da Prodi in poi è successo questo in Italia con la dismissione del patrimonio pubblico la distruzione dell’IRI e la privatizzazione di industrie strategiche.

Inoltre l’emergenza determinata dalle misure restrittive a seguito della seconda ondata del lockdown evidenzia le conseguenze dei tagli al sistema sanitario raccomandato dall’Europa e messo in atto con solerzia da tutti i governatori regionali. La chiusura di aziende fa emergere in maniera drammatica la  povertà, la disoccupazione e le disuguaglianze. Ma non sembra che la politica italiana voglia cambiare approccio.

A livello politico le forze in campo non sembrano aver compreso che senza un progetto che abbia come fondamento una vera programmazione non sarà in grado di trovare le linee di una indispensabile espansione economica e sociale e che è destinata nel migliore dei casi a recepire le linee guida imposte dell’Europa che ci farà ancor più affondare nella crisi in maniera irreversibile.

Accettando supinamente i diktat di Bruxelles l’Italia subisce gli effetti di una mancata trasformazione dell’ economia al servizio dei mercati in un’economia programmata per l’utilizzazione delle risorse in funzione di obbiettivi globali che tengano conto dell’uso sociale dell’economia e della ricchezza.

Senza un intervento dello Stato che mettendo radicalmente in discussione le politiche economiche neoliberiste, investa sulla riqualificazione della spesa pubblica e rilancio di investimenti pubblici (in ambiente, territorio, ricerca, innovazione, scuola, salute) gettando così le basi per un’alternativa in cui la piena occupazione torni ad essere un obiettivo sociale e politico.

Ciò significherebbe il mancato rispetto dei i vincoli di bilancio dettati dai trattati europei (Trattato di Maastricht, Fiscal Compact). E’ la stessa architettura dell’Unione europea, che impedisce agli stati unici di stimolare l’economia per sostenere produzione e occupazione. 

Una mancata presa d’atto da parte del governo di questa situazione con una decisione di intervenire in maniera radicale nel mezzogiorno può portare al definitivo impoverimento del Mezzogiorno. Se, però, affonda il Sud, tutto il Nord sarà trainato alla deriva.

Perché siamo arrivati a questo? Che cosa significa? che fare?

L’approccio economico dei governi che si sono succeduti nel tempo in Italia negli ultimi venti anni sono stati indirizzati da una scelta neoliberista, mai messa in discussione ma anzi seguita ciecamente che ha determinato l’aumento delle diseguaglianze, della povertà, della disoccupazione soprattutto giovanile e delle donne. Il mercato è stato ritenuto l’unica leva di progresso generalizzato che avrebbe dovuto funzionare come regolatore della vita sociale. In questo senso l’impresa e gli imprenditori ricoprivano un ruolo privilegiato mentre i lavoratori era un’appendice di questi senza diritti da utilizzare in base alle convenienze, dimenticando che queste scelte contraddicevano con lo spirito della nostra Carta Costituzionale.

L’Europa e la BCE fedeli al dettato neoliberista si sono impegnate con appositi strumenti ricattatori ad imporre programmi basati su privatizzazioni, liberalizzazioni, abolizione sistematica del welfare, austerità,   limitazione della spesa pubblica, obbligo di pareggio di bilancio. Parallelamente la sovranità dello Stato veniva messa in discussione si è dato così il via ad una lunga sequela di liberalizzazioni, protezione delle multinazionali finanziare, consentendo delocalizzazioni con conseguente sfruttamento della manodopera  con la mortificazione dei diritti sociali e sfruttamento senza limiti dell’ambiente. La finanziarizzazione dell’economia è un  progetto globale che toglie forza ai poteri dello Stato e conferisce questi poteri ad organismi non elettivi quali la BCE o la banca Mondiale e il WTO.

Mentre la sinistra in Italia non è riuscita a coalizzarsi per dare una risposta democratica e a proporre un modello alternativo, la destra Italiana al seguito di una destra europea xenofoba e razzista senza contestare il modello neoliberista propongono con successo modelli in cui i si chiede nel recinto nazionale sulla base della legge del più forte, della e xenofobia del rancore verso chi governa. Questa destra lungi dal mettere in discussione  alcunchè diventa strumento di quei poteri che a parole contestano. La guerra tra poveri ne è la conseguenza.  Ferraioli a proposito di Matteo Salvini afferma ” Salvini sta promuovendo un abbassamento del senso morale a livello di massa. Non si limita a interpretare la xenofobia, la alimenta La sua politica sta ricostruendo le basi ideologiche del razzismo” (Ferrajoli: «Salvini fa un uso demagogico del diritto. Il suo è populismo penale», intervista a cura di Roberto Ciccarelli, “il manifesto”, 5 luglio 2019).

