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gennaio 24, 2021

Tomas Munzer.

Di Beppe Sarno

In questo giubilare interessato del comunismo nostrano, mi piace ricordare un personaggio fuori dal tempo che può essere definito un comunista ante litteram nato e vissuto circa cinquecento anni fa.

Il personaggio è  Tomas Munzer, di cui parla diffusamente Engels, ritenendolo uno dei maggiori rivoluzionari della storia.

Tomas Munzer nel maggio 1525 venne decapitato dopo orribili torture. Spariva così una figura di agitatore e apostolo dopo essersi battuto alla testa dei contadini tedeschi accerchiati insorti in una lotta impari contro i padroni dell’epoca. Con la morte di Tomas Munzer la guerra dei contadini che aveva sconvolto la Germania finiva miseramente. Ricercare l’origine di questa lotta e seguirne le vicende diventa necessario se si vuol conoscere in Tomas Munzer il filosofo e l’uomo politico che destò l’ammirazione e la stima di uno dei padri del comunismo.

Nel sedicesimo secolo in Germania vi era un’agricoltura arretrata, industria ed il commercio erano limitati a pochi centri ed esisteva un potere politico estremamente frastagliato. Questo decentramento politico determinava l’aggrupparsi si interessi economici per singole regioni fra loro contrastanti. I principi nati dai grandi feudatari medioevali erano di fatto indipendenti e tassavano e riscuotevano a loro piacimento. Per questi signori i contadini erano sottomessi in maniera completa ed assoluta. Le famiglie patrizie che amministravano le città ne erano di fatto i padroni assolti, le gerarchie ecclesiastiche usavano ogni mezzo che il loro enorme potere conferiva per arricchirsi: torture, rifiuto delle assoluzioni, scomunica. Nel grado più basso della gerarchia stavano i contadini.  Sui contadini pesava tutta la società: principi, funzionari, nobiltà, preti, patrizi e mercanti borghesi.

Il contadino, a chiunque appartenesse, veniva trattato come una cosa, come una bestia da soma. La sua vita era contrassegnata da balzelli da pagare a questo o a quello. Ogni arbitrio era concesso a suo danno; la pesca la caccia, la coltivazione del fondo imponevano tasse da pagare e se al principe veniva in mente di prendersi la moglie esisteva lo ius primae noctis. Chi si ribellava finiva in galera o ammazzato. “ di tutti gli edificanti capitoli del codice criminale carolino che trattano del taglio delle orecchie del taglio del naso, del cavar gli occhi, del mozzare le dita o le mani, del decapitare, dell’arrotare, dell’abbruciare, dell’attanagliare con tenaglie roventi, dello squartare, non ce n’è uno che non sia applicato dai graziosi padroni ai propri contadini!”(F. Engels: La guerra dei contadini.)

La disperazione dei contadini determinò il nascere di sette che si fecero interpreti del loro malcontento perché era diventato impossibile tollerare lo stato delle cose. La violenza divenne l’unica risposta possibile. La finalità dei vari movimenti veniva mascherata dal presupposto formale dell’eresia religiosa che predicava il ritorno allo spirito autentico evangelico  e all’uguaglianza di tutti davanti al Creatore. Sostanzialmente si chiedeva un’eguaglianza civile ed economica con l’abolizione di tutti i privilegi.

Mentre la piccola borghesia urbana si limitava a cercare un accomodamento, i contadini chiedevano una radicale inversione di tendenza. Si creò così una tendenza moderata ed una tendenza radicale cappeggiata da spiriti rivoluzionari. Lutero si fece interprete delle esigenze dei primi, mentre Munzer si schierò dalla parte dei contadini e divenne l’animatore dell’insurrezione. Lutero inizialmente incitava i suoi seguaci a “lavarsi le mani nel sangue” dei prelati della curia romana, poi quando capì che le cose prendevano un indirizzo diverso da quello da lui auspicato cominciò a predicare il vangelo della tolleranza e della calma. Malgrado le prediche di Lutero la rivolta non si fermò e rischiava di coinvolgere l’intera Germania e di sconvolgere l’ordinamento sociale. Lutero diventato frattanto il beniamino dei principi dimenticando il suo messaggio iniziale, invocò la rabbia di questi sui contadini che meritavano di essere “schiacciati, strangolati, e pubblicamente dove si può, come si ammazza un cane arrabbiato.” sicuramente se la sconfitta dei contadini può avere un padre  questo è Martin Lutero.

