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dicembre 15, 2021

l 20 GIUGNO 1976: INIZIAVA IL DECLINO DELLA REPUBBLICA DEI PARTITI

I

di Franco Astengo

Quarantacinque anni fa, 20 giugno 1976, le elezioni politiche anticipate, seguenti il “terremoto” (l’Unità: “l’Italia è cambiata davvero”) verificatosi con i risultati delle amministrative svoltesi 12 mesi prima, registrava il massimo consolidamento del sistema imperniato sui grandi partiti di massa.

Quel sistema che aveva egemonizzato la scena politica italiana dal dopoguerra in avanti.

Verifichiamo alcune cifre.

In quel 20 giugno 1976:

Gli aventi diritto al voto iscritti nelle liste elettorali assommavano a 40.426.658 unità (non esisteva ancora la possibilità del voto all’estero).

I partecipanti che si recarono ai seggi furono: 37.755.090 pari al 93,39% (la percentuale dei votanti si manteneva costante al di sopra del 90% a partire dalla elezioni per la prima legislatura il 18 aprile del 1948).

I voti ritenuti validi assommarono a : 36.707.578, con 596.541 schede bianche e 1.047.512 schede nulle.

I due più grandi partiti di massa, la DC e il PCI ottennero rispettivamente 14.209.519 voti lo scudo crociato e 12.614.650 voti i comunisti per un totale di 26.824.169 voti pari al 73,08% sul totale dei voti validi e al 66,35% sul totale degli aventi diritto.

Se alla DC e al PCI aggiungiamo i 3.540.309 voti totalizzati dal PSI (risultato giudicato molto deludente che determinò un vero e proprio cataclisma all’interno del partito con l’avvento di Craxi alla segreteria) registriamo che i 3 grandi partiti di massa disponevano di 30.364. 478 voti pari all’82,71% dei voti validi e al 75,11% del totale degli iscritti.

Un risultato che poteva davvero far pensare all’egemonia incontrastata di quella che Pietro Scoppola avrebbe poi definito “La Repubblica dei Partiti”.

Per arrivare a quel risultato le due formazioni maggiori si erano trovate in situazioni completamente difformi.

Il PCI aveva conseguito un eccezionale risultato nelle amministrative del 15 giugno 1975 ,grazie al quale aveva esteso la propria capacità di governo locale in situazioni nelle quali tradizionalmente si era sempre trovato in minoranza.

Un risultato quello del 20 giugno 1976 per il PCI frutto di un’ondata “lunga” di forte pressione sociale per un rinnovamento del Paese che aveva avuto al suo centro le lotte sindacali dell’autunno caldo del 1969, il progredire dell’estensione dei diritti dei lavoratori(fino al punto unico di scala mobile) e di quelli sociali, la grande vittoria nel referendum sul divorzio che aveva segnato il momento fondamentale nella modernizzazione anche culturale del Paese, il procedere di una forma di distensione nella logica dei blocchi a livello internazionale, la sconfitta degli USA in Vietnam, la fine delle dittature fasciste nella penisola iberica, la decolonizzazione in Africa segnata in particolare dalla liberazione dell’Algeria.

Vietnam e Algeria: fatti che avevano fatto segnare, nelle nuove generazioni, una crescita importante di un sentimento internazionalista.

Il PCI era stato in grado, considerato il suo radicamento nelle fabbriche e nei territori, di capitalizzare questo forte movimento progressista senza assumerne l’avanguardia e riuscendo anche a marginalizzare, almeno sul piano elettorale, il complesso dei gruppi formatisi alla sua sinistra che, in quel 20 giugno, avevano formato il cartello elettorale di Democrazia Proletaria arrestatosi ai 555.890 voti pari all’1,5%.

Una situazione che in condizioni estreme avrebbe poi avuto conseguenze non secondarie nella stagione del terrorismo sia al riguardo della “zona grigia” presente nell’intellettualità e nelle fabbriche, sia dal punto di vista della “prima linea” militante (e ancora sugli orientamenti mobilitanti di quello che poi sarebbe stato definito “movimento del ’77”).

La DC aveva invece attraversato l’inizio degli anni’70 in una fase di declino: aggredita a destra dal MSI (rivolta di Reggio Calabria), assunta una funzione da “legge e ordine” dopo l’attentato di Piazza Fontana, scivolata nel primo governo Andreotti appoggiato dal PLI, verificato l’esaurimento della prima formula di centro sinistra (alle elezioni del 1976 si andò sulla base di un articolo apparso sull’Avanti e firmato dal segretario socialista De Martino nel quale si affermava come il PSI non avrebbe più partecipato a governi senza i comunisti) la DC aveva subito una dura sconfitta nel referendum sul divorzio nel quale si era allineata con la parte cattolica più retriva e con i neo-fascisti. Sostituito Fanfani con Zaccagnini alla segreteria e Moro alla presidenza, nell’occasione delle elezioni del 20 giugno la DC aveva usufruito di importanti appoggi da destra (Montanelli “turatevi il naso e votate DC”, la “maggioranza silenziosa” di Degli Occhi e Rossi di Montelera, Comunione e Liberazione che nel 1976 elesse il suo primo deputato Mazzarino De Petro in Liguria) recuperando il tonfo delle amministrative soltanto attraverso il prosciugamento degli alleati centristi e in particolare del PLI, rientrato in parlamento per un soffio (quorum per 400 voti a Torino).

Insomma: per essere precisi nella ricostruzione, alla vigilia del 20 giugno nella DC non appariva delineata quella linea di “terza fase” in seguito attribuita a Moro quasi come marcia d’avvicinamento verso il PCI.

Anzi, al 20 giugno la DC era arrivata con professioni di moderatismo e parole d’ordine anticomuniste.

Il risultato del 20 giugno aveva così segnato quella situazione di “bipartitismo imperfetto” coniata da Giorgio Galli: una DC di centro – destra e un PCI egemone a sinistra, con “l’imperfetto” a significare l’impossibilità di una alternanza. Impossibilità dovuta a un cumulo di ragioni tra le quali non esaustiva quella riferita alla situazione internazionale e alla logica dei blocchi perché presente anche una motivazione di assenza di progetto d’alternativa da parte del PCI. Il PCI era fermo alla logica dell’arco costituzionale espressione diretta della linea del “compromesso storico” elaborato dal segretario Berlinguer nella convinzione dell’impossibilità (e del rischio democratico) di un governo delle sinistre al 51%; linea del resto condivisa anche all’interno del PSI anche se non completamente e contestata all’interno del PCI soltanto da Longo e Terracini e a sinistra dal Pdup-Manifesto.

Si determinò così una situazione di sostanziale immobilismo, con la DC che mantenne un ruolo pivotale pur non disponendo più di una maggioranza centrista.

Una DC collocata al centro di un sistema che non avrebbe saputo alla fine produrre altro che un monocolore del partito di maggioranza relativa sostenuto dall’astensione della gran parte del Parlamento (Andreotti ter, alla Camera 258 favorevoli, 44 contrari dei quali 33 fascisti come scrisse il Manifesto, 303 astenuti).

Il PCI non mosse nulla sul piano della mobilitazione popolare, anzi la forza sindacale in quel momento che era ancora di fortissima capacità di mobilitazione sociale si rivolse alla fine contro la soluzione di governo.

Ben prima della tragica fase contrassegnata dal rapimento e dall’uccisione di Aldo Moro si può ben affermare che si fosse già avviato un principio di distacco del quadro politico da parti del Paese (in particolare del mondo del lavoro) che avevano fornito un formidabile apporto al consolidarsi di un sistema fondato sui partiti di massa .

La classe operaia pensava, nella sua grande maggioranza, che il sistema dei partiti avrebbe favorito quella profonda modificazione dello stato di cose in atto che stava nelle aspirazioni più alte di grandi masse di donne e uomini.

La “politica” aveva toccato proprio il 20 giugno 1976 il punto più alto nella sua credibilità, autorevolezza, consenso diffuso: dall’esito di quelle elezioni iniziò invece un declino del sistema nel suo complesso che trovò poi il suo primo punto di caduta, nel post – rapimento Moro, con l’esito del referendum dell’11 giugno 1978 su”legge Reale” e legge sul finanziamento pubblico ai partiti: esito in cui si ravvisò una forte disaffezione dell’elettorato rispetto alle indicazioni di voto fornite dalle formazioni maggiori (in particolare sulla questione del finanziamento pubblico ai partiti).