Malgrado il governo Conte emetta decreti a ripetizione per far fronte all’emergenza sanitaria ed economica  quello che risulta è la mancanza di un progetto di sviluppo  della nostra società. Quante leggi non sono state fatte per paura di perdere voti. Ricordiamo la vergogna di un PD, che non ha avuto il coraggio di emanare la legge sullo ius soli, il silenzio della classe politica rispetto ai moniti del Pontefice sul dovere dell’accoglienza dei migranti; per non dimenticare l’imbarazzo del governo rispetto alle richieste che da più parti si levavano per l’abolizione dei decreti sicurezza.

Chiara Saraceno ha affermato che “un crescente potere del capitale sul lavoro, che include favori quali lo sviluppo della flessibilizzazione, gli effetti delle tecnologie e la debolezza dei sindacati; l’affermarsi di un “capitalismo oligarchico”, con la concentrazione di reddito e ricchezza nel 10 dei più ricchi e nell1 degli ultraricchi; l’individualizzazione delle condizioni economiche, la frammentazione dei contra e la relativa incapacità dei lavoratori a fare fronte comune per una tenuta di salari e spendi; infine ma non ultimo, il ritrarsi della politica, nazionale e comunitaria, o meglio il suo consegnare quello che fu un ruolo di regolazione dei mercati nelle mani dei mercati stessi, in ciò depotenziando (anche e non solo) le politiche di redistribuzione Quest’ultimo aspetto, sottolinea Saraceno, non solo è un rischio per lo sviluppo e l’uguaglianza, ma lo è per la democrazia stessa, come l’esplosione dei populismi autoritari dimostra (Saraceno, 2019) La crisi del 2008, sottolinea la sociologa, ha enfatizzato questa situazione, segnando anche asimmetrie e differenze profonde tra i Paesi membri della UE, che ha dismesso la sua immagine di “opportunità” e assunto quella di portatore d’acqua del grande capitale.

Il paradigma attualmente vigente per il governo dell’economia in Europa è quello delle politiche neoliberiste e di austerity e del pareggio di bilancio. Queste politiche hanno determinato in Europa e nel mondo un aumento delle disuguaglianze economiche e sociali. Il mercato non è il regolatore della vita sociale e non genera ricchezza per tutti, anzi al contrario,  ha determinato  una polarizzazione delle ricchezze e le condizioni di chi lavora sono peggiorate. La commissione Europea in accordo con il FMI al netto della tregua concessa per l’emergenza Coronavirus riprenderanno a chiedere riforme strutturali, cioè ancora austerity.

Eppure è sotto gli occhi di tutti che non il coronavirus, ma le politiche  di austerity tenacemente messe in campo da tutti i governi che si sono succeduti hanno determinato la catastrofe economica e sociale italiana e soprattutto del mezzogiorno straccione e ladrone. Il sud sta diventando un deserto in mano alle mafie ed ad una classe politica corrotto ed autoreferenziale.  Oggi i ricchi sono più ricchi e i poveri più poveri.

Il mercato del lavoro è governato dall’incertezza, mentre si continuano a stanziare sgravi contributivi per le imprese. Lavoro nero ed economia illegale sono diventate una costante nell’attuale sistema produttivo. Lo Stato non è più garante dei diritti dei lavoratori che pone un limite al privato, ma assiste alla violazione sistematica dei diritti dei lavoratori. In questa ottica viene giustificato il caporalato e lo sfruttamento disumano dei migranti nel lavoro agricolo.

Come possiamo immaginare che alla fine dell’emergenza coronavirus quell’esercito di disoccupati del Mezzogiorno d’Italia trovino da un giorno all’altro un’occupazione stabile laddove da circa quarant’anni i governi che si sono succeduti hanno messo da parte ogni politica industriale limitandosi a gestire il quotidiano senza investire sul futuro?

Per comprendere la strada da intraprendere bisogna cambiare paradigma e appare illuminante e la dichiarazione di Papa Francesco” Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socioambientale” (Papa Francesco in Madagascar, 7 settembre 2019).

Partendo da questa considerazione sorge spontanea la considerazione che per pensare di affrontare seriamente il problema del Mezzogiorno d’Italia  occorre cambiare modello di sviluppo  occorre che lo Stato diventi motore regolatore e protagonista dell’economia, non più un’economia governata dal mercato come regolatore e costruttore della società ma lo Stato che ritorni ad essere tale e che svolga un ruolo chiave nell’economia per contrastare le multinazionali ed il modello di sviluppo che esse portano avanti distruggendo ogni regola del vivere civile e sfruttando l’ambiente fino all’esaurimento delle risorse naturali.

