Covid e disoccupazione nel mezzogiorno.

Di Beppe Sarno

Gli effetti del Covid 19 in Campania e sul Mezzogiorno più in generale sull’occupazione e sul sistema produttivo si inseriscono in un quadro già drammatico che è conseguenza delle politiche governative ossequienti alle politiche monetarie europee.

Le politiche europee che pure hanno sviluppato misure a sostegno dell’occupazione, non tengono conto  della circostanza che nel Mezzogiorno la situazione occupazionale è resa ancora più drammatica a causa dell’elevata disoccupazione giovanile, la bassa partecipazione femminile, la lunga durata nella ricerca di impiego e da quelli che il lavoro non lo cercano più.  Per ciò che riguarda i giovani a fronte di  nove regioni nell’UE in cui il tasso di disoccupazione giovanile era inferiore al 5,0%, in Italia “Più di un membro della forza lavoro di età compresa tra 15 e 24 anni su cinque era disoccupato in ogni regione della Grecia e della Spagna, nonché in ogni regione del sud Italia. All’estremità superiore dell’intervallo, c’erano sei regioni – in gran parte periferiche – in cui il tasso di disoccupazione giovanile è salito a oltre il 50,0%: Ciudades Autónomas de Ceuta y Melilla (Spagna), Mayotte, Guadalupa (Francia), Dytiki Makedonia (Grecia) e Sicilia (Italia).”(fonte Eurostat)

E l’occupazione, già in calo nel 2019, si è contratta nel primo trimestre del 2020 ed è destinata a contrarsi ancor più per il perdurare degli effetti della pandemia.

 “Le regioni rurali, scarsamente popolate e periferiche hanno registrato alcuni dei tassi di occupazione regionale più bassi nell’UE. Questo modello era evidente nella Spagna meridionale e nell’Italia meridionale, nelle regioni ultrapériphériques della Francia e in molte aree rurali dell’Europa orientale (alcune delle quali rimangono caratterizzate da un’agricoltura di semisussistenza).”

Accanto ai poveri diventati tali  a seguito della crisi del 2008 e delle politiche restrittive messe in atto si vanno ad aggiungere nuovi poveri, quelli cioè che hanno perso il lavoro a causa del Covid, quei commercianti, ristoratori, baristi, albergatori, che hanno deciso e decideranno nell’immediato futuro di non riaprire i battenti.

A questi si aggiungeranno i lavoratori stagionali quelli “a nero” e quelli che per un motivo o per un altro non hanno ricevuto alcun sostegno né lo riceveranno in futuro, i migranti che vivono alla giornata senza diritti, tutele in condizioni di semi.schiavitù.

Secondo i dati forniti da Eurostat “più della metà (129 su 240) di tutte le regioni dell’UE ha registrato tassi di occupazione inferiori al livello di riferimento del 75% nel 2019. Tra queste, c’erano quattro regioni – Sicilia, Campania e Calabria (nell’Italia meridionale) e Mayotte (Francia) – dove era occupata meno della metà della popolazione in età lavorativa.”

Tutte le imprese campane nel 2020 hanno ridotto il loro fatturato di circa il 30%.  Quando finirà il blocco dei licenziamenti una massa di disoccupati si troverà a doversi inventare il sostentamento.

Nessuno investe in settori dove manca la domanda: sono le regole del mercato, che invece avrebbe dovuto salvare il mondo.

Nel settore delle costruzioni finché non si avvierà il “bonus del 110%”  c’è un calo di fatturato del 30% secondo le stime della Banca d’Italia.

Quanto alla finanza pubblica, si calcola che i bilanci dei Comuni campani, già diffusamente caratterizzati da condizioni di criticità finanziaria, saranno sempre più in rosso.

Secondo i dati forniti da Eurostat la Campania è la regione con maggior tasso di disoccupazione giovanile che si attesta intorno al 50%. Questo primato è condiviso con la Calabria e la Sicilia.

Il 53,6% dei giovani della Campania è disoccupato mentre  solo il 15,2% nel resto d’Europa. In Baviera, la disoccupazione giovanile è appena il 4% (record positivo d’Europa) (dati Eurostat). Questo dato fino a qualche tempo fa favoriva l’emigrazione verso altri paesi. Ma ora?

In compenso la Grecia sta messa meno peggio con un tasso del 51,1 % di media.

In Campania oltre al dato della disoccupazione giovanile emerge una grave situazione generale di disoccupazione. Prima della pandemia alla fine del 219 il tasso di disoccupazione si attestava sul 21% in provincia di Caserta, 13,6% in provincia di Benevento,  22,8% in Provincia di Napoli, 14,6 in provincia di Avellino e 17,5% in provincia di Salerno. Sarà importante verificare questi dati alla fine della pandemia.

In termini numerici ciò significa che “Nel primo trimestre del 2020 gli occupati del mercato del Lavoro della Campania sono risultati 1.615.331 con un decremento di 15.520 unità rispetto al IV trimestre del 2019.

Il 17,6% degli occupati ha trovato lavoro nel settore dell’istruzione, della sanità e dei servizi sociali, il 16,7% nel settore del commercio, il 15,2% nell’industria, 10,5 nel settore delle attività immobiliari e dei servizi alle imprese, il 7,7%negli altri servizi personale e collettivi, il 7% nelle costruzioni, il 6,1% nella pubblica Amministrazione e Difesa, il 6,1% nel Trasporto e immagazzinaggio, il 5,8% negli Alberghi e ristoranti, il 4% nell’ Agricoltura caccia e pesca, il 2% nei Servizi di comunicazione e informazione, il 1,4% in attività finanziarie ed assicurative.

Gli occupati per professione sono stati prevalentemente Dirigenti (33%), impiegati (32%) lavoratori manuali specializzati 21,3% lavoratori manuali non qualificati (13%).

I disoccupati  (379.314) risultano in calo rispetto all’ultimo trimestre del 2019 (417.484).Il tasso di disoccupazione resta ancora elevato attestandosi  al 19% ma in diminuzione rispetto al 2019 (21,6%).”

Secondo i dati delle camere di commercio ad inizio 2020 hanno cessato l’attività ben 137 imprese al giorno. Scendendo ancor più nel dettaglio, soltanto nella provincia di Napoli la «mattanza» delle imprese ha cancellato, sempre nel periodo gennaio-marzo 2020, quasi settanta realtà produttive ogni 24 ore. Ventotto al giorno, invece, le aziende che hanno alzato bandiera bianca nell’area salernitana. Ventidue al dì, invece, le società che hanno chiuso nella provincia di Caserta. Dal 2018 all’inizio del 2020 sono morte 21.659 imprese.

Sempre secondo i dati delle camere di Commercio al 31 marzo 2020 avevano cessato l’attività rispetto all’anno precedente 10.473 piccole imprese. Numeri impressionati e drammatici.

Non cambia il quadro nel settore agroalimentare: mentre i pastori sardi scioperavano perché il latte viene pagato 60 centesimi al litro in Campania il latte viene pagato 30 centesimi al litro e la carne viene pagata due euro al chilo. Ciò ha determinato la chiusura di 900 aziende nel settore.