Non cosi Tomas Munzer!

Il giovane monaco aveva un’anima ardente battagliera, intrepida e fin dalla prima giovinezza dedicò la sua missione all’idea di redimere il popolo tedesco dalla condizione di servaggio in cui era ridotto. Appena dottore si ribellò alla curia romana predicando dovunque contro i privilegi e le sopraffazioni dei preti e dei potenti. Fu ascoltato e seguito dal popolo che si riconosceva in lui e dovunque andava la sua parola veniva ascoltata con entusiasmo. La sua dottrina subordinava la Bibbia alla ragione e negava l’esistenza dello Spirito Santo al di fuori di noi. La sua dottrina è stata paragonata a ragione alla moderna speculazione positivistica.  Comunista ante litteram la nuova società che lui predicava presupponeva la scomparsa delle classi esistenti, alle quali si doveva sostituire un’unica classe che doveva contenere tutta la collettività. La proprietà privata sarebbe dovuta scomparire a vantaggio della proprietà collettiva ed il lavoro doveva perdere il carattere di subordinazione e mortificazione che rivestiva. Nella sua visione lo Stato doveva essere la rappresentazione della volontà popolare. Non solo il cambio di paradigma non doveva avvenire solo in Germania, ma in tutta la cristianità. Munzer predicava l’insurrezione violenta delle masse salvo che le classi privilegiate non avessero acconsentito a rinunciare ai loro privilegi. Pochi decenni dopo un monaco calabrese, scriverà “La città del Sole”. Campanella condannato al carcere a vita dalle prigioni napoletana ove era rinchiuso parlerà come Munzer affermando che era giunto il momento, segnato nei cieli e indicato nelle profezie, di una riforma religiosa e politica che, nell’imminenza della fine dei tempi, portasse il cristianesimo alla sua radice universale e naturale e instaurasse una forma di governo repubblicano fondata su principî filosofici.

Desta meraviglia di fronte ai balbetti della politica odierna la  modernità di questi precursori di Carlo Marx che avevano anticipato di  secoli i principi della democrazia.

Tomas Munzer non si limitò ad essere un teorico, infatti, egli rompendo con Lutero  da lui definito la mansueta volpe di Wittemberg, di cui aveva compreso i limiti si dedicò  a preparare ed organizzare la rivolta dei contadini passando alla lotta armata. Creò una vasta lega, impartì istruzioni, percorse con i suoi fedeli anabattisti l’intera Germania e quando l’insurrezione precipitò dalla Svezia dilagando nella Turingia, nell’Eichsfeld, nell’Harz, nei ducati sassoni, nella Franconia superiore, nel Vogtland,  Munzer si fece trovare pronto a capo deli contadini. Munzer, purtroppo, non era uno stratega, ai contadini mancavano armi e comandanti in grado di elaborare strategie di guerra e quindi la rivolta si risolse in una serie di battaglie locali mentre la reazione riusciva ad organizzarsi.

Il 15 maggio 1525 Munzer venne arrestato a Frankenhausen, dove era accorso in aiuto della città ribelle. A Munzer fu riservato un trattamento particolare: insultato, ingiuriato, schernito venne suppliziato e decapitato alla presenza del vincitore, il cristianissimo langravio Filippo d’Assia. Moriva così a soli ventotto anni questa intrepida figura di apostolo e rivoluzionario. Il suo martirio è stato celebrato da grandi storici. Io voglio ricordarlo come un precursore che ha combattuto contro l’ingiustizia in un periodo storico in cui essere  dalla parte dei deboli costava la vita.

gennaio 24, 2021

Come spegnere la luce della speranza.