Oltre  a risolvere la crisi sociale d il dramma della disoccupazione reinventando il ruolo dello Stato esso non può porsi l’obbiettivo di sostituirsi alla imprenditorialità privata adottando il medesimo modello di sviluppo. La risposta dello Stato deve essere quella di uno Stato visionario che va ad inventare i posti di lavoro rivoluzionando  il sistema produttivo per non correre  il rischio di sostituire al capitalismo finanziario il capitalismo di Stato. Per fare questo sarà necessario ritornare al passato laddove l’energia era in mano pubblica perché mai le grandi imprese che detengono il mercato dell’energia e dei combustibili  investirebbero in un progetto a lungo termine che ponga al centro del suo obbiettivo la sostituzione delle attuali fonti energetiche con quelle totalmente rinnovabili.

Per fare ciò è necessaria una  pianificazione centralizzata dove il fine ultimo sia il bene comune e non il profitto di pochi a danno della collettività.

Deve cambiare il rapporto fra Stato, il mercato e un’economia che non pensi al mercato. Può sembrare paradossale ma è così. La BCE e il FMI per porre al centro della propria agenda il rispetto delle regole del mercato sono fino ad oggi stati promotori di povertà e precarietà, ma prima o poi i lavoratori e non solo, ma anche il ceto medio impoverito si ribelleranno. Lo Stato e L’Europa ognuno per la sua parte debbono dare un segnale forte e coraggioso sul fronte degli investimenti, rafforzando le politiche sociali.

In questo senso la pandemia da covid è stato il terremoto che deve seppellire sotto le sue macerie le politiche di austerità. Creare un progetto unico e  centralizzato governato da un ente economico alle dipendenze del Ministero dell’economia che porti alla transizione verso un’economia a zero emissioni di carbonio.

Ciò significa entrare in competizione con le grandi compagnie di petrolio ed energia, mettere in crisi la loro avidità costringendole a inseguire lo Stato imprenditore sul piano di una nuova economia verde.  

Lo Stato dovrà porsi l’obbiettivo di creare ricchezza recuperando i disoccupati e nello stesso tempo di diminuire il costo della vita  con sistemi gratuiti di trasporto urbano, universitaria gratuita, Internet in fibra totalmente gratuito. Come fare ciò? Recuperando quei settori generosamente regalati ai privati: autostrade, telefonia, settore agroalimentare, industria automobilistica e dell’acciaio, banche. Fare investimenti che servano a creare occupazione e impiegare tutta la forza lavoro. Gli economisti affermano che un punto di PIL di investimenti pubblici generano tre punti di PIL.

Bisogna partire dai bisogni per creare un modello economico alternativo che sia ecologicamente sostenibile, che privilegi la crescita, lo sviluppo economico e la giustizia sociale mortificata da anni di disinvestimenti. Il sistema finanziario internazionale ha creato ricchezza solo per se stesso impoverendo milioni di persone. Lo stato deve dare una risposta alle disuguaglianze generate da questo sistema che non ha dato alcun contributo al benessere della collettività. Nessun imprenditore privato ha interesse a promuovere un processo di trasformazione dell’economia nel senso prospettato perché questo presuppone governare un difficile  processo che riguarda l’energia, la mobilità, i nuovi prodotti, l’innovazione e significa intervenire in un processo che richiede grandi investimenti che tengano insieme la tutela del lavoro e nuove opportunità di lavoro e il rispetto per l’ambiente.

Il petrolio dell’Italia si chiama sole, vento, mare, energia vulcanica bisogna investire in questo, bisogna investire nel rendere il patrimonio pubblico autosufficiente dal punto di vista energetico. Lo Stato deve investire per proteggere il  territorio dalle frequenti occasioni di dissesto. Basti pensare quanto lavoro generebbe un simile progetto solo in termini di riqualificazione e formazione dei lavoratori.