Alle elezioni anticipate del 1979 l’afflusso al voto registrò un calo del 3% conservando a stento una quota superiore al 90%: la somma dei due maggiori partiti assommò a 25.700.000 voti, con un calo del PCI di quasi un milione e mezzo di voti (1.475.419) e un balzo dei radicali, in quel momento caratterizzati come partito anti- sistema, di 800.000 voti.

L’esito di quel lontano 20 giugno 1976 può oggi essere sintetizzato come quello di un avvio di un declino del sistema fondato sui partiti di massa .

Un declino che si sarebbe rivelato nella sostanza irreversibile fino all’esplosione definitiva avvenuta all’inizio del anni’90 a causa dei fenomeni concomitanti e convergenti di Tangentopoli, della caduta del Muro di Berlino, della firma del trattato di Maastricht.

Un declino, in quel momento, non avvertito a livello sistemico.

I grandi partiti ignorarono che si stava affermando una “logica della governabilità” e si stava profondamente modificando il quadro delle relazioni sociali ed emergevano nuovi fenomeni di costume.

Così si manifestavano tendenze individualistiche e di ripresa di fattori provocanti la crescita delle disuguaglianze, in controtendenza con quanto era avvenuto negli anni ’60 – ’70.

Ci si avviava così alla drammatica “festa” degli anni’80: quelli dei cancelli della Fiat e della “Milano da bere”.

febbraio 1, 2021

INCERTEZZA E PROVVISORIETÀ’

di Franco Astengo

Il congresso di Sinistra Italiana, svoltosi in questi giorni in modalità online, può forse essere riassunto con due parole: quella dell’incertezza, termine usato dal segretario Fratoianni nelle sue conclusioni e quello della provvisorietà evocato da Luciana Castellina (Luciana ha usato “provvisorietà” ricordando il Pdup, ma aggiungendo opportunamente che in quel tempo c’era il PCI..).

Tra incertezza e provvisorietà corre una diversità di significato.

Una diversità da ricordare non casualmente: incertezza significa che l’orizzonte non appare e che, se di transizione si tratta, ci si trova ancora al centro del tunnel (considerato che si sia stati capaci di riconoscere di trovarsi in un tunnel); provvisorietà dovrebbe voler dire che la transizione ha davanti a sé una meta.

In particolare in politica se si è provvisori è perché si dispone di un progetto sufficientemente compiuto e la questione da affrontare risiede nell’individuare le tappe da percorrere per raggiungerlo: nell’incertezza questo non avviene.

Fin qui, beninteso, siamo all’abc: si tratta però di inoltrarci in un difficile cammino di interpretazione e di proposta.

Nelle scorse settimane abbiamo assistito a un grande dibattito e a una serie imponente di iniziative editoriali al riguardo del centenario del congresso di Livorno e della fondazione del PCI.

Uno sviluppo di attività memorialistica e di analisi forse inaspettata dal cui esito si possono trarre alcune indicazioni: il PCI non ha avuto eredi eppure, nonostante tutti gli stravolgimenti accaduti nel corso degli ultimi trent’anni sul piano delle relazioni internazionali, della tecnologia, dell’organizzazione sociale, l’ombra di quel partito rimane quasi come il fantasma di Banquo sulla scena della sinistra, non soltanto in Italia.

E’ curioso, infatti, che l’insieme della pubblicistica e della riflessione politica, dopo aver appunto dedicato tanto impegno e tanto spazio ad un avvenimento accaduto 100 anni fa si sia soffermata molto meno nell’analisi e nella riflessione sulla fase di scioglimento del Partito, verificatasi proprio oggi 30 anni fa.

E’ mancata fin qui l’esplorazione delle cause e degli esiti di quel fondamentale fatto politico riguardante la chiusura del PCI e rimane quasi assente l’analisi di ciò che è rimasto di vivo nelle diverse tradizioni della sinistra italiana.

Soltanto in pochi ormai continuano a coltivare un’idea di superamento delle divisioni di allora e proseguite nel tempo con la ricerca di recuperare una capacità di nuova proposizione politica.

Pare proprio non ci siano eredi per entrambi i filoni che uscirono dal congresso di Livorno e che l’esaurimento delle loro forme storiche di rappresentazione politica avvenuto all’inizio degli anni’90 interessi davvero molto poco.

Eppure l’analisi di quelle cause (e gli effetti che hanno prodotto) potrebbe tornare fattore fondamentale per uscire dall’incertezza e avviarsi, almeno, sul sentiero della provvisorietà nella ricerca di quel nuovo soggetto politico: ricerca che, in questo momento, sembra assomigliare sempre di più a quella del Santo Graal.

Francamente non credo che si possa uscire dall’incertezza senza compiere una scelta di fondo sul piano teorico in modo da riconoscere davvero la complessità delle contraddizioni in atto, evitando di limitarci ad una visione che alla fine rischia di assumere tratti quasi corporativi.

Una complessità delle contraddizioni che ormai rende da aggiornare il vecchio schema di Rokkan (1982) ed evoca la necessità di rivisitare anche l’antica suddivisione tra struttura e sovrastruttura.

Una complessità delle contraddizioni allargatasi nel periodo più recente per ragioni evidenti di cambiamento di qualità nel meccanismo della modernità e della globalizzazione.

Occorre però evitare il ritorno alla categoria dell’esaustività del “nuovo” che all’epoca costituì il vero e proprio parametro di valutazione per arrivare a determinare le ragioni dello scioglimento del PCI.

Da allora il mondo è sicuramente cambiato per tanti aspetti, ma non sono assolutamente cambiate alcune delle dinamiche di fondo che hanno regolato e regolano l’agire economico, politico, e sociale sulla base di ben precisi “sistemi” di carattere teorico, che abbiamo chiamato ideologie.

Nella presunta “modernità” la grande capacità nell’espressione di egemonia è stata appunto, quella, di far passare la propria ideologia come una “non ideologia” ma come un’inevitabile assunzione di buon senso comune, al grido “le ideologie sono morte”.

E’ ciò che è accaduto, a livello planetario, ormai da trent’anni, diciamo dalla chiusura storica della divisione in blocchi e dall’esclamazione, presa per buona da molti, di Francis Fukuyama, di “fine della storia”.

In realtà i fenomeni più evidenti hanno la caratteristica del “sempre uguale”, portandosi appresso una carica ideologica fortissima e del tutto sbilanciata e al ritorno a un confronto tra estremismi, con la sparizione nelle società occidentali avanzate della “middle class” e l’affermazione di diversi modelli di confronto.

L’epidemia globale non ha mutato questo quadro nell’insieme delle coordinate di riferimento del muoversi complessivo della dinamica planetaria accentuando, anzi, i termini di scontro e, da questo punto di vista, l’esito delle elezioni USA avrà probabilmente un impatto relativo.

C’è stato molto dell’antico nello sbandierato “nuovo”, oltre alla riproduzione dell’antico “ciclo delle crisi”: finanziarizzazione dell’economia, estensione della condizione materiale di classe (con la creazione di un “ventre molle” pauperizzato che, sicuramente nel “caso italiano” preferisce schiacciare chi si trova di sotto utilizzando la classica leva dell’assistenzialismo, non cercando di unirsi in un’idea di nuovo “blocco storico”), imbarbarimento nelle condizioni della produzione e delle qualità della vita se pensiamo all’emergente tema ambientale, insorgenza sanitaria, sostanziale mantenimento delle condizioni di “sopraffazione di genere”, impatto violento delle grandi contraddizioni epocali causate dalle guerre e da un processo di regressivo imbarbarimento che riguarda ampie zone del mondo causando fenomeni come quelli del terrorismo globale, dei migranti, dell’instaurarsi di feroci dittature com’è accaduto in gran parte dei paesi africani, si è riproposto in Europa e sta tornando in Asia.

Insomma: un arretramento a uso di una riduzione del rapporto tra politica e società, e quindi del meccanismo di regolazione democratica del consenso e del controllo sociale.

In Italia il punto di saldatura rispetto a questo stato di cose è stato ricercato nella personalizzazione della politica, che poi è franata nella ricerca del protagonismo populista alimentato da un utilizzo del sistema dei media che, in un primo tempo ha ovviamente favorito l’ascesa – sempre per restare in Italia – di un’estrema destra populista, ma che adesso pare molto più indefinito nei suoi orientamenti di fondo guardando a un sistema politico fragile, con soggetti di complicata legittimazione.

In queste condizioni ciò che rimane di sinistra, non può che ritrovare nella propria storia gli elementi portanti di una ricostruzione di autonomia di pensiero e di strutturazione organizzativa.