Per non parlare del commercio della ristorazione e del turismo tenuto conto che in Campania il Terziario vale il 70% del PIL e l’85% dell’occupazione, appare chiaro quali saranno le devastanti conseguenze della tempesta perfetta che stiamo vivendo. Insomma prima della seconda ondata del coronavirus la Campania contava circa 500.000 disoccupati. Questo numero cresce di giorno in giorno e il blocco dei licenziamenti fino al marzo2021 serve solo a procrastinare l’agonia.

La Campania è la regione nell’eurozona con la percentuale più alta di popolazione a rischio povertà o esclusione sociale. Il 41,4% dei suoi abitanti vive in condizioni ben al di sotto della media continentale ferma al 16,8%, sono i dati evidenziati dall’Eurostat Regional Yearbook 2020. Non se la passano meglio le altre aree del Mezzogiorno con la Sicilia al 40,7% e la Calabria al 37,7%.

Ad Avellino la Novolegno società specializzata nella costruzione di pannelli in MDF ha chiuso licenziando in tronco i propri operai senza chiedere la cassa integrazione.

La Fiat di Pratola Serra (Av) che prima produceva motori per Fiat e Ford adesso ha iniziato a produrre mascherine anticovid, ma quando finirà la pandemia cosa farà? Chiuderà! Dove sono i miliardi di investimenti che la Fiat d Marchionne aveva promesso?

A Flumeri l’ex stabilimento Irisbus lavora a scartamento ridotto.

Per ciò che riguarda l’agricoltura al crisi riguarda il  latte bufalino, bovino e del comparto florovivaistico. Intanto, nel mese di marzo è stato firmato l’accordo tra Coldiretti Campania e Parmalat per il ritiro di latte vaccino alla stalla che dovrebbe mettere in sicurezza le produzioni degli allevamenti bovini in Campania. Parmalat acquisterebbe  180.000 litri al giorno per dodici mesi, al prezzo alla stalla di 0,43 euro al litro più Iva, per un valore complessivo di oltre 28 milioni di euro. Le principali aree produttive coinvolte sono le province di Caserta, Benevento, Salerno e il Basso Molise.

Quali aziende alla fine di questa tragedia economica e sociale avrà la forza di rialzarsi ed investire in nuove attività produttive? con quali capitali?  Quale sarà il ruolo delle banche? Ed il mercato come reagirà? Lo stato avrà il coraggio e la forza di intervenire con misure adeguate che non siano mero assistenzialismo?

Nell’ultimo ventennio, in particolare, la frattura tra le due aree del Paese si è ulteriormente dilatata contribuendo all’impoverimento anche della zona industriale del Nord che nel Mezzogiorno d’Italia dispone di un florido mercato interno.

Se a fronte di questa realtà qualcuno si illude di poter risolvere la situazione con i soldi che l’Europa ci darà attraverso il meccanismo del recovery fund, non c’è molto da stare allegri perché i 209 miliardi di euro che ci sono stati assegnati non potranno essere assegnati prima del 1° gennaio 2021, ma questa data è solo teorica perché in primis l’Italia dovrà presentare un piano di ripresa nazionale per far capire come intende spendere i soldi che riceverà. Inoltre i soldi saranno spesi un organo tecnico costituito da 6 super manager, coadiuvati da una task force di ben 300 persone.  Non ci sarà pertanto nessun controllo dal basso su come saranno spesi questi soldi a riprova della distruzione della rappresentanza, come antefatto di distruzione della democrazia.

Sul piano pratico  i soldi del recovery fund arriveranno solo in piccola parte nel 2021 nel 2022 e nel 2023 periodo in cui verrebbero erogati soldi fino a poco più del 50% ed il resto negli anni successivi fino al 2026 secondo una nota del NADEF. L’anno prossimo, infatti, l’Europa darà all’Italia 10 miliardi di euro in sovvenzioni e altri 11 in prestiti, per un totale di 21 miliardi. Nel 2022, arriveranno 33,5 miliardi, l’anno successivo 41. Le sovvenzioni supereranno i prestiti soltanto nel 2023, mentre nel 2026 le sovvenzioni saranno ormai esaurite. Il totale alla fine sarà di 65,4 miliardi di sovvenzioni e 127,6 miliardi di prestiti, che fa in totale 193 milioni di euro. I conti non tornano. E dal 2027 dovremo impegnaci a restituire i soldi ricevuti a titolo di prestito. E’ vero che c’è una proposta di per consentire a ciascuno stato di ottenere un anticipo del 10% della somma spettante, ma la proposta non è stata ancora accettata e comunque per incassare questi soldi si dovrà aspettare aprile 2021, ma molto probabilmente concretamente si dovrà aspettare almeno fino all’autunno 2021.

I soldi del recovery fund per ciò che riguarda la Campania, come del resto in tutta il Mezzogiorno e forse in Italia tout court, non serviranno a superare l’emergenza sociale ed economica che esiste, perché anzi se è vero come è vero che i soldi dati a fondo perduto verranno spalmati su cinque anni a partire dal 2021 viceversa i soldi dati in prestito imporranno ai paesi che vi accederanno, tra cui l’Italia “chi vi accede deve allinearsi con il Semestre europeo e le raccomandazioni ai Paesi… finora dipendeva solo dai Paesi rispettarle o meno ma ora le raccomandazioni sono legate a sussidi e potenziali prestiti”(Van Der Leyen).

Ciò vuol dire che la condizione per accedere ai prestiti del recovery Fund imporranno  la pedissequa e cieca condivisione del progetto politico europeo. Già si parla di una stretta del sistema pensionistico in parallelo alla scadenza di quota 100 e di una possibile revisione del Reddito di Cittadinanza. Un vero disastro per tutti coloro che sono schiacciati tra disoccupazione e precarietà.

Il fenomeno dello spopolamento meridionale.

Di Filomeno Viscido

Sono molti i giornali che hanno lanciato l’allarme dell’emigrazione dalle zone meridionali.

Un’emigrazione della popolazione, specie in un Paese a basso tasso di nascite come quello italiano, comporta difficoltà di varia natura a cominciare dall’assenza di massa critica per impiantare attività economica, alla mancata innovazione tecnologica e culturale che una presenza giovanile forte porta sempre.