Per assecondare la Fiat, ormai non più italiana si è rinunciato ad investire in un settore in cui il nostro paese è sato sempre all’avanguardia. Perché attraverso questo ente economico auspicato lo stato non torna ad essere produttore di auto alimentate con combustibili diversi? L’alfa Romeo industria auto di primo livello fu regalata alla Fiata da Prodi nella fase di liquidazione del patrimonio pubblico dello stato, ma oggi lo Stato potrebbe sostenere un progetto di riconversione dell’automobile come già in Germania e anche altrove sta avvenendo che rimetta al centro i lavoratori aumentando diritti e salari. Oggi in Italia si producono meno auto della Spagna o della Slovenia. Lo Stato deve avere il coraggio di investire  sugli studi sui veicoli elettrici recuperando Termini Imerese, Torino, Napoli. Costruire auto elettriche, motori elettrici e lavorare su tutte le tecnologie connesse accettare la sfida delle evoluzioni dei motori a idrogeno. Investire nella ricerca di nuove batterie per auto elettriche. La commissione europea  ha varato un progetto chiamato  European Battery Alliance (EBA) che si pone l’obiettivo di sviluppare «le batterie sostenibili del futuro e consentire all’Europa di raggiungere gli obiettivi previsti dall’European Green Deal». Quindi la partita della transizione energetica si gioca anche sulla gestione dell’energia, sulla possibilità di accumularla e usarla quando necessario. Le batterie sono quindi al centro di un mercato stimato da 250 miliardi di euro da qui al 2025, oggi monopolizzato dai produttori asiatici. La richiesta proviene soprattutto dall’automotive, impegnata sulla nuova frontiera dell’auto elettrica. Nessun imprenditore privato ha la forza ed il coraggio di investire capitali nell’economia verde ma lo Stato ha i mezzi per farlo. Honda, Toyota, Hyundai e General Motors – hanno già realizzato veicoli a idrogeno con tecnologia fuel cell, finora solo a scopo di ricerca o per vendite limitate, ma forse, una volta completata la transizione verso l’elettrico, spinta anche dall’aumento delle tasse sui combustibili fossili, comincerà la transizione – definitiva – verso i motori a idrogeno.

La Germania si rivolge all’indotto italiano per la componentistica dell’industria meccanico e dell’auto: Torino Milano Napoli, Termini Imerese, il Nord Est sono pieni di piccole e medie aziende ad alto livello di qualificazione nel settore della componentistica. Perché non sfruttare questo patrimonio a rimorchio di un’industria di Stato che punti all’innovazione tecnologica ecocompatibile.  La Tesla nata appositamente 16 anni fa per costruire solo auto alimentate a energia elettrica ha previsto fatturazioni da capogiro fino al 2030, con guadagni “da 1,2 trilioni all’anno” provenienti solo dal comparto software.

Un Ente Pubblico Economico gestito direttamente dal ministro dell’Economia che si doti dei mezzi finanziari sufficienti potrebbe fare quello che non è fantascienza perché sta avvenendo già in Germania, laddove questo paese ha come suo punto di forza una cultura della coesione della società e la pratica del coinvolgimento permanente degli attori sociali nella vita pubblica e nelle scelte fondamentali della nazione.

Ma quello che avviene in Germania può avvenire anche in Italia. Creare un ente pubblico economico che guidi il cambiamento del paradigma produttivo provvedendo alle nazionalizzazione di industrie strategiche, coinvolgendo i lavoratori in questo processo attraverso il meccanismo della cogestione che dia ai lavoratori il diritto di sedere nei consigli di sorveglianza delle imprese e di discutere delle scelte strategiche e delle decisioni industriali rilevanti.