La lettura della storia intesa come fattore decisivo dell’autonomia culturale.

Per quel che riguarda l’Italia per una possibile sinistra emerge, sotto l’aspetto dell’autonomia culturale e politica, il fatto che non si possa assumere la questione del governo come questione dirimente arrestandosi ad essa quasi come punto di finalità “ultima” (come fu fatto al tempo dello”sblocco del sistema politico”).

Il tema del governo, nell’articolazione estrema del processo di relazione tra il sociale e il politico, rimane quello di un modesto cabotaggio da “politique d’abord”.

Il punto da ricercare,invece, dovrebbe essere quello del ritrovare la “provvisorietà” di un progetto di transizione nel corso del cui itinerario si riesca a delineare un quadro di radicale trasformazione dell’assetto sociale.

Per cercare di far questo serve una adeguata soggettività politica da costruire magari studiando al meglio la storia della sinistra nel nostro Paese.

gennaio 29, 2021

…. E se Gina non la pensasse come me?

Di Beppe Sarno

Il 13 gennaio 1921 il comitato esecutivo della terza internazionale inviava un telegramma alla direzione del Partito Socialista che si apprestava a celebrare il XVII° congresso nazionale.

Il telegramma firmato per la componente russa da Lenin, Bukarin, Trotsky, Lesowski, sulla  base delle considerazioni che in Italia più che in ogni altro  paese fossero maturi i tempi per una azione rivoluzionaria, nel condannare la frazione che faceva riferimento a Serrati, chiudeva il telegramma con la dichiarazione non negoziabile che “Il Partito comunista Italiano deve essere creato ad ogni modo” e concludeva “Abbasso il riformismo, viva il vero partito comunista italiano!”  e nel contempo si chiedeva l’espulsione della frazione guidata da Filippo Turati.

Con queste premesse è difficile pensare che il congresso potesse andare diversamente da come effettivamente si svolse. Era la terza internazionale che pretendeva la scissione. Il giorno successivo, 15 gennaio si riunisce il comitato dei comunisti unitari e Serrati tiene una lunga conferenza sulla situazione in Russia e sulle direttive della Terza Internazionale.

Il sedici gennaio si inaugura ufficialmente il XVII° congresso del partito socialista italiano.  Il Partito arriva a questo appuntamento diviso, confuso ed impotente incapace di scegliere tra la soluzione riformista e quella rivoluzionaria. La frazione comunista del Psi che aveva visto nell’occupazione delle fabbriche la premessa storica della rivoluzione proletaria nell’ottobre 1920 aveva elaborato a Bologna  un manifesto programmatico firmato da Bordiga, Gramsci, Terracini e Bombacci. Questo manifesto venne poi confermato ad Imola il novembre successivo e divenne il punto discriminante fra l’ala rivoluzionaria e quella riformista al congresso di Livorno.

Al congresso quattromila sezioni rappresentate salutavo il relatore ufficiale Giovanni Bacci. L’oratore ricorda che ricorre l’anniversario dell’insurrezione armata di Spartacus  e la ricorrenza della morte di  Rosa Luxemburg uccisa insieme a  Liebknecht, dai miliziani dei cosiddetti Freikorps, i gruppi paramilitari agli ordini del governo del socialdemocratico Friedrich Ebert.

E’ il tedesco Levi che accende la miccia della divisione. Ricordando la Luxemburg e Liebknecht afferma testualmente “Vi sono momenti in cui bisogna dividersi, chi è stato fratello oggi potrà non esserlo domani” e conclude il suo intervento dichiarando “il proletariato deve essere guidato da un partito comunista unico!”

Tranquilli nel portare il saluto della Federazione giovanile socialista afferma “oggi qui debbono essere bruciati i fantocci dell’unità!”

Per Graziadei l’esistenza delle condizioni per una lotta rivoluzionaria e l’impossibilità a far convivere in un partito l’anima socialdemocratica e quella comunista non può che portare ad una rottura per aderire alle tesi della terza internazionale.

Per evitare la scissione Serrati propone l’approvazione di venti dei ventuno punti posti dalla Terza Internazionale. L’ultimo punto quello che divenne lo spartiacque fra i comunisti ed il resto del partito fu l’espulsione dei riformisti di Turati e Matteotti. 

La relazione di Lazzari apre il terzo giorno del congresso ed è un invito all’unità. “La frazione che vuole la scissione contrappone socialismo e comunismo!” e  “La separazione che si vuole fare fra socialisti e comunisti è artificiale e artificiosa” Lazzari non dimentica di far osservare quanto possa essere dannosa una scissione che non sarebbe capita dagli operai e dai contadini. “Noi non abbiamo il diritto di distruggere tutto.” Di segno opposto la relazione di Terracini che afferma “il proletariato è pronto per la conquista del potere” e “Il partito socialista così come è congegnato non può compiere questa missione!”

Il 20 gennaio parla Amedeo Bordiga. Per Bordiga il riformismo è funzionale al capitalismo e quindi solo un’azione rivoluzionaria può liberare la classe operaia dall’oppressione capitalistica. In questo senso il partito socialista è incapace di sviluppare energie rivoluzionarie. Bordiga conclude il suo discorso affermando “A chi chiede cosa faremo noi rispondiamo che faremo ciò che fa Mosca …. non falliremo e prendiamo impegno di consacrare tutta la nostra opera alla lotta contro tutti gli avversari della rivoluzione, alla lotta per raggiungere l’ultima meta: la Repubblica dei Soviet in Italia!”

E’ Bordiga il regista della frazione scissionista, non Togliatti, che è rimasto a Torino, non Gramsci che non prende la parola durante il congresso.

Nella seduta pomeridiana è Turati a prendere la parola, con un discorso dal sapore antico e poco convincente parla e condanna la violenza come strategia per prendere il potere, ma in buona sostanza aspetta l’evolversi degli eventi.

Bombacci rivendicando la fedeltà alla Terza Internazionale parla di una scissione necessaria destinata a rimarginarsi dopo la rivoluzione imminente. Bombacci chiudendo il suo intervento dichiara “Usciamo dal partito, ma non dal socialismo, è’ la rivoluzione russa che ci chiama sotto la sua bandiera, perché l’opera dei soviet deve trionfare per tutta l’Internazionale.”

Il 21 gennaio la mozione unitaria vince il congresso non prima di un intervento ultimativo del delegato Kabaktchieff, il quale  comunica che qualora non si dovesse votare per la mozione comunista il partito socialista italiano sarebbe fuori dalla Terza Internazionale.

Infine Bordiga  invita la frazione Comunista, sconfitta dal congresso  a sbattere la porta e ad andarsene. «I delegati che hanno votato la mozione comunista abbandonino la sala. Sono convocati alle undici al teatro San Marco per deliberare la costituzione del Partito Comunista».

Nel comunicato conclusivo del congresso è scritto “Il Partito Socialista Italiano sostiene che la rivoluzione in Italia nelle forme violente e distruggitrici volute dal comunismo con l’immediata formazione di tipo russo  sarebbe destinata a crollare a breve scadenza ove mancasse la concorrente azione economica e politica del proletariato di alcuni paesi più ricchi durante l’immancabile precipitazione economica.”

L’articolo di fondo dell’Avanti del 22 gennaio analizza la scissione e le sue conseguenze. L’articolo presumibilmente firmato da Serrati afferma che la scissione è poca cosa difronte al più grave problema di capire “la posizione del proletariato dei vari paesi di fronte alla rivoluzione.” C’è da parte di Mosca la volontà di far precipitare “artificialmente” la situazione anziché analizzare gli avvenimenti. La scissione, denuncia l’articolo  “avvenuta per atto d’imperio….ed è stata come un fenomeno d’importazione” E conclude “ Così mentre il capitalismo sferra il proprio attacco, la Terza Internazionale, anche la dove non era necessario, provoca la scissura dei socialisti, spezza il movimento, scioglie le file di coloro che le creano, ….Questo è l’errore, errore pratico, politico del quale i compagni della Terza Internazionale si renderanno conto quando sarà loro dimostrato….che non si violenta la storia e non si provocano  artificialmente situazioni che non hanno la loro ragion d’essere nella realtà. “

“Non si violenta la storia! Frase potente e nello stesso tempo struggente.