Ritornando ai dati, farò una veloce citazione di parti di articoli che hanno citato il problema:

Negli ultimi dieci anni la Campania ha perso quasi 50mila giovani con un alto livello d’istruzione che hanno deciso di trasferirsi in un’altra Regione, preferendo quelle del Nord e del Centro a quelle del Sud. Questo dato va sommato agli oltre 50mila ragazzi di età compresa tra i 20 e i 34 anni e un livello d’istruzione medio o basso che hanno lasciato la Campania per trasferirsi altrove in Italia e ai 10mila giovani che hanno scelto l’estero, per un totale di oltre 100mila persone. È la fotografia dell’emigrazione giovanile regionale scattata dall’Istat nel rapporto annuale 2019 presentato oggi a Montecitorio. Nel periodo 2008-2017, Campania, Puglia, Sicilia e Calabria, le regioni italiane con il peggiore saldo migratorio giovanile interregionale, hanno perso complessivamente 282mila giovani, l’80% dei quali con un livello d’istruzione medio o alto.(fonte:https://www.ildenaro.it/fuga-dalla-campania-listat-dieci-100-mila-giovani-emigrati-al-nord-allestero/ )

La Campania perde altri 20 mila abitanti circa, a fine 2018. Cala da 5 milioni e 827 mila a poco meno di 5 milioni 808 mila. Il dato più preoccupante è quello che riguarda le migrazioni interne, dalla regione verso il Nord, soprattutto verso i territori più ricchi, quali la Lombardia e l’Emilia Romagna, dove, invece, la popolazione cresce, con percentuali in Veneto dell’1,1 per mille, in Lombardia del 2,1 e in Emilia addirittura del 2,4.(fonte:https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/cronaca/19_febbraio_08/campania-rischio-spopolamento-nel-1413b0ea-2b72-11e9-8185-f12b2209c708.shtml )

Lo spopolamento dei comuni appenninici

Dall’analisi delle elaborazioni effettuate su dati censuari ed intercensuari Istat dal 1971 al2014, si perviene alla valutazione dei trend demografici nei 975 comuni considerati. Qui vivono, secondo i dati dell’ultimo censimento, 2.805.476 abitanti, il 5,2% della popolazione italiana, con una suddivisione di genere in linea con le percentuali nazionali. La caratteristica evidente della regione appenninica, in particolare dei comuni periferici e ultraperiferici, si riflette nelle analisi demografiche, da cui emerge che circa il 77% dei comuni è interessato da fenomeni di spopolamento. Nel corso degli ultimi quarant’anni, la popolazione dei comuni montani degli Appennini ha continuato a calare, con una diminuzione dell’8%, aumentando la forbice con il resto d’Italia dove, invece, la popolazione è cresciuta del 10% nello stesso periodo.

Dall’analisi delle fasce d’età della popolazione, arrivano conferme sulle dinamiche della popolazione appenninica che, oltre a diminuire, invecchia sempre di più. L’indice di dipendenza strutturale medio, che prende in considerazione la percentuale di abitanti in età non attiva (minore di 14 e maggiore di 65) rispetto a quelli in età attiva, è superiore alla media comunale nazionale (62,3% nei comuni Appenninici e 55,6% nel resto d’Italia). Il dato, considerando anche la percentuale della componente anziana appenninica (intorno al 27% nel 2011 contro una media nazionale del 23%), evidenzia un forte calo nella popolazione under 14, ad ulteriore conferma del ben noto fenomeno dell’invecchiamento demografico, una delle maggiori cause del progressivo spopolamento di queste aree. (fonte testo e foto: https://www.slowfood.it/wp-content/uploads/2015/10/Studio-Appennini-2015.pdf)

Il caso irpino

Traggo l’analisi dei dati del caso irpino da: “Spopolamento e desertificazione nell’Appennino meridionale: il caso dell’Alta Irpinia” di Toni Ricciardi (fonte : https://archive-ouverte.unige.ch/unige:126656)

Restringendo il campo d’analisi, un dato che colpisce in tal senso è dovuto al fatto che, in Campania, ben 370 Comuni sui 550 complessivi (l’indice a livello nazionale più alto dopo quello del Piemonte) sono a rischio spopolamento: – 154 Comuni registrano un basso reddito, livello d’istruzione e una contrazione demografica (Avellino 45, Benevento 34, Caserta 55, Napoli 20); – 60 Comuni registrano ancor meno istruzione, produttività e servizi (Avellino 13, Benevento 7, Caserta 17, Napoli 23); – 81 Comuni rischiano di rientrare nei prossimi anni, per la staticità dei propri indicatori, nella categoria dei più disagiati (Avellino 36, Benevento 29, Caserta 16) (Confcommercio & Legambiente, 2008). Riepilogando, nel censimento del 1951 l’età media della popolazione italiana era di circa 30 anni, con una struttura demografica simile a Albania, Tunisia o Turchia di oggi. Al contrario, l’Italia attuale ha una struttura demografica che supera per invecchiamento il Giappone e la Germania. La provincia di Avellino, insieme a quella di Benevento, è tra le più anziane della Regione Campania e al di sopra della media nazionale. Se l’indice di vecchiaia in Italia è pari al 161,4% (117% in Campania), in Irpinia raggiunge il 164,2 (testo elaborato dal Compagno Filomeno Viscido.)

la situazione in Puglia.

Nel 2019 l’economia pugliese non era altrettanto disastrata quanto quella campana. Secondo i dati della Eures il settore industriale cresceva a” ritmi contenuti”, bene l’industria meccanica, l’alimentare ed il settore turistico; bene sempre secondo i dati forniti da EURES “Il tasso di occupazione della popolazione attiva (età compresa tra 15 e 64 anni) è pari al 46,8% di cui 33,2% donne e 60.7% uomini (dato del primo trimestre 2019), suddiviso, rispettivamente tra agricoltura, industria, costruzione e servizi (tra cui ristorazione)” Il numero di occupati è invece calato in misura marcata nell’agricoltura e nelle costruzioni.

In Puglia però pesa gravemente la situazione dello stabilimento siderurgico di Taranto dove il governo ha dato carta bianca alla multinazionale Arcelor Mittal che porterà inevitabilmente lo stabilimento alla chiusura e tutti gli operai con le loro famiglie per strada. La Mittal cosi come affermato dai Commissari nel ricorso ex art. 700 c.p.c., presentato a suo tempo, davanti ai giudici di Milano “comporterà la distruzione della maggior azienda siderurgica nazionale, centro di aggregazione socio economico insostituibile per non poche (e non ricche) aree e comunità sociali italiane, e di un patrimonio aziendale di esperienza e know-how incalcolabili, nonché la ferita mortale ad una platea di subfornitori di decisiva importanza per le aree interessate, con effetti quindi disastrosi sul tessuto industriale dell’intero Paese e della stessa Unione Europea”.Oltre all’Ilva rimane aperta la questione di numerosissime aziende presenti su tutto il territorio regionale fra cui TCT  quella ex dipendenti GSE di Brindisi ex GSE (DCM srl /DAR), la Santa Teresa di Brindisi, lo Stabilimento Bosch Bari, dove l’azienda ha dichiarato che 600 lavoratori sono in esubero. Infine c’è la questione Marcegaglia dove l’ambizione di reindustrializzazione del sito produttivo, presuppone un sostanzioso impegno di risorse private che non arriverà mai conoscendo l’ex presidente della Confindustria vera saccheggiatrice di risorse di Stato.

Allo stato in Puglia sono giunte all’INPS oltre 26 mila domande di imprese per concedere la Cassa Integrazione in deroga, rifinanziata dalla Regione con una seconda tranche di 120 milioni che si aggiungono ai 106 precedenti, a poco meno di 90 mila lavoratori. In Puglia l’emergenza coronavirus ha prodotto un calo del Pil, nel primo trimestre del 2020, del 4% circa.