La cogestione, esiste già in altri paesi: in Germania, ma non solo Germania. Dopo la seconda guerra mondiale vi sono state forme di cogestione in Inghilterra, in Francia dove i consigli di azienda hanno conquistato un’importanza fondamentale della cogestione delle aziende statalizzate. Ma è in Germania che la cogestione aziendale ha trovato la sua massima applicazione. Infatti nel 1919 fu approvata una legge che istituiva la rappresentanza operaia nei consigli di fabbrica: Inizialmente i poteri di questi consigli di fabbrica erano limitati, ma poi dopo la seconda guerra mondiale la necessità di riprendere l’economia nazionale spinse il movimento sindacale ad ottenere maggior potere soprattutto nella zona del bacini della Ruhr dove la ripresa della produzione si verificò quasi esclusivamente per l’iniziativa operaia. A quell’epoca tutte le aziende erano sotto il controllo delle autorità britanniche di occupazione che affidarono ad una Società Fiduciaria la gestione aziendale. I sindacati ottennero il riconoscimento del diritto di cogestione. Tutte le aziende costituirono consigli di amministrazione con undici delegati di cui cinque di nomina sindacale, cinque di nomina aziendale più un tecnico estraneo. Le acciaierie Krupp in crisi accettarono la regola della cogestione. L’azienda Krupp fu trasformata in società per azioni e così fu possibile applicare la cogestione prevista da una legge del 1951, che consentiva tale istituto alle aziende con più di mille dipendenti e ai lavoratori fu consentito di esercitare un certo controllo sull’attività dei complessi industriali che avevano un peso determinate nella vita economica del paese. Nel 1976, il governo del socialdemocratico Helmut Schmidt approvò, con un largo consenso politico, la riforma che introduceva in Germania il principio della cogestione (Mitbestimmung). La gestione delle imprese tedesche era affidata a due organi: un Consiglio Esecutivo (Vorstand) e un Consiglio di Sorveglianza (Aufsichtsrat). I lavoratori avevano diritto di eleggere metà dei rappresentanti del Consiglio di Sorveglianza. La restante metà e il Presidente sono eletti dall’Assemblea degli Azionisti. Per le delibere del Consiglio di Sorveglianza, il voto del Presidente vale doppio in caso di parità degli esiti elettorali. L’inattuato articolo 46 della Costituzione recita testualmente “Ai fini dell’Elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi alla gestione delle aziende.” Cogestione quindi significa l’introduzione del concetto di democrazia all’interno della fabbrica e diventa quindi strumento di progresso. In questo senso gli operai, gli impiegati, i quadri prendono parte ala processo produttivo influenzandone le scelte, le strategie i progetti, godendo ampi poteri democratici all’interno dell’azienda. La Commissione Lavoro del Senato nel corso della XVI° legislatura approvò il testo l testo unificato dei disegni di legge in materia di partecipazione dei lavoratori in azienda. Da Questo testo scaturì la delega legislativa contenuta nella legge Fornero (28 giugno 2012 n. 92), rimasta disattesa, poi il disegno di legge bi-partisan 4 dicembre 2013 n. 1051, presentato dal Presidente della Commissione Lavoro del Senato con le firme di senatori di tutti i gruppi. Il ministro dell’economia Gualtieri, che ha già dato prova di grandi capacità di governo ha ipotizzato la creazione di una Newco in cui sia presente la Cassa Depositi e Prestiti. Se questa formula ha dato buoni frutti in Germania, in Austria in Francia e persino nell’ultracapitalistica America non vedo perché non dovrebbe funzionare in Italia. Uno dei principali obiettivi che come Socialisti dobbiamo porci nel modo più conveniente e realista possibile, ma con fermezza è la trasformazione della crisi pandemica e delle sue immediate conseguenze occupazionali ed economiche in una grande occasione di rilancio di uno sviluppo pianificato che veda lo Stato nel ruolo di stimolo e rinnovata partecipazione.

La vertenza della Whirlpool in Campania, che coinvolge la vita di circa 350 famiglie di lavoratori, quella della Meribullon a Castellammare di Stabia, un ago di fatto nel pagliaio della crisi e delle dismissioni di tanti stabilimenti italiani, può essere il pretesto per superare la semplice solidarietà e tentare una soluzione pilota.

Le risorse che il governo dovrebbe impegnare in regalie ad una indegna multinazionale pronta sempre a delocalizzare ovunque, per non far chiudere, potrebbero per la prima volta in Italia essere utilizzate per riequilibrare i rapporti  di forza all’interno del sistema capitalistico nazionale.

Senza la tenuta dei lavoratori nei settori strategici, questo paese veramente sarebbe entrato in crisi in modo strutturale.  Il paese produttivo reale non ha conosciuto chiusure e tregue: ha costituito la continuazione delle fatiche ospedaliere e curative…con altri mezzi. Salute e produzione sono strettamente correlate e tutte e due hanno bisogno dell’intervento dello Stato e della Programmazione statale.

A Napoli si potrebbe partire con lo Stato che crea un ente pubblico economico alle dirette dipendenze del ministero dell’economia che avoca a se l’investimento finanziario e la copertura di partenza, scongiurando la chiusura, chiedendo a tutti i Lavoratori di partecipare attraverso quote figurative di partecipazione progressive parte fissa e variabile concordate nel capitale sociale dell’azienda. La nuova azienda potrebbe continuare a costruire elettrodomestici, (lavatrici, lavastoviglie e frigoriferi, televisori) ma seguendo le nuove misure adottate dalla Commissione europea che dettano regole più stringenti in materia di maggiore efficacia energetica, che prevedono. “esigenze di riparabilità e riciclo”, indispensabili per gli obiettivi dell’economia circolare perché “miglioreranno la durata, la manutenzione, il riutilizzo, l’aggiornamento e il riciclaggio degli elettrodomestici, nonché lo smaltimento”

Si andrebbe ad una gestione di tecnici, operai, e dallo Stato che avrà accortezza di promuovere particolari condizioni di stimolo, protezione e programmazione e verifica puntuale.

I diritti acquisiti sarebbero comunque garantiti e la quota di investimento figurativa di partenza, non andrebbe ad incidere sulla quota pensionistica o sul TFR; anzi creerebbe una di  fatto fonte alternativa assai più lungimirante delle pensioni integrative poggianti sui fondi finanziari .