Intanto arriva da Bologna la notizia che la camera del lavoro di Bologna e di Modena sono state incendiate dalle bande fasciste, nella mattina a Modena e la sera a Bologna sotto l’indifferenza delle forze dell’ordine. A Milano la libreria in cui si vendeva l’Avanti viene saccheggiata e distrutta. L’articolo si conclude con un appello all’unità “La scissione oggi nelle presenti circostanze è eminentemente reazionaria. Giova ai dominatori, spezza le reni al movimento di classe. Compagni restiamo uniti. E’ l’ora del pericolo.”

Mai allarme fu così fondato.

Il giorno successivo la direzione del Partito firma un appello ai lavoratori nel quale denuncia  che la scissione è avvenuta solo per la forte volontà dei rappresentanti della Terza Internazionale e dichiara che la scissione favorirà esclusivamente le forze reazionarie che già sono all’opera.

Lasciando il Teatro Goldoni gli scissionisti cantando l’internazionale si avviano verso il Teatro San Marco  dove viene celebrato il primo congresso del Partito Comunista “ Sezione dell’Internazionale comunista “ Fra tutti spicca la figura di Amedeo Bordiga capo effettivo del partito. Oggi si celebra il centesimo anno da quell’evento con grande e sospetta enfasi. La domanda che sorge spontanea è se quel partito nato al Teatro san Marco di Livorno è veramente il partito che oggi si celebra e soprattutto: fu vera gloria?  Veramente quella scissione era necessaria per il movimento dei lavoratori? Va detto che la scissione di Livorno non nasce per caso essa è solo la certificazione di una lacerazione profonda che si era andata creando all’interno dl partito Socialisti negli anni precedenti. A Livorno si arriva con un’Italia scossa da una profonda crisi economica  con una classe operaia che esce sconfitta dal biennio rosso. Nel 1917 il partito adottò un programma  come base della sua azione per il dopoguerra. Chiedeva il suffragio universale, era favorevole alla repubblica, proponeva un vasto intervento economico con la promozione di una serie di lavori pubblici e con la bonifica delle terre incolte. Il giovane Amedeo Bordiga, aveva appena 28 anni, denunciò questo programma  perché non si poneva il problema delle guerra. In realtà la sinistra di Bordiga, Bombacci, era decisamente rivoluzionaria  e contro la guerra, mentre l’ala destra del partito sotto la guida di Filippo Turati aveva appoggiato apertamente lo sforzo bellico.  Lo scoppio della rivoluzione russa entusiasmò la base del partito che si sentiva pronta per la rivoluzione, ma fra il dire e il fare……e  poi non va dimenticato che nel 1919 le gerarchie vaticane autorizzarono don Sturzo a fondare un partito cattolico, che ebbe grosse adesioni soprattutto nel meridione. Gli attori di quel momento erano i Socialisti,  cattolici, e la destra di D’Annunzio con Mussolini che cominciava a crescere  deciso a prendersi la rivincita sui socialisti che lo avevano cacciato. In questo contesto nel congresso di Bologna i socialisti si pronunciarono decisamente in favore dell’opzione rivoluzionaria. “In Italia è iniziato il il periodo rivoluzionario di profonda trasformazione della società, che conduce ovunque all’abbattimento violento del dominio capitalista borghese.” Le elezioni dovevano servire solo per “agevolare l’abbattimento degli organi della dominazione borghese. “Il Partito aderì alla terza internazionale definita “l’organismo proletario mondiale che tali principi propugna e difende,” Da una parte quindi la ricerca di un collegamento con la base operaia per preparare la rivoluzione e dall’altra il lavoro all’interno delle istituzioni primo fra tutti il parlamento per portare avanti una implacabile opposizione per rendere impossibile il funzionamento dello stato borghese. Al fascino per ciò che era avvenuto in Russia si contrapponeva la consapevolezza da parte della maggioranza del partito dell’impreparazione dei lavoratori a affrontare l’avventura rivoluzionaria. A Bologna Bordiga usci sconfitto, come uscirà sconfitto dal congresso di Livorno. Non a caso la CGL nel 1919 aveva approvato un programma per la ricostruzione postbellica che chiedeva la repubblica, l’abolizione del senato, la rappresentanza proporzionale, l’abolizione della polizia politica, l’introduzione del referendum, e il controllo della politica estera da parte del parlamento. In più si chiedeva l’istituzione di una costituente, la riforma agraria e il controllo dell’industria da parte dello Stato. Un bel pacchetto di riforme, insomma. Questo programma fu respinto dalla destra di Turati e dall’ala rivoluzionaria fautrice dell’abbattimento violento dello stato. Mentre le altre organizzazioni sindacali (USI e Confederazioni italiana del lavoro) erano variamente composte la CGL era composta in maggior parte da quadri socialisti. Intanto il fascismo cresceva e D’Annunzio occupava Fiume e a conclusione del biennio rosso Giolitti affermava “«Ho voluto che gli operai facessero da sé la loro esperienza, perché comprendessero che è un puro sogno voler far funzionare le officine senza l’apporto di capitali, senza tecnici e senza crediti bancari. Faranno la prova, vedranno che è un sogno, e ciò li guarirà da pericolose illusioni.»   Questa era la situazione quando si apre il congresso di Livorno e lo scontro fra le tre anime del partito: i comunisti puri, favorevoli all’espulsione dei riformisti, i comunisti unitari che volevano l’adesione al Komintern e accettavano la linea politica dettata da Mosca,  ma erano contrari all’espulsione dei riformisti e infine i concentrazionisti contrari ad ogni espulsione e che miravano a salvare l’unità del partito. La vittoria andò al gruppo più forte: il gruppo di centro. Sia Lazzari che Serrati si recarono a Mosca per negoziare ma inutilmente perché il Komintern comprendeva il pericolo di un partito autonomista. Il congresso di Livorno fu una sconfitta per tutti i lavoratori, divisi e disorientati ed indeboliti dalle scelte di Bordiga: non a caso alle elezioni del maggio 1921 i comunisti ebbero solo 13 deputati ed il PSI risultò indebolito. Insomma la scissione fu per coloro che la organizzarono un fallimento, ma tale fallimento purtroppo non coinvolse solo i velleitari scissionisti ma l’intero movimento operaio che vide infrangere i propri tentativi di resistere all’onda fascista che cresceva con lo sciopero generale dell’agosto 1922. Dopo l’agosto 1922 la forza dei sindacati e dei socialisti era infranta. Con l’espulsione di Turati, reo di essersi recato al  Quirinale per incontrare il re  per discutere del nuovo governo, ratificata dal congresso di Roma, l’intero movimento socialista divenne l’ombra   di quello che era stato pochi anni prima. Il 28 ottobre 1922 i fascisti marciano su Roma. Gli errori di una classe politica che ha preferito coltivare il sogno rivoluzionario ad una presa d’atto della situazione reale del movimento operaio furono riconosciuti dallo stesso Gramsci che nel 1923 come certifica Paolo Spriano nella sua storia del partito Comunista che scrive “Su questo aspetto è giunta presto un’autocritica da parte comunista . anche profonda perché non ha eluso il nesso tra la scissione e l’indebolimento della resistenza operaia all’offensiva dell’avversario di classe. Gramsci giungerà nel 1923 a collegare la vittoria fascista con il modo della scissione, ad annotare che non essere riusciti nel 1920/21 a portare l’Internazionale comunista la maggioranza del proletariato italiano è stato senza dubbio il più grande trionfo della reazione” e nel 1924 scriverà che da Imola fino a Livorno la frazione comunista si limitò “a battere sulle questioni formali di pura  logica, di pura coerenza e, dopo, non seppe, costituito il nuovo partito continuare nella sua specifica missione, che era quella di conquistare la maggioranza del proletariato.”  