Per ciò che riguarda l’agricoltura la seconda ondata della pandemia ha causato il crollo delle attività di 20.000 bar, trattorie, ristoranti, pizzerie e 876 agriturismi. In Puglia la pandemia ha un effetto negativo a valanga sull’agroalimentare con una perdita di fatturato di oltre 680 milioni di euro per i mancati acquisti in cibi e bevande nel 2020.

Per la Puglia si stima una perdita di oltre il 5,6% del Pil solo nei due mesi di lockdown e addirittura 20 mila imprese in meno a fine 2021, con la conseguenza drammatica di almeno di 70 mila posti di lavoro cancellati. Per concludere secondo un rapporto della regione Puglia relativo al 2018 a quella data i disoccupati della regione Puglia ammontavano a circa315.000. il tasso di disoccupazione cresce sino a raggiungere il 18,8% nel 2017. Il Pil pugliese ammonta a circa 73 miliardi di euro e rappresenta il 4,2% del Pil nazionale (pari al 19% del Pil dell’intero Mezzogiorno). Pwer fare un raffronto la Lombardia rappresenta il 22,2% del Pil italiano.

La situazione in Basilicata

La cessazione negli ultimi sei mesi del 2020 in Basilicata di 378 imprese artigiane, di cui 243 in provincia di Potenza e 135. La Basilicata è al 19° posto su 20 regioni per Indice di reddito;  è al 19° posto su 20 regioni per Indice di Consumo; è al 17° posto su 20 regioni per Tasso di Occupazione. Il settore più in crisi dal punto di vista dell’occupazione e quello relativo alle costruzioni con una diminuzione del 76% seguito dall’agricoltura e dall’informatica ed editoria  e delle attività finanziarie che registrano un -40%.

Da non dimenticare il dramma della Ferrosud, azienda lucana specializzata nel settore metalmeccanico rotabile. Sono 80 i lavoratori trascinati in un limbo, causato da un concordato preventivo nato  nel 2010.

La Lucania conta 72.00 disoccupati (dato ISTAT 2019) con un tasso di disoccupazione giovanile  del 38,7%.Per non parlare della situazione occupazionale delle donne che è drammatica tanto da far dire al  segretario generale della Cgil Basilicata, Angelo Summa e al  presidente Ires Cgil Basilicata, Giovanni Casaletto la Basilicata non è una regione per donne.” Le aziende produttive Lucane son legate soprattutto alla Fiat in quanto una delle autovetture in produzione la Jeep Kompass sta avendo grandi successi di vendite.

E’ del tutto evidente che se si ferma lo stabilimento di Melfi si ferma tutto l’indotto che soprattutto in Basilicata ha un buon numero di addetti. 

La situazione in Calabria

L a Regione Calabria può contare un tasso di disoccupazione che riguarda soprattutto la componente più giovane di forza lavoro. Come già detto la  Campania (53,6%), Sicilia (53,6%) e Calabria (52,7%) sono fra le regioni europee con il più alto tasso di disoccupazione giovanile fra i 15 e i 24 anni. Secondo i dati  Eurostat, che inserisce le tre regioni del Mezzogiorno negli ultimi 10 posti su 280 regioni monitorate nel 2018 in tutta l’Unione, dove la media è del 15,2%. La Calabria (21,6%) ha anche l’undicesima percentuale più alta fra i territori europei per quanto riguarda la disoccupazione della popolazione fra i 15 e i 74 anni. La media europea è del 6,9%.Il totale complessivo dei disoccupati in Calabria ammonta a 105.000 unità. Questo significa che in Calabria un giovane su due non ha lavoro.

Dal punto di vista delle imprese  la sospensione delle attività ha comportato la paralisi del tessuto produttivo calabrese. Novemila imprese calabresi del terziario rischiano di scomparire, con una conseguente perdita di oltre 23 mila posti di lavoro.

Per ciò che riguarda il settore agricolol’attività è crollata di circa il 41% delle aziende agricole.

La situazione in Sicilia

in Sicilia La disoccupazione ha raggiunto il 20%. Secondo i dati dell’Istat in 346 mila non hanno un lavoro (la media nazionale è del  9,8%).

Secondo uno studio dell’Università di Catania “Se c’è un dato che non ha mai smesso di crescere, negli ultimi dieci anni, in Sicilia, è quello della disoccupazione; come se ciò non bastasse, assieme alla preoccupante percentuale di disoccupati siciliani, va ad aggiungersi quella dei giovani, che sempre di più non riescono a trovare un impiego.”

Sempre secondo questo studio “chiudono le imprese, calano i consumi per famiglia, cresce in modo smisurato la disoccupazione, specialmente quella giovanile.” e “si pone la drammatica soppressione di 4.571 altre imprese, “solo” 1400 a Palermo in un anno. In particolare, in tutto il territorio dell’isola, hanno chiuso 3582 esercizi commerciali al dettaglio, 946 aziende nel campo dell’alloggio e della ristorazione, e infine 754 ditte specializzate dalla comunicazione ai trasporti, dagli immobiliari ai viaggi, dal supporto imprese all’intrattenimento. Chiuse altresì 1948 ditte industriali, e 342 imprese agricole tra le province siciliane, quelle più preoccupanti sono Trapani, Agrigento e Messina, con un tasso di disoccupazione, rispettivamente, di 23,6%, 27,6% e 25,5%. Dato più preoccupante, inoltre, è quello giovanile: al 2018, i giovani siciliani che non lavorano sono il 53,6%, circa 1,5 milioni, dunque un giovane su due non lavora.” Unica  soluzione: l’emigrazione.

In Sicilia c’è il dramma sociale dell’ex stabilimento Fca di termini Imerese. Dopo l’abbandono della Fiat che aveva occupato fino a 3800 unità La società Blutec  aveva rilevato lo stabilimento ex Fiat. Lo Stato regalando,  con un ricco pacchetto di soldi,  la fabbrica ad avventurieri che si sono improvvisati costruttori di auto elettriche, motocicli e quant’altro è stata fermata dalla magistratura che ha arresto i vertici della società e sequestrato lo stabilimento. Ora si profila all’orizzonte l’ennesimo bluff,  giocato sulla pelle dei quasi 700 operai che da anni ormai vivono solo di ammortizzatori sociali. 

Intanto a nord di Siracusa l’inquinamento industriale si insinua da decenni nel suolo e nelle falde acquifere, si diffonde nell’aria e contamina il mare. Fabbriche, ciminiere e cisterne di greggio si estendono a macchia d’olio. Il polo petrolchimico a nord di Siracusa rappresenta venti chilometri di costa, un territorio e una baia imbottiti di sostanze contaminanti e nocive. Dall’insediamento negli anni cinquanta della prima raffineria, la zona è oggi stravolta dall’inquinamento. Sembra di vivere il dramma di Taranto.

Nel settore agricolo vi è come in tutte le regioni meridionali e non solo l’azzeramento del canale Horeca (hotel, ristoranti e catering) e delle mense scolastiche e universitarie; la chiusura di agriturismi, enoturismi, mercati storici e rionali, nonché di quelli dell’agricoltore e del pescatore; l’azzeramento della domanda di cibo da parte dei turisti in Sicilia; la difficoltà lungo tutta la filiera alimentare, in termini di approvvigionamento di materie prime e di spedizione e consegna dei prodotti; il ridotto funzionamento dei servizi di logistica, soprattutto internazionali, che ha già messo in difficoltà le imprese per il reperimento di materiali di consumo, di servizi e i prezzi di ricambio dei macchinari.