La domanda collegata si fonda sulle produzioni effettive…non sulle bolle finanziarie  tendenzialmente limitate e destinate a caduta inevitabile ciclica e strutturale.

Lo Stato deve fare da GARANTE ASSOLUTO  e la partecipazione agli utili di impresa da parte delle maestranze creerebbe le condizioni di forte partecipazione alla riuscita della iniziativa, avendo anche un peso rilevante nelle decisioni strategiche, produttive e gestionali. (il 25% delle aziende in Europa già adottano schemi di profit Sharing).

Oggi nelle aziende difficilmente si riesce ad individuare il capitalista imprenditore, quello che prima veniva chiamato “il padrone” non esiste più, sostituito ormai da centri decisionali lontani, da una burocrazia dirigente lontana. Il dettato costituzionale secondo cui “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dei cittadini non è mai entrato nelle fabbriche. 

Lo Stato è stato grande assente nei processi produttivi da sempre perché vi era la convinzione che lo Stato non poteva che essere espressione degli interessi della classe dominante, nell’attualità i grandi colosi finanziari hanno di fatto più potere dello Stato impedendo di fatto che lo stesso possa intervenire nei rapporti fra finanza e lavoratori. L’Italia sconta l’abbandono da perte della classe politica degli obbiettivi di sviluppo economico e sociale.

E’ avvenuto così che un senso di impotenza da parte dei lavoratori facesse venir meno la voglia di lottare perché la lotta non paga più. I lavoratori, la società civile in genere si è distaccata dalla società politica perché gli istituti democratici sono stati svuotati della loro sovranità in nome di un’Europa sempre pi lontana sempre più disinteressata. La società civile ed i lavoratori in genere si sentono sempre meno rappresentati dai partiti ridotti a meri comitati elettorali e ci sia per il sempre meno potereffettivo del parlamento; ciò ha generato qualunquismo, apatia, frustrazione. Se lo Stato non si riappropria del suo ruolo anche in contrasto con le scelte sovranazionali si corre il rischio che la distruzione della Stato come riferimento istituzionale, come si sta cercando di completare in Italia in questa fase, coinciderebbe con la distruzione della democrazia.

Scriveva Francesco Forte nel maggio 1969 sulla rivista “Critica Sociale”: “sono comunque del parere che la forza fondamentale di contrapposizione alle gradi imprese private e di salvaguardia del potere politico dalla loro influenza sta nell’azione delle imprese pubbliche e nell’espansione di tale azione. Per quanto “vecchia”  possa apparire questa dottrina essa è invece estremamente attuale. Rendere sempre più pubblica l’azione delle imprese pubbliche e mantenere e potenziare lo sviluppo dell’imprenditorialità pubblica sono i due elementi base per lottare contro la destra economica e contro le forze del potere economico privato come forza di dominio economico e di ipoteca politica.

E questa in estrema sintesi è la strada da seguire.

Beppe Sarno

agosto 18, 2020

O briganti o emigranti!

di Beppe Sarno

La  crisi  sanitaria ed economica che la pandemia sta producendo ha messo sotto gli occhi di tutti che la politica lacrime e sangue che l’Europa ci chiedeva era una politica suicida che ha distrutto l’economia italiana in nome di un Europa intesa come un’unione di popoli e della democrazia. Ma l’Europa non è stato mai questo né mai lo sarà. La pandemia cambierà tutto: il nostro modo di vivere, il nostro modo di lavorare, il ritorno a politiche ambientaliste serie basate sul rispetto del territorio.

Basteranno le misure adottate dal governo italiano in carica ad invertire la tendenza di venti anni di servilismo nei confronti della Germania che su questa politica suicida ha costruito la propria rinascita?

Se qualcosa è stato fatto è nulla rispetto al danno che il Mezzogiorno d’Italia ha dovuto subire. Soprattutto la crisi ha messo in evidenza questo importante rapporto che esiste tra la crisi economica che la pandemia ha scatenato e il sottosviluppo delle aree depresse del mezzogiorno sottolineando come nessun progetto politico di rinascita e sviluppo e nessun investimento produttivo sia stato messo in campo per rilanciare il mezzogiorno.

In tempo di crisi sono proprio le aree più deboli a vacillare mentre quelle più forti riescono ad organizzare una difesa certamente più resistente. Non a caso il neo presidente della Confindustria  Carlo Bonomi è un lombardo   poco dialogante con la politica e molto attento agli interessi del padronato del Nord.