Se questo è vero forse è anche vero  riguardo al PSI quello che scrive Gramsci nel marzo 1921 quando afferma “ ora i socialisti, posti di fronte alla storia hanno confermato la loro incapacità ad organizzare la classe operaia in classe dominante.” E soggiunge “dopo il congresso di Livorno il partito socialista si ridusse ad essere un partito di piccoli borghesi, di funzionari attaccati alla carica come l’ostrica allo scoglio capaci di qualsiasi vergogna e di qualsiasi infamia pur di non perdere la posizione occupata.” A chi dice aveva ragione Turati rispondo che non è vero, come non è vero che aveva ragione Bordiga e forse aveva ragione Gramsci quando afferma che “il movimento politico della sinistra sia esso socialista che comunista non è riuscito ad organizzare i lavoratori  consentendo l’ascesa del fascismo.” Da una parte un partito sclerotico e arroccato su posizioni formali e dall’altra un partito settario gestito da Mosca. Quest’ultima considerazione ci porta a rispondere all’ultima domanda: quel partito nato al teatro S. Marco   è lo stesso partito di cui quest’anno si celebra il centenario? Molti compagni socialisti hanno risposto di no ed io mi sento di condividere questa interpretazione.  Il Partito nato a Livorno era il partito di Bordiga che “«definisce la classe, lotta per la classe, governa per la classe e prepara la fine dei governi e delle classi», ma aera anche il partito di Gramsci, entrato in carcere quando era il segretario del Pcd’I, e poi abbandonato a sé stesso. il partito comunista che abbiamo conosciuto è il partito di Togliatti che a Livorno non andò. E’ lo stesso Togliatti che ce ne dà testimonianza in una sua intervista pubblicata  su “Trent’anni di storia italiana – (Einaudi 1975 pp. 365 e segg.)”. In questa testimonianza il PCI viene presentato non più come il partito che come diceva Bordiga  di voler lottare per “ raggiungere l’ultima meta: la Repubblica dei Soviet in Italia!” Molto più realisticamente Togliatti  dice “nel nostro paese sono presenti oggi alcuni elementi di fondo, di natura democratica avanzata, i quali ci consentono di andare avanti e sperare meglio per l’avvenire: il regime repubblicano, ,una Costituzione dal contenuto politico e sociale avanzato, la presenza di grandi organizzazioni popolari e di massa.” Egli poi definisce il PCI come un partito di democrazia e progresso.” Questo partito di democrazia e progresso non può assolutamente essere considerato l’erede di un gruppo di scismatici irrilevanti. In riferimento alla monarchia Togliatti afferma che all’indomani della svolta di Salerno si domandò che fare, la risposta fu “La nostra risposta fu accantoniamo il problema, dichiariamo solennemente tutti uniti  che lo risolveremo quando tutta l’Italia sarà stata liberata e il popolo potrà essere consultato. Allora vi sarà un plebiscito, vi sarà un’assemblea costituente il popolo si libererà dell’Istituto monarchico e verrà proclamato quel regime repubblicano che era nelle nostre aspirazioni.” Il partito che  Togliatti disegna  rinuncia a a costruire la repubblica dei soviet e decide di combattere con le altre forze democratiche per  ricostruire l’Italia su basi democratiche. Ancor più chiaramente Togliatti afferma” Quali erano  i nostri obiettivi?  La guerra(contro i tedeschi n.d.r.), l’unità della nazione, un governo di unità.” E ancora “Eravamo repubblicani, volevamo liberare l’Italia dalla monarchia….che doveva avvenire, secondo noi per via democratica, attraverso una consultazione democratica del popolo ed un voto popolare.” Riferendosi alla svolta di Salerno Togliatti afferma  e queste sue affermazioni ci fanno comprendere ancora di più quanto fosse diverso il partito nuovo che Togliatti metteva in gioco che con il partito di Bordiga aveva in comune solo il nome “Nessuno conosceva più i partiti politici . Se ne era perduta, anche nelle masse popolari, la tradizione. Soprattutto poi quando si parlava di comunisti e socialisti era come parlare del demonio. Il veleno inoculato dal fascismo agiva ancora.” Venti anni di regime, le lotte partigiane, la repressione, l’esilio avevano abbattuto il muro che aveva diviso i socialisti e i comunisti e Togliatti parla dei due partiti come di una parte del movimento della sinistra   poteva essere coesa. Dice Togliatti “Dovevamo abbattere questa barriera, affinchè venisse compreso da tutto il popolo che cosa erano e sono queste forze popolari avanzate, che così eravamo e siamo noi comunisti, i socialisti il partito d’azione.” Questo atto di onestà intellettuale deve essere rimarcato ed apprezzato perché Togliatti, malgrado quello che poi è accaduto,  comprende che in una nazione lacerata dal fascismo, dalla guerra, dalla crisi economica, solo la solidarietà fra le forze politiche avanzate può portare l’Italia fuori dal Tunnel in cui Mussolini l’aveva portata. Continua Togliatti “ tra i sei partiti del CLN i socialisti e noi fummo in tutto questo periodo pienamente d’accordo, ed è questo un punto che intendo sottolineare, perché di grande importanza e perché oggi alle volte fa comodo dimenticarlo.” Per chiarire ogni dubbio circa il fatto che il PCI che si celebra in questi giorni non è nato cento anni fa ci viene in aiuto lo stesso Togliatti che afferma, rispondendo ad un funzionario americano presente in Italia all’epoca della svolta di Salerno “Molto modestamente invece gli feci osservare che noi lottavamo non per la Repubblica dei Soviet, ma perché l’Italia partecipasse alla guerra, cacciasse dal proprio territorio i tedeschi, distruggesse pienamente il fascismo e si costruisse niente altro che un regime democratico e repubblicano.” Il grande partito di massa che abbiamo conosciuto non ha nulla a che vedere con il gruppuscolo settario che provocò la scissione di Livorno. Grazie agli errori dei socialisti, che nel 1946 era ancora un partito di massa e alla capacità strategica di Togliatti quella saldatura fra i partiti popolari si incrinò con l’evolversi della situazione politica italiana per non mai più ricostituirsi. Oggi che i due più grandi partiti della sinistra non esistono più bisognerebbe domandarsi chi è perché, fingendo di ignorare la storia, ha dedicato tanto clamore mediatico a questo evento e perché costoro ignorano quel partito socialista che malgrado i suoi limiti ed i suoi errori subì la scissione di Livorno e malgrado ciò rimase per anni l’unico partito   a difesa dei diritti dei lavoratori e che nel ’46 era ancora il secondo partito italiano. Bisognerebbe anche domandarsi perché Amedeo Bordiga padre fondatore del PCI e leader indiscusso del partito per i primi anni della sua vita venne cancellato dalla storia del PCI ed oggi viene del tutto ignorato. Ricordo a me stesso che Gramsci aveva stima e simpatia per il comunista napoletano. Queste risposte andrebbero date perché ancora oggi ci sono tantissimi italiani che hanno creduto nel comunismo e che meritano rispetto per una vita di coerenza agli ideali che hanno perseguito. L’attualità senza il PCI e senza il PSI ci fa intravedere un’Italia travolta dalla crisi economica in cui una destra arrogante rappresentata dalla Lega di Salvini, dai postfascisti della Meloni e dal partito di Berlusconi riesce facilmente ad arginare le pretese di un partito che nato dalle ceneri della DC e del PCI costituitosi ad imitazione del Partito democratico americano. L’Italia non ha bisogno di festeggiare un centenario che non esiste se non nella mente di chi ha escogitato questo diabolico tranello. l’Italia che  non rinuncerà mai ad una democrazia faticosamente costruita deve essere vigile affinchè i demoni che la destra sta provando a risvegliare in Italia come nel resto del mondo non creino danni irreparabili all’impianto democratico nato dalla Costituzione. Al di là delle celebrazioni è la Costituzione “più bella del mondo” che va difesa provando a ricostruire una sinistra unita e coesa che non sia la pallida imitazione di sistemi politici che non ci appartengono.     .    
 