Concludendo prima della pandemia da coronavirus secondo una ricerca condotta  nel Mezzogiorno d’Italia ci sono circa 1,5 milioni di disoccupati, mentre molti di più sono gli inattivi.

Partiamo da un dato: il 40% più ricco della popolazione italiana detiene l’87% della ricchezza e il restante 60% più povero il 13%,  Il 5% più ricco della popolazione italiana detiene una ricchezza superiore all’80% più povero; l’1% più ricco detiene il 22% della ricchezza nazionalei 3 miliardari più ricchi d’Italia posseggono quanto il 10% più povero della popolazione, circa 6 milioni di persone.

Questo è il risultato di trent’anni di liberismo di  e della famosa formula imposta dal Governo Monti inserito nella Costituzione sul pareggio di bilancio  imposto dall’UE. Fin dall’inizio molti economisti e giuristi hanno spiegato perché il pareggio in bilancio configurava un vero suicidio economico. Grazie a questo sistema le nazioni europee più deboli fra cui l’Italia sono satte costrette  ad accettare ogni tipo di riforma richiesta dalla BCE che di fatto ha assunto il controllo delle economie nazionali e ha ridotto di fatto i poteri degli stati ed un indebolimento della democrazia.

L’economista Salvatore Morelli, ha detto:“L’Italia è uno dei Paesi dove il rapporto tra ricchezza aggregata totale e il totale dei redditi prodotti ogni anno è tra i più elevati al mondo, una delle nazioni a più elevata intensità capitalistica, dove la ricchezza vale molto più del reddito. […] Si accresce sempre di più il peso della ricchezza ereditata, della trasmissione dinastica patrimoniale, rispetto alla generazione di reddito. Una situazione dove, come è stato detto, il passato divora il futuro”.

Il World Inequality Report pubblicato nel 2018 suggerisce che una delle più influenti cause dell’aumento delle disuguaglianze sia dato dal passaggio della ricchezza pubblica in mani private. Negli ultimi venti anni, vi è stata una forte spinta alla privatizzazione del patrimonio dello Stato e questo ha portato una diminuzione di risorse in mano ai governi per combattere le criticità che portano alla disuguaglianza.

Da Prodi in poi è successo questo in Italia con la dismissione del patrimonio pubblico la distruzione dell’IRI e la privatizzazione di industrie strategiche.

Inoltre l’emergenza determinata dalle misure restrittive a seguito della seconda ondata del lockdown evidenzia le conseguenze dei tagli al sistema sanitario raccomandato dall’Europa e messo in atto con solerzia da tutti i governatori regionali. La chiusura di aziende fa emergere in maniera drammatica la  povertà, la disoccupazione e le disuguaglianze. Ma non sembra che la politica italiana voglia cambiare approccio.

A livello politico le forze in campo non sembrano aver compreso che senza un progetto che abbia come fondamento una vera programmazione non sarà in grado di trovare le linee di una indispensabile espansione economica e sociale e che è destinata nel migliore dei casi a recepire le linee guida imposte dell’Europa che ci farà ancor più affondare nella crisi in maniera irreversibile.

Accettando supinamente i diktat di Bruxelles l’Italia subisce gli effetti di una mancata trasformazione dell’ economia al servizio dei mercati in un’economia programmata per l’utilizzazione delle risorse in funzione di obbiettivi globali che tengano conto dell’uso sociale dell’economia e della ricchezza.

Senza un intervento dello Stato che mettendo radicalmente in discussione le politiche economiche neoliberiste, investa sulla riqualificazione della spesa pubblica e rilancio di investimenti pubblici (in ambiente, territorio, ricerca, innovazione, scuola, salute) gettando così le basi per un’alternativa in cui la piena occupazione torni ad essere un obiettivo sociale e politico.

Ciò significherebbe il mancato rispetto dei i vincoli di bilancio dettati dai trattati europei (Trattato di Maastricht, Fiscal Compact). E’ la stessa architettura dell’Unione europea, che impedisce agli stati unici di stimolare l’economia per sostenere produzione e occupazione. 

Una mancata presa d’atto da parte del governo di questa situazione con una decisione di intervenire in maniera radicale nel mezzogiorno può portare al definitivo impoverimento del Mezzogiorno. Se, però, affonda il Sud, tutto il Nord sarà trainato alla deriva.

Perché siamo arrivati a questo? Che cosa significa? che fare?

L’approccio economico dei governi che si sono succeduti nel tempo in Italia negli ultimi venti anni sono stati indirizzati da una scelta neoliberista, mai messa in discussione ma anzi seguita ciecamente che ha determinato l’aumento delle diseguaglianze, della povertà, della disoccupazione soprattutto giovanile e delle donne. Il mercato è stato ritenuto l’unica leva di progresso generalizzato che avrebbe dovuto funzionare come regolatore della vita sociale. In questo senso l’impresa e gli imprenditori ricoprivano un ruolo privilegiato mentre i lavoratori era un’appendice di questi senza diritti da utilizzare in base alle convenienze, dimenticando che queste scelte contraddicevano con lo spirito della nostra Carta Costituzionale.

L’Europa e la BCE fedeli al dettato neoliberista si sono impegnate con appositi strumenti ricattatori ad imporre programmi basati su privatizzazioni, liberalizzazioni, abolizione sistematica del welfare, austerità,   limitazione della spesa pubblica, obbligo di pareggio di bilancio. Parallelamente la sovranità dello Stato veniva messa in discussione si è dato così il via ad una lunga sequela di liberalizzazioni, protezione delle multinazionali finanziare, consentendo delocalizzazioni con conseguente sfruttamento della manodopera  con la mortificazione dei diritti sociali e sfruttamento senza limiti dell’ambiente. La finanziarizzazione dell’economia è un  progetto globale che toglie forza ai poteri dello Stato e conferisce questi poteri ad organismi non elettivi quali la BCE o la banca Mondiale e il WTO.

Mentre la sinistra in Italia non è riuscita a coalizzarsi per dare una risposta democratica e a proporre un modello alternativo, la destra Italiana al seguito di una destra europea xenofoba e razzista senza contestare il modello neoliberista propongono con successo modelli in cui i si chiede nel recinto nazionale sulla base della legge del più forte, della e xenofobia del rancore verso chi governa. Questa destra lungi dal mettere in discussione  alcunchè diventa strumento di quei poteri che a parole contestano. La guerra tra poveri ne è la conseguenza.  Ferraioli a proposito di Matteo Salvini afferma ” Salvini sta promuovendo un abbassamento del senso morale a livello di massa. Non si limita a interpretare la xenofobia, la alimenta La sua politica sta ricostruendo le basi ideologiche del razzismo” (Ferrajoli: «Salvini fa un uso demagogico del diritto. Il suo è populismo penale», intervista a cura di Roberto Ciccarelli, “il manifesto”, 5 luglio 2019).