Per il sud non esistono piani di sviluppo perché non c’è una classe politica che li elabori e li sostenga, laddove il nord, e il nord-est trovano sostegno politico e nella stampa perché in tempi di crisi come quella che stiamo vivendo e che continueremo a vivere   nel prossimo futuro è più importante è più facile difendere il tasso di occupazione nelle zone ad alta concentrazione industriale.

Così succede che oggi di fronte alla crisi economica che avanza nulla si dice circa la possibilità di progetti industriali nel sud per accrescere l’occupazione e creare opportunità di lavoro. Vi è un progetto per la ripresa delle attività industriali? Certo sono state messe in campo misure per la salvaguardia dei livelli occupazionali che riguardano anche il SUD, ma fino a dicembre 2020 e poi? Che cosa ha fatto il governo per rilanciare le aree in crisi del mezzogiorno? Quali misure sono state messe in campo per attrarre nuovi investimenti e per la riqualificazione e il recupero ambientale? L’ex Ilva di Taranto è stata lasciata nelle mani della Mittal, imprenditori senza scrupoli che la porteranno alla chiusura dopo averla spogliata di ogni bene materiale ed immateriale. Stessa sorte è capitata alla Wirphool. Potremmo parlare per giorni del destino di Termini Imerese, di Gela, delle miniere sarde. Avviene quindi di ascoltare da parte di politici improvvisati che trovano media consenzienti    che tornano a riaffermare ancora una volta che il Mezzogiorno d’Italia deve rafforzare i suoi tesori naturali e cioè l’agricoltura ed il turismo in attesa di tempi migliori per gli investimenti industriali.

Il problema del sud non si risolve con l’agricoltura ed il turismo, che senza dubbio sono un parte importante della sua bilancia commerciale, ma il problema del mezzogiorno  si risolve salvando le attività industriali esistenti e promuovendone altre nel rispetto del territorio. Certo una promozione dell’agricoltura deve prevedere una industria di supporto come era la “Cirio” degli anni della Cassa del Mezzogiorno e dell’IRI.

Una riscoperta del sud come il giardino d’Europa dove i ricchi industriali tedeschi vengono a trascorrere  le vacanze e a mangiare i cibi genuini della cucina mediterranea  significa dare una risposta limitata al discorso dello sviluppo che deriva certamente da esperienze e da errori finora commessi per lo sviluppo delle aree industriali del sud. Oggi quegli errori e quelle imposizioni subite da un‘Europa poco attenta e forse contraria ad uno sviluppo economico vengono a galla ma vengono anche facilmente risucchiati e compressi nell’attuale situazione. La verità è che la politica meridionalistica va ripensata nella sua globalità e dovrà toccare da vicino l’industria manifatturiera, l’agricoltura ed il turismo.

La verità è che, mancando un piano organico di sviluppo dell’economia del meridione, tutte le economie sono state punite: sia quella agricola che quella dell’industrializzazione, che deve continuare ad essere il punto principale intorno a cui fa ruotare l’economia meridionale. L’errore è stato è di aver bloccato l’industrializzazione trasferendola altrove. Se invece fosse stata legata con la realtà sociale ed economica  avremmo avuto certamente un aumento dell’occupazione e della ricchezza generale. Ricordo quando Prodi regalò l’Alfasud alla Fiat, tutto l’indotto della Campania fu azzerato. I responsabili acquisti della Fiat ripetevano il mantra che un fornitore Fiat rispettabile “doveva parlare torinese”. Morirono più di cinquecento aziende medio piccole in poco più di due anni.

E’ necessario un piano organico di sviluppo del Mezzogiorno investendo capitali ed energie senza rincorrere il sogno di una vita bucolica, di fare l’aria pulita, o dare il pane ai poveri con il reddito di cittadinanza.  E’ necessario risollevare le condizioni economiche del mezzogiorno e fermare quell’emorragia di giovani che partono in cerca di fortuna, inquadrando l’agricoltura  in un piano di sviluppo generale. Soltanto saldando le varie realtà economiche turismo, agricoltura, ambiente industrializzazione si potrà evitare che il sud diventi il solito alibi per sfuggire ai problemi che la crisi sanitaria, economica, sociale ed ambientale ci pone davanti e che normalmente si risolve rinviando al di la da venire la soluzione del problema. 

Ma siamo sicuri che “legge di Maastricht” preveda questo?

Siamo sicuri che questo sia possibile nell’orto chiuso dell’Ue, sotto la legge liberista dell’euro?


 [SARNO1]

 [SARNO2]

febbraio 12, 2015

“Salva Ilva”, il Decreto che salva solo le banche.