aprile 27, 2020

UN’ETICA CONTRO IL NICHILISMO

di Luigi Anzalone

“La filosofia è, nell’esercizio critico della sua funzione critico-dialettica, pensiero in cui l’uomo vive la verità della sua vita”. Questa definizione della filosofia che il professore Aldo Masullo dà ne “Il senso del fondamento”, l’ha onorata al massimo livello per tutta la sua lunga e luminosa esistenza, interrottasi alla vigilia di questo 25 aprile dimidiato tra dramma della pandemia, memoria degli ideali della Resistenza e impegno a testimoniarli. Per coloro che come me e il professore Giuliano Minichiello hanno avuto la fortuna di seguire all’Università di Napoli le sue indimenticabili lezioni di Filosofia morale l’impronta del suo magistero resta indelebile. Nell’atmosfera raccolta nell’elemento del pensiero le sue parole e discorsi sembravano scaturire dalla «cosa stessa», esprimendosi in metafore, immagini, rappresentazioni, per poi risolversi nei concetti.
Mentre contribuisce a sprovincializzare il dibattito filosofico italiano scrivendo di Husserl e Heidegger, Nietzsche e Sartre (cfr. soprattutto “La comunità come fondamento”, “Struttura soggetto, prassi”), fin dagli esordi Masullo si oppone con le armi della critica ai pericoli mortali (la bomba atomica, in primis) che minacciano l’umanità, richiamandosi in “La storia e la morte” al principio: “La ragione, consapevole di essere mortale, lotta contro la morte. E questa lotta, finché dura, è la storia”. Appare quindi naturale che il suo impegno speculativo – parallelamente a quello politico, che ne farà un prestigioso parlamentare del PCI – si rivolga a costruire una prospettiva filosofica che, in nome di un’etica esigente, si opponga al nichilismo, “che è diventato abituale condizione dell’uomo” (“Stati del nichilismo”). Ed infatti la sua filosofia “fenomenopatica”, sulla scorta di Fichte e Hegel, avendo nella comunità il fondamento inconscio dell’uomo, la propone come “telos” (fine) cosciente della storia. Ciò richiede che la forma dell’eticità sia tale che chi agisce accolga l’“appello di un «bene» che gli appare trascendente rispetto alla sua effettualità”. Per farlo, deve realizzare un’unione autentica di ragione raziocinante nella polisemia dei suoi significati teoretici, “recta ratio” e paticità, in quanto intima, palpitante vissutezza, apertura al mondo e a un’affettività profonda nella tonalità e plurale nelle esperienze. Infatti la soggettività, come senso di una vita umana, rinvia al “sentirsi» invalicabile soggettività vivente e tuttavia insopprimibile dipendenza dall’altrui vita, da «sensi» irriducibili (i quali peraltro senza il nostro non sarebbero i «sensi» che sono, così come il nostro senza di loro non sarebbe il «senso» che è)”. Il senso è quindi un’intimità individuale nella misura in cui chiede “con-senso”, crescita valoriale “nel complicarsi di vissute relazioni sim-patetiche, nel tessuto di quelle occasioni di libertà” che, sconfiggendo il nichilismo e, con esso, innanzitutto il male e la guerra, rendono possibile la storia dando realtà e senso «consensuale» all’individualità e universalità allo spirito umano (“Il senso del fondamento” e “Metafisica”).
Ecco che quindi Masullo riprende e sviluppa il significato dell’“Innigkeit” di Hölderlin, approssimativamente traducibile come internità, per esprimere la comune intimità uomo-mondo. Così che – dice ne “Il tempo e la Grazia” – il soggetto umano non è altro che il soggettivarsi dell’oggettività, cioè la pluralità dei sensi umani, e l’oggettività non è altro che l’oggettivarsi dei sensi soggettivi. Ciò consente all’uomo, nel confronto con il potere pervasivo, disumanizzante della tecnica nel mondo attuale, di utilizzare la “tecnologia come una forma di sevizio per rendere il mondo migliore”, facendo sì che la tecnica divenga “la più promettente occasione di libertà” (“La libertà e le occasioni”). E’ in “Etica” che Masullo elabora in forma compiuta una teoria morale come “vincolo” (nel sentirsi parte di una comunità”) e libertà – eroicamente incarnata da Giordano Bruno, “maestro di anarchia” liberatrice-, la quale si lascia guidare dall’amore in quanto comunitarietà. Per cui, “L’amore è la comunitarietà. Ogni Io si origina contestualmente a un TU, alla cui chiamata risponde”.

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aprile 17, 2020

Verso il 25 Aprile……………

(Tiziana Parisi)
Tra gli antifascisti aumenta la rabbia verso Togliatti che aveva, in nome della pacificazione, concesso l’amnistia ai fascisti.
Anche militanti del PCI scrissero lettere di protesta. Riportiamo il testo della lettera fornitaci dal partigiano Enzo Galasi, compagno di lotta di Sergio Bassi.
Caro Togliatti, sono un vecchio comunista compagno di Picelli . Lei mi crederà settario perché così sono chiamati quelli che hanno la propria fede e sono disposti a qualunque sacrificio. Intendo parlare dell’amnistia. So già che lei mi dirà che si tratta di una mossa politica indispensabile e strategica. I lavoratori, anche se ignoranti, sono in grado di capire certe necessità date le condizioni in cui ci troviamo, gli alleati ecc. Ma i lavoratori capiscono anche che c’è un limite a tutto, specie se hanno sofferto. I migliori compagni pensano che lei ha passato ogni limite e non conosce i fascisti se pensa che questi si ammansiranno di fronte al generoso gesto dell’amnistia generale. Perché di questo si tratta non si è ridotta la pena di cinque o dieci anni. No signori.
Si sono mandati addirittura a casa uomini che avevano meritato l’ergastolo o trent’anni di galera, che sono fra i maggiori responsabili della rovina del popolo.
Si è dato ragione in questo modo alle canaglie fasciste che si atteggiavano a martiri e che chiamano delinquenti i valorosi partigiani che hanno combattuto contro tedeschi e fascisti.
Io che le parlo sono il padre di Sergio Bassi. A 19 anni si è battuto come un leone in difesa della libertà e ha compiuto circa venti azioni pericolose. Anche lui è morto abbattuto alla mitraglia insieme ad altri cinque giovani generosi come lui all’idroscalo di Milano.
Ma il compagno Togliatti queste cose riesce a comprenderle? Mio figlio non può avere pace se io tengo ancora la tessera del Partito per il quale egli è morto, di quel Partito che trascura i migliori che favorisce i profittatori, di quel partito che non rispetta più nemmeno i suoi morti perché manda in libertà i loro assassini. Lei mi dirà che è stato obbligato a questo da altri componenti del governo, ma piuttosto che commettere una cosa simile era molto meglio dimettersi.
Distinti saluti.
Bassi Roberto
Via Carlo Imbonati 9, Milano. Buona giornata Comunisti Resistenti 

 

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aprile 14, 2020

GIROLAMO LI CAUSI.

di Fabio Cannizzaro

Non so se oggi i compagni comunisti, siciliani e no, ricorderanno il 43° anniversario dalla scomparsa di GIROLAMO LI CAUSI.

Da socialista voglio ricordare il compagno, l’uomo.

Socialista “terzino” fino al 1924 poi iscrittosi al Partito Comunista d’Italia fu anche se brevemente, in quei frangenti, direttore de “L’Unità”.

Nel 1928 venne condannato per il suo antifascismo a 21 anni di carcere. Restò in carcere per circa 15 anni. Poi liberato divenne partigiano e membro attivo del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia.

Da siciliano non posso ricordare il suo contrasto aperto, diretto alla mafia cosa che gli fece subire nel settembre del 1944 anche un attentato durante un comizio.

Fu poi eletto deputato all’Assemblea Costituente e entrò in Parlamento nel 1948.

Fu diverse volte deputato e Senatore.

Peccato che i compagni e le compagne che a lui più direttamente si richiamano per storia ideologia e tradizione che io sappia non lo abbiano ricordato in modo più organico.

Lo faccio qui io, da compagno, non dimenticando o sottacendo il suo innegabile valore etico e politico e sopratutto cosa quest’uomo, questo compagno rappresentò per le masse popolari e contadine siciliane.

 

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aprile 4, 2020

Ciao Kolkov

di Franco Bartolomei

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Ringrazio Franco per le belle parole per ricordare a tutti la figura di Massimo.

Io ho avuto modo di conoscerlo poco, ma fin da subito ho condiviso con lui una simpatia ed una solidarietà credo ricambiata. Avevamo fatto dei progetti per il rilancio dell’Avanti e lui ne era entusiasta, rendendosi subito disponibile.