Malgrado il governo Conte emetta decreti a ripetizione per far fronte all’emergenza sanitaria ed economica  quello che risulta è la mancanza di un progetto di sviluppo  della nostra società. Quante leggi non sono state fatte per paura di perdere voti. Ricordiamo la vergogna di un PD, che non ha avuto il coraggio di emanare la legge sullo ius soli, il silenzio della classe politica rispetto ai moniti del Pontefice sul dovere dell’accoglienza dei migranti; per non dimenticare l’imbarazzo del governo rispetto alle richieste che da più parti si levavano per l’abolizione dei decreti sicurezza.

Chiara Saraceno ha affermato che “un crescente potere del capitale sul lavoro, che include favori quali lo sviluppo della flessibilizzazione, gli effetti delle tecnologie e la debolezza dei sindacati; l’affermarsi di un “capitalismo oligarchico”, con la concentrazione di reddito e ricchezza nel 10 dei più ricchi e nell1 degli ultraricchi; l’individualizzazione delle condizioni economiche, la frammentazione dei contra e la relativa incapacità dei lavoratori a fare fronte comune per una tenuta di salari e spendi; infine ma non ultimo, il ritrarsi della politica, nazionale e comunitaria, o meglio il suo consegnare quello che fu un ruolo di regolazione dei mercati nelle mani dei mercati stessi, in ciò depotenziando (anche e non solo) le politiche di redistribuzione Quest’ultimo aspetto, sottolinea Saraceno, non solo è un rischio per lo sviluppo e l’uguaglianza, ma lo è per la democrazia stessa, come l’esplosione dei populismi autoritari dimostra (Saraceno, 2019) La crisi del 2008, sottolinea la sociologa, ha enfatizzato questa situazione, segnando anche asimmetrie e differenze profonde tra i Paesi membri della UE, che ha dismesso la sua immagine di “opportunità” e assunto quella di portatore d’acqua del grande capitale.

Il paradigma attualmente vigente per il governo dell’economia in Europa è quello delle politiche neoliberiste e di austerity e del pareggio di bilancio. Queste politiche hanno determinato in Europa e nel mondo un aumento delle disuguaglianze economiche e sociali. Il mercato non è il regolatore della vita sociale e non genera ricchezza per tutti, anzi al contrario,  ha determinato  una polarizzazione delle ricchezze e le condizioni di chi lavora sono peggiorate. La commissione Europea in accordo con il FMI al netto della tregua concessa per l’emergenza Coronavirus riprenderanno a chiedere riforme strutturali, cioè ancora austerity.

Eppure è sotto gli occhi di tutti che non il coronavirus, ma le politiche  di austerity tenacemente messe in campo da tutti i governi che si sono succeduti hanno determinato la catastrofe economica e sociale italiana e soprattutto del mezzogiorno straccione e ladrone. Il sud sta diventando un deserto in mano alle mafie ed ad una classe politica corrotto ed autoreferenziale.  Oggi i ricchi sono più ricchi e i poveri più poveri.

Il mercato del lavoro è governato dall’incertezza, mentre si continuano a stanziare sgravi contributivi per le imprese. Lavoro nero ed economia illegale sono diventate una costante nell’attuale sistema produttivo. Lo Stato non è più garante dei diritti dei lavoratori che pone un limite al privato, ma assiste alla violazione sistematica dei diritti dei lavoratori. In questa ottica viene giustificato il caporalato e lo sfruttamento disumano dei migranti nel lavoro agricolo.

Come possiamo immaginare che alla fine dell’emergenza coronavirus quell’esercito di disoccupati del Mezzogiorno d’Italia trovino da un giorno all’altro un’occupazione stabile laddove da circa quarant’anni i governi che si sono succeduti hanno messo da parte ogni politica industriale limitandosi a gestire il quotidiano senza investire sul futuro?

Per comprendere la strada da intraprendere bisogna cambiare paradigma e appare illuminante e la dichiarazione di Papa Francesco” Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socioambientale” (Papa Francesco in Madagascar, 7 settembre 2019).

Partendo da questa considerazione sorge spontanea la considerazione che per pensare di affrontare seriamente il problema del Mezzogiorno d’Italia  occorre cambiare modello di sviluppo  occorre che lo Stato diventi motore regolatore e protagonista dell’economia, non più un’economia governata dal mercato come regolatore e costruttore della società ma lo Stato che ritorni ad essere tale e che svolga un ruolo chiave nell’economia per contrastare le multinazionali ed il modello di sviluppo che esse portano avanti distruggendo ogni regola del vivere civile e sfruttando l’ambiente fino all’esaurimento delle risorse naturali.

Oltre  a risolvere la crisi sociale d il dramma della disoccupazione reinventando il ruolo dello Stato esso non può porsi l’obbiettivo di sostituirsi alla imprenditorialità privata adottando il medesimo modello di sviluppo. La risposta dello Stato deve essere quella di uno Stato visionario che va ad inventare i posti di lavoro rivoluzionando  il sistema produttivo per non correre  il rischio di sostituire al capitalismo finanziario il capitalismo di Stato. Per fare questo sarà necessario ritornare al passato laddove l’energia era in mano pubblica perché mai le grandi imprese che detengono il mercato dell’energia e dei combustibili  investirebbero in un progetto a lungo termine che ponga al centro del suo obbiettivo la sostituzione delle attuali fonti energetiche con quelle totalmente rinnovabili.

Per fare ciò è necessaria una  pianificazione centralizzata dove il fine ultimo sia il bene comune e non il profitto di pochi a danno della collettività.

Deve cambiare il rapporto fra Stato, il mercato e un’economia che non pensi al mercato. Può sembrare paradossale ma è così. La BCE e il FMI per porre al centro della propria agenda il rispetto delle regole del mercato sono fino ad oggi stati promotori di povertà e precarietà, ma prima o poi i lavoratori e non solo, ma anche il ceto medio impoverito si ribelleranno. Lo Stato e L’Europa ognuno per la sua parte debbono dare un segnale forte e coraggioso sul fronte degli investimenti, rafforzando le politiche sociali.

In questo senso la pandemia da covid è stato il terremoto che deve seppellire sotto le sue macerie le politiche di austerità. Creare un progetto unico e  centralizzato governato da un ente economico alle dipendenze del Ministero dell’economia che porti alla transizione verso un’economia a zero emissioni di carbonio.

Ciò significa entrare in competizione con le grandi compagnie di petrolio ed energia, mettere in crisi la loro avidità costringendole a inseguire lo Stato imprenditore sul piano di una nuova economia verde.  

Lo Stato dovrà porsi l’obbiettivo di creare ricchezza recuperando i disoccupati e nello stesso tempo di diminuire il costo della vita  con sistemi gratuiti di trasporto urbano, universitaria gratuita, Internet in fibra totalmente gratuito. Come fare ciò? Recuperando quei settori generosamente regalati ai privati: autostrade, telefonia, settore agroalimentare, industria automobilistica e dell’acciaio, banche. Fare investimenti che servano a creare occupazione e impiegare tutta la forza lavoro. Gli economisti affermano che un punto di PIL di investimenti pubblici generano tre punti di PIL.