La cosiddetta “culla del Diritto” ha partorito un altro capolavoro: grazie al Decreto “Salva Ilva”, licenziato con grande strepito da Renzi, quell’azienda non dovrà pagare un euro alle centinaia di parti civili che erano già state ammesse al processo. È accaduto all’udienza preliminare, quando il Gup Vilma Gill Altro…

dicembre 28, 2013

Ilva: Bondi, in 2014 previsti 6-700 mln investimenti Aia.

Ilva, a TarantoIlva, a Taranto

Nel 2014 ”prevediamo 600-700 milioni di investimenti nell’Aia” che si potranno fare ”se ci saranno finanziamenti perché le nostre risorse non bastano”. Lo ha detto il commissario straordinario dell’Ilva Enrico Bondi in audizione in commissione Ambiente alla Camera sul decreto sulle emergenze ambientali.

Nel 2013, ha spiegato Bondi, l’Ilva ha prodotto ”sei milioni e 230 mila tonnellate, contro gli otto milioni e 248 mila del 2012, con una differenza nei ricavi di 41 euro a tonnellata. c’è stata una diminuzione del costo delle materie prime di 25 euro per tonnellata, che non compensa, e in più un incremento del costo per energia, manutenzione, prestazioni esterne, per 24 euro a tonnellata”.

La produzione, ha osservato ”ha frenato moltissimo” e ”nel mercato italiano i nostri concorrenti hanno esportato il 25% in più”. Comunque ”noi siamo in equilibrio finanziario, ma il conto economico è particolarmente pesante” anche se, ha sottolineato ”non è assolutamente aumentata l’esposizione con le banche” così come quella con i fornitori ”che resta a 35 giorni di scaduto, fisiologico”. Ma ”a gennaio non so se saremo ancora in grado di mantenere questa situazione”. c’è bisogno adesso ”di un provvedimento veloce – ha concluso – altrimenti in gennaio faticheremo a fare tutto quello che dobbiamo fare”.

agosto 19, 2013

Se la crisi è colpa del manager!

Michele Azzu – Ilva, Eutelia, Alcoa, Phonemedia: società fallite o sull’orlo della bancarotta per la responsabilità di una dirigenza criminale. Le cui azioni ricadono poi sui dipendenti licenziati o in cassintegrazione. Che ora Confindustria vorrebbe ancora più ‘flessibili’ (cioè precari)
(22 luglio 2013)
Confindustria non molla: per il presidente Giorgio Squinzi bVisualizza altro

luglio 16, 2013

Il fumo fa male, sparare cazzate di più.

Sparare cazzate sembra diventato 
lo sport nazionale del mondo politico.
Una volta tanto qualcosa in cui siamo primi al mondo.
Una delle panzane più eclatanti 
è quella secondo cui 
i tumori che decimano la popolazione di Taranto 
sarebbero conseguenza del fumo di sigaretta.
Meglio non parlare di quale tipo di fumo 
abbia ispirato una simile boiata.
aprile 15, 2013

Coscienza civile.

 

ilva-referendum

Taranto e il referendum su l’Ilva.

aprile 7, 2013

Taranto manifesta per sostenere i giudici.

Dalle 10 di stamane 7 aprile Taranto scende in strada per sostenere i giudici e nell’attesa che la Corte costituzionale si pronunci martedì sul decreto salva-Ilva.

Bandiera bianca sull'Ilva e Taranto manifesta per sostenere i giudici 8

Parte stamane a Taranto dalle 10 del mattino una grande manifestazione cittadina voluta per sostenere i giudici in attesa della sentenza della Corte costituzionale che si pronuncerà martedì sul decreto salva-Ilva e ritenerlo non valido. Se la Corte dovesse esprimere parere positivo per incostituzionalità allora l’acciaieria dovrebbe chiudere definitivamente. La bandiera bianca è quella che chiedono i cittadini di Taranto veder sventolare sull’Ilva. Parteciperanno con i loro camici bianchi anche medici, infermieri, analisti, tutto il comparto sanitario invitati da Peacelink, dal Fondo Antidiossina e da tutte le associazioni che hanno organizzato il corteo.

Peraltro Taranto è chiamata alle urne il prossimo 14 aprile quando attraverso un referendum consultivo l’amministrazione chiederà ai cittadini se vogliono la chiusura dell’Ilva e se vogliono che prosegua nel suo lavoro.

Le domande del referendum sono:

1) Volete voi cittadini di Taranto, al fine di tutelare la vostra salute nonchè la salute dei lavoratori contro l’inquinamento, proporre la chiusura dell’Ilva?
2) Volete voi cittadini di Taranto, al fine di tutelare la vostra salute e quella dei lavoratori, proporre la chiusura dell’area a caldo dell’Ilva, maggiore fonte di inquinamento, con conseguente smantellamento dei parchi minerali?