Si è saputo poche ore fa: è morto Massimo. Le notizie sono incerte e frammentarie: stando a qualche indizio, la causa potrebbe essere l’epidemia in corso e può darsi che sia stato abbandonato in casa (come avviene a tanti, in questo periodo) e che sia deceduto -in solitudine- ieri o l’altro ieri, benchè sia stato ritrovato dalla polizia solo questa mattina.
Trentacinque anni almeno data la nostra conoscenza, buona parte dei quali trascorsa con impegni e lotte comuni e sempre dalla stessa parte della barricata.
Inizialmente era un giovane operaio dell’Alitalia ed iniziò la nostra conoscenza e poi amicizia perché eravamo entrambi -secondo le sbrigative e superficiali etichettature giornalistiche- dell’ala “filosovietica” del PCI, per cui i compagni gli affibbiarono l’ironico appellativo di Kolcos: lo pronunciavamo così e lui ci teneva molto al suo soprannome.
Era di Tor Bella Monaca, dirigente della locale sezione del PCI, alla quale spettava il difficilissimo compito di misurarsi con le problematiche e le contraddizioni di quel quartiere, allora nuovo. Tuttavia era una sezione importante, meritevole, ricordo che andai a parlare ad un dibattito organizzato alla festa dell’Unità (verso il 1987-88) ed il titolo della festa dimostrava l’acutezza e la coerenza politica di quei compagni: “Comunisti, Sempre!”
Lo “presi in prestito” per sintetizzare la mia scelta di vita e lo proposi come nome della nostra compagine alle compagne e ai compagni che uscirono insieme a me dal PCI e dalla FGCI prima del loro scioglimento e da cui -qualche anno dopo- nacque Iniziativa Comunista.
Massimo è stato sempre impegnato sindacalmente, anche nei periodi in cui non lavorava, sia interessandosi delle battaglie dei lavoratori, sia partecipando e promuovendo le rivendicazioni economiche e sociali degli strati più poveri del popolo, soprattutto nel suo quartiere. Era un autentico proletario, sempre fiero nella sua coscienza di classe ed è un’espressione vera della complessità e delle difficoltà di un “luogo” come Tor Bella Monaca e anche dei nostri tempi, così tormentati e talvolta assurdi in Italia.
Solo in pochi periodi abbiamo perso i contatti ma ci siamo sempre ritrovati negli snodi cruciali e sulle questioni più discriminanti e sempre abbiamo ricominciato insieme come se il nostro rapporto non avesse mai avuto pause.
Ha seguito indefesso il percorso della maggior parte dei compagni dopo lo scioglimento del PCI, scegliendo le appartenenze che più riteneva vicine alla storia del disciolto Partito e spesso ha organizzato iniziative e posizioni che proponevano il rilancio o la ricostituzione del medesimo, ecco perché ci siamo spesso incontrati, fino a poche settimane fa.
Non era tipo da avventurismi ma tanto meno era accomodante e non mancava di far sentire limpidamente la sua critica e le sue proteste, senza preoccuparsi se ciò fosse scomodo per la sua “carriera” politica. Anche negli ultimi due anni, dopo la sua ennesima delusione, ho potuto contare sul suo contributo, sempre pronto e incondizionato, per i seminari autogestiti e per altre iniziative a favore dell’identità e degli ideali comunisti.
Circa un mese fa, ha provveduto lui stesso, tempestivamente, a recapitare una mia lettera aperta al saltimbanco televisivo Giletti ed ultimamente avevamo parlato di certe idee per il futuro prossimo. Non ha mai abbandonato Tor Bella Monaca, né è stato solo un suo abitante passivo, tanto meno “risentito” per dover vivere lì. Quando non era il caso di partecipare a progetti politici, era comunque sempre presente nella vita sociale del quartiere, anche con iniziative culturali e teatrali. Sempre pronto alla spontanea solidarietà con genti di tutte le “razze”.
Siccome con qualche riga non si possono neanche riassumere trentacinque anni di esperienza, vorrei almeno accennare a qualche tratto che ha caratterizzato la sua vita e la sua personalità, così tipica della nostra epoca e delle sue contraddizioni.
In primo luogo, non ha mai tradito la sua identità, non ha mai professato la sua rinuncia agli ideali comunisti ed ha sempre rivendicato la storia del PCI, dimostrando una coerenza -ed in questo senso un’incorruttibilità- da cui molti “personaggetti” di successo della sinistra attuale dovrebbero imparare.
In secondo luogo, lui sapeva veramente come viveva e pensava la gente più sfruttata e oppressa, non solo perché era uno di loro (di noi) ma perché ha saputo mettere in pratica -nelle condizioni richieste dalla sua problematica borgata- l’indirizzo che Togliatti sintetizzava così: “riuscire ad aderire a tutte le pieghe della nostra società”.
In terzo luogo, era semplice, modesto ma capace di difendere i suoi ideali meglio di tanti cialtroni politicanti, per questo era uno dei tanti che non avrebbe mai potuto “far carriera” nella sinistra attuale benchè avesse capacità più di altri di farlo. Non si è mai montato la testa, è sempre stato sensibile con la sua gente e soprattutto si batteva per i suoi ideali non era un carrierista, non li tradiva per poter diventare importante.
Come un paradosso, lui che ha conosciuto tanta gente che gli si affezionava e ora lo piange, lui che ha sempre avuto intatta la curiosità e la disponibilità di conoscere tutte le esperienze, confrontarsi con tutti (dagli evangelici a chi “rimedia” la giornata ai margini della malavita) oggi è stato portato via da solo, in uno squallido sacco dalla polizia mortuaria.
Dato il periodo, non potrà neanche avere un normale funerale.
Avrà tuttavia tanti di noi che lo ricorderanno: quando sarà possibile, le compagne e i compagni gli renderanno il tributo che oggi non possiamo manifestare come avremmo certamente fatto.
Così, ci ha lasciati all’improvviso, alla stessa età in cui è morto Berlinguer, senza vere esequie: è come se la sua dipartita fosse in un certo senso “sospesa”.
Questo ci suggestiona, come a sentirlo un poco ancora con noi ad accompagnarci, a fare di lui (della sua vita e della sua morte) una delle tante spinte morali che ci sono necessarie, anche a breve per condurre con coraggio e senza tentennamenti la battaglia per i rilancio della lotta di classe, per la causa del proletariato, per ridare al nostro paese il PCI, che già ebbe, che lo rese grande e di cui oggi c’è tanto bisogno.
GRAZIE KOLCOS, ADDIO.

Maggio 23, 2014

Votate Tsipras e non sbagliate.

A sinistra del PD sarà possibile costruire una area solida (e ci vorrà del tempo) solo se essa assume come proprio orizzonte strategico un socialismo democratico rigenerato e rifondato , superando quelle derive e subalternità al pensiero unico neoliberale in cui purtroppo è caduta una sua parte. Non in una impossibile sintesi tra socialismo democratico e comunismo, come qualche sprovveduto neofrontista propone. IL comunismo è fallito perchè nella sua matrice teorica ha deformato in senso autoritario e giacobino il pensiero di Marx ed Engels. Ed è stato uno strumento per realizzare nuove forme di oppressione e sfruttamento. Abbiamo come socialisi molo più da imparare (liberandolo dall’utopismo) dal pensiero del socialismo anarchico di Koprotkin e Malatesta che non certo da Lenin ed i suoi derivati. Non è un caso se n Cina si realizza da vent’anni il più brutale sfruttamento capitalistico. LO ha capito bene Tsipras che ha chiaramente assunto l’orizzonte di un socialismo democratico “forte” , l’unico possibile per una sinistra che non voglia essere minoritaria e impotente. Un nuovo socialismo democratico che superi gli stessi confini del PSE, ma che sia legato alla storia che hanno tracciato i Turati, Nenni, Bauer, Lombardi, Saragat

marzo 13, 2014

Craxi, Berlinguer e la sinistra.