Bisogna partire dai bisogni per creare un modello economico alternativo che sia ecologicamente sostenibile, che privilegi la crescita, lo sviluppo economico e la giustizia sociale mortificata da anni di disinvestimenti. Il sistema finanziario internazionale ha creato ricchezza solo per se stesso impoverendo milioni di persone. Lo stato deve dare una risposta alle disuguaglianze generate da questo sistema che non ha dato alcun contributo al benessere della collettività. Nessun imprenditore privato ha interesse a promuovere un processo di trasformazione dell’economia nel senso prospettato perché questo presuppone governare un difficile  processo che riguarda l’energia, la mobilità, i nuovi prodotti, l’innovazione e significa intervenire in un processo che richiede grandi investimenti che tengano insieme la tutela del lavoro e nuove opportunità di lavoro e il rispetto per l’ambiente.

Il petrolio dell’Italia si chiama sole, vento, mare, energia vulcanica bisogna investire in questo, bisogna investire nel rendere il patrimonio pubblico autosufficiente dal punto di vista energetico. Lo Stato deve investire per proteggere il  territorio dalle frequenti occasioni di dissesto. Basti pensare quanto lavoro generebbe un simile progetto solo in termini di riqualificazione e formazione dei lavoratori.

Per assecondare la Fiat, ormai non più italiana si è rinunciato ad investire in un settore in cui il nostro paese è sato sempre all’avanguardia. Perché attraverso questo ente economico auspicato lo stato non torna ad essere produttore di auto alimentate con combustibili diversi? L’alfa Romeo industria auto di primo livello fu regalata alla Fiata da Prodi nella fase di liquidazione del patrimonio pubblico dello stato, ma oggi lo Stato potrebbe sostenere un progetto di riconversione dell’automobile come già in Germania e anche altrove sta avvenendo che rimetta al centro i lavoratori aumentando diritti e salari. Oggi in Italia si producono meno auto della Spagna o della Slovenia. Lo Stato deve avere il coraggio di investire  sugli studi sui veicoli elettrici recuperando Termini Imerese, Torino, Napoli. Costruire auto elettriche, motori elettrici e lavorare su tutte le tecnologie connesse accettare la sfida delle evoluzioni dei motori a idrogeno. Investire nella ricerca di nuove batterie per auto elettriche. La commissione europea  ha varato un progetto chiamato  European Battery Alliance (EBA) che si pone l’obiettivo di sviluppare «le batterie sostenibili del futuro e consentire all’Europa di raggiungere gli obiettivi previsti dall’European Green Deal». Quindi la partita della transizione energetica si gioca anche sulla gestione dell’energia, sulla possibilità di accumularla e usarla quando necessario. Le batterie sono quindi al centro di un mercato stimato da 250 miliardi di euro da qui al 2025, oggi monopolizzato dai produttori asiatici. La richiesta proviene soprattutto dall’automotive, impegnata sulla nuova frontiera dell’auto elettrica. Nessun imprenditore privato ha la forza ed il coraggio di investire capitali nell’economia verde ma lo Stato ha i mezzi per farlo. Honda, Toyota, Hyundai e General Motors – hanno già realizzato veicoli a idrogeno con tecnologia fuel cell, finora solo a scopo di ricerca o per vendite limitate, ma forse, una volta completata la transizione verso l’elettrico, spinta anche dall’aumento delle tasse sui combustibili fossili, comincerà la transizione – definitiva – verso i motori a idrogeno.

La Germania si rivolge all’indotto italiano per la componentistica dell’industria meccanico e dell’auto: Torino Milano Napoli, Termini Imerese, il Nord Est sono pieni di piccole e medie aziende ad alto livello di qualificazione nel settore della componentistica. Perché non sfruttare questo patrimonio a rimorchio di un’industria di Stato che punti all’innovazione tecnologica ecocompatibile.  La Tesla nata appositamente 16 anni fa per costruire solo auto alimentate a energia elettrica ha previsto fatturazioni da capogiro fino al 2030, con guadagni “da 1,2 trilioni all’anno” provenienti solo dal comparto software.

Un Ente Pubblico Economico gestito direttamente dal ministro dell’Economia che si doti dei mezzi finanziari sufficienti potrebbe fare quello che non è fantascienza perché sta avvenendo già in Germania, laddove questo paese ha come suo punto di forza una cultura della coesione della società e la pratica del coinvolgimento permanente degli attori sociali nella vita pubblica e nelle scelte fondamentali della nazione.

Ma quello che avviene in Germania può avvenire anche in Italia. Creare un ente pubblico economico che guidi il cambiamento del paradigma produttivo provvedendo alle nazionalizzazione di industrie strategiche, coinvolgendo i lavoratori in questo processo attraverso il meccanismo della cogestione che dia ai lavoratori il diritto di sedere nei consigli di sorveglianza delle imprese e di discutere delle scelte strategiche e delle decisioni industriali rilevanti.

La cogestione, esiste già in altri paesi: in Germania, ma non solo Germania. Dopo la seconda guerra mondiale vi sono state forme di cogestione in Inghilterra, in Francia dove i consigli di azienda hanno conquistato un’importanza fondamentale della cogestione delle aziende statalizzate. Ma è in Germania che la cogestione aziendale ha trovato la sua massima applicazione. Infatti nel 1919 fu approvata una legge che istituiva la rappresentanza operaia nei consigli di fabbrica: Inizialmente i poteri di questi consigli di fabbrica erano limitati, ma poi dopo la seconda guerra mondiale la necessità di riprendere l’economia nazionale spinse il movimento sindacale ad ottenere maggior potere soprattutto nella zona del bacini della Ruhr dove la ripresa della produzione si verificò quasi esclusivamente per l’iniziativa operaia. A quell’epoca tutte le aziende erano sotto il controllo delle autorità britanniche di occupazione che affidarono ad una Società Fiduciaria la gestione aziendale. I sindacati ottennero il riconoscimento del diritto di cogestione. Tutte le aziende costituirono consigli di amministrazione con undici delegati di cui cinque di nomina sindacale, cinque di nomina aziendale più un tecnico estraneo. Le acciaierie Krupp in crisi accettarono la regola della cogestione. L’azienda Krupp fu trasformata in società per azioni e così fu possibile applicare la cogestione prevista da una legge del 1951, che consentiva tale istituto alle aziende con più di mille dipendenti e ai lavoratori fu consentito di esercitare un certo controllo sull’attività dei complessi industriali che avevano un peso determinate nella vita economica del paese. Nel 1976, il governo del socialdemocratico Helmut Schmidt approvò, con un largo consenso politico, la riforma che introduceva in Germania il principio della cogestione (Mitbestimmung). La gestione delle imprese tedesche era affidata a due organi: un Consiglio Esecutivo (Vorstand) e un Consiglio di Sorveglianza (Aufsichtsrat). I lavoratori avevano diritto di eleggere metà dei rappresentanti del Consiglio di Sorveglianza. La restante metà e il Presidente sono eletti dall’Assemblea degli Azionisti. Per le delibere del Consiglio di Sorveglianza, il voto del Presidente vale doppio in caso di parità degli esiti elettorali. L’inattuato articolo 46 della Costituzione recita testualmente “Ai fini dell’Elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi alla gestione delle aziende.” Cogestione quindi significa l’introduzione del concetto di democrazia all’interno della fabbrica e diventa quindi strumento di progresso. In questo senso gli operai, gli impiegati, i quadri prendono parte ala processo produttivo influenzandone le scelte, le strategie i progetti, godendo ampi poteri democratici all’interno dell’azienda. La Commissione Lavoro del Senato nel corso della XVI° legislatura approvò il testo l testo unificato dei disegni di legge in materia di partecipazione dei lavoratori in azienda. Da Questo testo scaturì la delega legislativa contenuta nella legge Fornero (28 giugno 2012 n. 92), rimasta disattesa, poi il disegno di legge bi-partisan 4 dicembre 2013 n. 1051, presentato dal Presidente della Commissione Lavoro del Senato con le firme di senatori di tutti i gruppi. Il ministro dell’economia Gualtieri, che ha già dato prova di grandi capacità di governo ha ipotizzato la creazione di una Newco in cui sia presente la Cassa Depositi e Prestiti. Se questa formula ha dato buoni frutti in Germania, in Austria in Francia e persino nell’ultracapitalistica America non vedo perché non dovrebbe funzionare in Italia. Uno dei principali obiettivi che come Socialisti dobbiamo porci nel modo più conveniente e realista possibile, ma con fermezza è la trasformazione della crisi pandemica e delle sue immediate conseguenze occupazionali ed economiche in una grande occasione di rilancio di uno sviluppo pianificato che veda lo Stato nel ruolo di stimolo e rinnovata partecipazione.

La vertenza della Whirlpool in Campania, che coinvolge la vita di circa 350 famiglie di lavoratori, quella della Meribullon a Castellammare di Stabia, un ago di fatto nel pagliaio della crisi e delle dismissioni di tanti stabilimenti italiani, può essere il pretesto per superare la semplice solidarietà e tentare una soluzione pilota.

Le risorse che il governo dovrebbe impegnare in regalie ad una indegna multinazionale pronta sempre a delocalizzare ovunque, per non far chiudere, potrebbero per la prima volta in Italia essere utilizzate per riequilibrare i rapporti  di forza all’interno del sistema capitalistico nazionale.

Senza la tenuta dei lavoratori nei settori strategici, questo paese veramente sarebbe entrato in crisi in modo strutturale.  Il paese produttivo reale non ha conosciuto chiusure e tregue: ha costituito la continuazione delle fatiche ospedaliere e curative…con altri mezzi. Salute e produzione sono strettamente correlate e tutte e due hanno bisogno dell’intervento dello Stato e della Programmazione statale.

A Napoli si potrebbe partire con lo Stato che crea un ente pubblico economico alle dirette dipendenze del ministero dell’economia che avoca a se l’investimento finanziario e la copertura di partenza, scongiurando la chiusura, chiedendo a tutti i Lavoratori di partecipare attraverso quote figurative di partecipazione progressive parte fissa e variabile concordate nel capitale sociale dell’azienda. La nuova azienda potrebbe continuare a costruire elettrodomestici, (lavatrici, lavastoviglie e frigoriferi, televisori) ma seguendo le nuove misure adottate dalla Commissione europea che dettano regole più stringenti in materia di maggiore efficacia energetica, che prevedono. “esigenze di riparabilità e riciclo”, indispensabili per gli obiettivi dell’economia circolare perché “miglioreranno la durata, la manutenzione, il riutilizzo, l’aggiornamento e il riciclaggio degli elettrodomestici, nonché lo smaltimento”

Si andrebbe ad una gestione di tecnici, operai, e dallo Stato che avrà accortezza di promuovere particolari condizioni di stimolo, protezione e programmazione e verifica puntuale.

I diritti acquisiti sarebbero comunque garantiti e la quota di investimento figurativa di partenza, non andrebbe ad incidere sulla quota pensionistica o sul TFR; anzi creerebbe una di  fatto fonte alternativa assai più lungimirante delle pensioni integrative poggianti sui fondi finanziari .

La domanda collegata si fonda sulle produzioni effettive…non sulle bolle finanziarie  tendenzialmente limitate e destinate a caduta inevitabile ciclica e strutturale.

Lo Stato deve fare da GARANTE ASSOLUTO  e la partecipazione agli utili di impresa da parte delle maestranze creerebbe le condizioni di forte partecipazione alla riuscita della iniziativa, avendo anche un peso rilevante nelle decisioni strategiche, produttive e gestionali. (il 25% delle aziende in Europa già adottano schemi di profit Sharing).

Oggi nelle aziende difficilmente si riesce ad individuare il capitalista imprenditore, quello che prima veniva chiamato “il padrone” non esiste più, sostituito ormai da centri decisionali lontani, da una burocrazia dirigente lontana. Il dettato costituzionale secondo cui “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dei cittadini non è mai entrato nelle fabbriche. 

Lo Stato è stato grande assente nei processi produttivi da sempre perché vi era la convinzione che lo Stato non poteva che essere espressione degli interessi della classe dominante, nell’attualità i grandi colosi finanziari hanno di fatto più potere dello Stato impedendo di fatto che lo stesso possa intervenire nei rapporti fra finanza e lavoratori. L’Italia sconta l’abbandono da perte della classe politica degli obbiettivi di sviluppo economico e sociale.

E’ avvenuto così che un senso di impotenza da parte dei lavoratori facesse venir meno la voglia di lottare perché la lotta non paga più. I lavoratori, la società civile in genere si è distaccata dalla società politica perché gli istituti democratici sono stati svuotati della loro sovranità in nome di un’Europa sempre pi lontana sempre più disinteressata. La società civile ed i lavoratori in genere si sentono sempre meno rappresentati dai partiti ridotti a meri comitati elettorali e ci sia per il sempre meno potereffettivo del parlamento; ciò ha generato qualunquismo, apatia, frustrazione. Se lo Stato non si riappropria del suo ruolo anche in contrasto con le scelte sovranazionali si corre il rischio che la distruzione della Stato come riferimento istituzionale, come si sta cercando di completare in Italia in questa fase, coinciderebbe con la distruzione della democrazia.

Scriveva Francesco Forte nel maggio 1969 sulla rivista “Critica Sociale”: “sono comunque del parere che la forza fondamentale di contrapposizione alle gradi imprese private e di salvaguardia del potere politico dalla loro influenza sta nell’azione delle imprese pubbliche e nell’espansione di tale azione. Per quanto “vecchia”  possa apparire questa dottrina essa è invece estremamente attuale. Rendere sempre più pubblica l’azione delle imprese pubbliche e mantenere e potenziare lo sviluppo dell’imprenditorialità pubblica sono i due elementi base per lottare contro la destra economica e contro le forze del potere economico privato come forza di dominio economico e di ipoteca politica.

E questa in estrema sintesi è la strada da seguire.

Beppe Sarno

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