Sono passati 30 anni dalla prematura scomparsa di Enrico Berlinguer e 14 dalla altrettanto prematura scomparsa di Craxi. Io quest’anno commemorerò il tentennale della scomparsa di Riccardo Lombardi ed il 90 anniversario dell’assassinio di Matteotti. Ma non mi unirò alla commemorazione di Berlinguer. Non lo farò fino a quando i dirigenti postcomunisti non diranno le cose che hanno detto  BFabrizioarca e Nichi Vendola. Vale a dire che la storia del Psi dal 1976 in poi non può essere ridotta a “romanzo criminale” ma che anzi ha contenuto la ultima e profonda elaborazione culturale ed ideologica fatta dalla sinistra italiana. Poi vanno fatte le critiche che vanno fatte a Craxi, legittimamente , ma non buttando insieme bambino ed acqua sporca. E le critiche sono critiche politiche e concernono la gestione del partito (come ben hanno messo in rilievo Rino Formica e Giorgio Ruffolo) che poi ha prodotto una condizione per la quale il PSI si trovò disarmato quando montò quella ondata antipolitica che ha poi prodotto il disastro della II Repubblica . E che fu abilmente guidata da poteri forti interni ed internazionali. Beninteso anche con Berlnguer occorre far attenzione a non buttare insieme acqua sporca e bambino. In lui vi sono aspetti positivi ma anche regressioni e ricadute verso forme di settarismo ed integralismo che non hanno giovato alla sinistra , e si sono esposte a strumentalizzazioni postume (ma qui Berlinguer non c’entra) da parte di personaggi che poi. la storia ha dimostrato essere un pulpito inaffidabile per fare lezioni di morale ad altri. Insomma il manicheismo da II Repubblica per cui Craxi era un gangster e Berlinguer una sorta di Padre Pio non esiste. Del resto credo che lo stesso Berlinguer si rivolta nella tomba nell’essere strumentalizzato da un Travaglio, ad esempio. Naturalmente, pur se non parteciperò alle celebrazioni, personalmente resta in me un profondo senso di ammirazione per una figura che comunque merita rispetto e deferenza, pur nel dissenso su temi importanti. Vedete la critica al pensiero di Berlinguer non fu fatta solo da Craxi. Lombardi, Mancini e Giolitti erano altrettanto critici. Anzi quest’ultimo fu più profondo di Craxi nel criticare il concetto di III Via che si fondava su basi molto fragili e dava adito a elementi di ambiguità seri. Sul piano ideologico , dal mio punto di vista, ebbe certamente ragione il gruppo dirigente socialista del congresso di Torino del 1978 (Craxi, Giolitti, Lombardi, Signorile) rispetto a Berlinguer sul tema dell’Eurosocialismo e della critica radicale al socialismo reale. Pur evidenziando la necessità di andare oltre le esperienze socialdemocratiche tradizionali (Lombardi soprattutto) questo oltrepassamento era tutto all’interno della cultura del socialismo democratico e della contestazione delle stesse radici ideologiche del comunismo del 900 (e non solo della sua prassi) poichè anche in quelle radici si celava il presupposto della evoluzione totalitaria del comunismo reale. Insomma per Berlinguer l’URSS era un paese socialista “con tratti illiberali”. ERa un passo in avanti rispetto a Togliatti (che però appartiene ad altra epoca) ma restava in mezzo al guado. I socialisti ritenevano invece che l’URSS non era un paese socialista, perchè non è possibile un socialismo senza democrazia (lo diceva già Kautsky nel 1919 – non è poi una cosa nuova) e quindi un socialismo tra tratti illiberali era un non senso. La critica dei socialisti non era affatto rivolta contro Marx (qui si fece grande confusione) ma contro Lenin e le sue derivazioni dallo stalinismo al togliattismo. C’è tutta una grande tradizione di marxismo socialista democratico (che è molto più profonda delle teorie schematiche di Lenin e Trotzky) e che comprende il già citato Kautsky, l’austromaxismo di Hilferding, Bauer, Adler, del belga Vanderverlde, di Mondolfo, Turati, Saragat, Basso in Italia. Una tradizione che il Psi del dopo 1976 rivalorizzò. Insieme a Rosselli, Capitini. Per evidenziare che a sinistra non c’era il solo pensiero unico gramsciano-togliattiano. Le egemonie serie non si costruiscono per esclusione degli altri. Berlinguer fece una importante affermazione circa la natura pluralista del socialismo (un passo decisamente più avanzato delle “vie nazionali” di Togliatti) ma mantenne il modello di centralismo democratico del partito che contraddiceva il resto. Proprio Riccardo Lombardi disse che il punto di discrimine fondamentale tra socialisti e comunisti non era la dialettica riforme-rivoluzione , ma la concezione del partito depositario di una filosofia della storia. E quindi delle chiavi della verità. Per cui il partito non è uno strumento, così come lo è nel socialismo democratico, ma diviene quasi una entità mistico-metafisica. il “corpo mistico della Chiesa” di San Paolo laicizzato. Una entità a cui sottomettersi pena di essere un “individualista piccolo borghese” . Una entità che ha i suoi sacerdoti, l’apparato. Certo poi Berlinguer cercò di spostare questa caratteristica dal piano ideologico a quello morale-antropologico, la “diversità comunista”. Ma l’integralismo resta. NOn sappiamo se Berlnguer avesse o meno , in seguito, modificato questa posizione. Certo i suoi epigoni hanno utilizzato spesso il concetto di “diversità” come sacchi di sabbia a protezione di se stessi e della loro progressiva tendenza all’autoreferenzialità gestita in modo sempre più opportunistico e trasformista. Per cui si cambia spesso nome ma i dirigenti e l’apparato restano quelli. Fino a causare la liquidazione della sinistra. Quando il soggetto precede il progetto e si emancipa anche dalla sua rappresentanza sociale, si cade nel politicismo più negativo ed in una concezione manovriera della politica atta a conservare il potere. Punto. Natualmente la sinistra di oggi ha bisogno invece di recuperare progetto di trasformazione sociale ed idealità su cui costruire la rappresentanza sociale del mondo del lavoro, dei più deboli di tutti coloro che soffroni diseguaglianze ed esclusione. Ed evitare che si ricreino nomenclature autoreferenziali ….che degradano la politica. Ma di questo ne abbiamo parlato a lungo quando abbiamo affrontato il tema del recupero di una soggettività socialista.

Giuseppe Giudice

febbraio 14, 2014

Lo sfogo di un “socialista rancoroso”.

lo sfogo di un “socialista rancoroso”

Renzi è l’ultimo atto di una bruttissima telenovela iniziata nel 92-93. C’era indubbiamente un sistema che andava riformato e reso più europeo con riforme che buttassero l’acqua sporca e salvassero il bambino. Il risultato è che si è affogato il bambino e l’acqua sporca è diventata putrida ed in questo putridume ci hanno sguazzato molti vermi. Se la I Repubblica non è riuscita ad evolvere n una normale democrazia dell’alternativa di tipo europeo (che si fonda su soggetto politici adeguati e non sulle costruzioni di marchingegni elettorale) una parte consistente di questa responsabilità è del PCI e della sua lentezza evolutiva che non è mai sfociata in una Bad Godesber per fuoriuscire dal comunismo ma restare nel socialismo e nella tradizione del movimento operaio. Questa mancanza ha permesso alla DC di mantenere la sua centralità per un cinquantennio, ha costretto il PSI a fare diversi errori (che vanno pienamente riconosciuti ma anche inquadrati nel difficilissimo ruolo di frontiera che il Psi ha svolto dal 1963 in poi). Certo se ci fosse stata la Bad Godesberg del PCI nel 1980 , probabilmente avremmo evitato il pentapartito e l’incancrenirsi del meccanismo consociativo che ha consumato una I Repubblica che comunque aveva fatto fare dei passi avanti enormi ad un paese uscito malissimo da una guerra scellerata. Il postcomunisti (con le dovute eccezioni) invece di Bad Godesberg hanno inseguito l’antipolitica, il giustizialismo, hanno corteggiato i poteri forti per essere legittimati in modo subalterno, hanno sostenuto un bipolarismo artificiale basato un un maggioritario (Mattarellum e elezioni dirette) che di fatto minava le basi della costituzione. E di fatto hanno legittimato l’esistenza di una destra qualunquista e populista incarnata da Berlusconi, che politicamente è il risultato dell’antipolitica e della distruzione delle culture che hanno costruito la democrazia italiana. E la presenza di Berlusconi giustificava il bipolarismo anomalo che garantiva al PDS di essere guida (ma con la legittimazione degli ex DC come prodi) di una coalizione di “centrosinistra per caso” (c’era anche Dini). Ed in un certo qual senso il PDS ha dovuto cavalcare un anticraxismo che facilmente è trasceso in antisocialismo. E questo è finito per diventare un tratto fondante della debolissima identità postcomunista. Che per tale ragione non ha mai voluto affrontare la questione socialista. Che poi ha prodotto i Bettini, Gli Orfini e…dulcis in fundo ..Fratoianni. Oggi siamo in una fase tragicomica. Renzi che fino a ieri voleva votare a Maggio , paventa (tocchiamoci i c…) un governo per l’intera legislatura…pensate voi…fino al 2018 con Renzi!!!!! E comunque Renzi non è (l’ho detto più volte) che l’atto finale di una serie di scelte scellerate una dopo l’altra. E lo dimostra la quasi unanimità con la quale la direzione del PD ha licenziato Letta (non lo rimpiango ..ma chi lo segue …) e scelto Renzi. Come dicevo il bipolarismo forzato ha prodotto una politica da risse di cortile. E nelle risse di cortile ci sguazzano i furbetti. Mentre il paese vive una crisi drammatica. Non so come possa andare a finire. Il problema è un altro piuttosto. Cito sempre Bagnoli : democrazia senza progetto e socialismo assente. La crisi della democrazia e strettamente legata alla assenza di socialismo. Senza reducismi stupidi, senza voler creare degli “Stati di Israele” per la diaspora, è bene che chi crede nel socialismo democratico e nella tradizione del socialismo autonomista italiano (che sia stato iscritto o no al PSI storico. E una questione non rilevante), costruisca oggi una comunità politica e sviluppi idee, progetti, proposte coerenti con quella cultura politica che vogliamo ricostruire. La Rete Socialista si propone come uno strumento in grado di poter dar voce a questa comunità potenziale.

Beppe Giudice.