Maria Di Dio, zia del detenuto Francesco Di Dio, esprime tutta la sua amarezza per il decesso del giovane, morto a meno di 48 anni, nel giugno del 2020. Originario di Gela, pagava un tragico errore compiuto quando era ancora adolescente ed era anche in balia del dramma della tossicodipendenza: avere partecipato ad un “regolamento di conti” tra appartenenti alla Stidda ed a Cosa Nostra, che, nel 1990, aveva causato purtroppo diversi morti. Traviato da persone più grandi e scaltre, che poi erano uscite  dal carcere, attraverso il percorso di “collaboratori di giustizia”, Francesco non aveva seguito la stessa strada, ma aveva iniziato un percorso di redenzione in altra forma… Francesco Di Dio, infatti, aveva aderito all’associazione non violenta “Nessuno Tocchi Caino”, coltivava la fede cristiana evangelica, scriveva poesie, aveva frequentato un corso di filosofia morale e di ceramica, oltre che il Liceo Artistico, per cui si era diplomato e si era iscritto alla Facoltà universitaria di Sociologia, oltre ad essersi interessato anche a  Scienze delle Comunicazioni. Condannato all’ergastolo, si era visto negare tutti i benefici, quindi le attenuazioni dei gradi d’intensità della pena, fondamentalmente per il non avere fatto il collaboratore di giustizia, più che per il suo reato.

La Corte Costituzionale nel 2019, ha stabilito che non sempre il non essere collaboratore di giustizia vuol dire essere ancora collegati con il crimine; dietro la non collaborazione vi possono essere anche contrarietà alla delazione e timore di rappresaglie. Nonostante la  pronuncia di civiltà della Corte sono ancora molti i detenuti spesso arbitrariamente relegati a carcerazioni troppo automaticamente ostative. Nella sua testimonianza, Maria Di Dio esprime tutti i suoi dubbi sulle circostanze della morte di Francesco, e propende per l’ipotesi che potesse e dovesse essere assistito meglio, e certamente fuori dal carcere. Nella storia di Francesco emergono comunque dei dati di fatto: Francesco Di Dio veniva tenuto in carcere anche con la motivazione di rischi di attualità criminale, ma non aveva commesso reati in prigione e la Stidda è da anni organizzazione non più attiva; afflitto da grave malattia autoimmune, all’ultimo stadio, era persino mutilato di un piede; la relazione di una dottoressa di Milano ne attestava la necessità di cure esterne. Del resto, è lampante che il carcere non sia un ospedale, e, per quanto possa avere al suo interno alcuni presidi sanitari, nei fatti non può avere la stessa capacità di cura di una struttura esterna. L’ergastolo stesso, per essere distinto dalla pena di morte, non può essere inteso, logicamente, sempre nel senso di detenzione totalmente carceraria, ma deve prevedere almeno forme alternative, perché nei casi di persone molto malate, altrimenti, si rischia l’omesso soccorso, e quindi il negargli, a volte, possibilità di vita. Peraltro, una semplice richiesta di ricovero in centro clinico esterno è qualcosa di molto più basilare di un beneficio e può avvenire anche senza differimento ufficiale della pena, per intervento di direzione sanitaria di un carcere ed apporto di medici esterni: è quanto accaduto, ad esempio, dall’estate del 2020 nel caso di Raffaele Cutolo, che correttamente può essere così più adeguatamente curato, per le sue rilevanti patologie, tra cui una difficoltà a camminare, causata anche da problemi ai piedi per il diabete. Maria Di Dio chiedeva da mesi, altrettanta civiltà anche per Francesco, e tutt’ora chiede di potere vedere i filmati di sorveglianza del carcere, da mesi. Del resto, se davvero Francesco Di Dio fosse morto nel suo letto nel modo in cui è stato descritto, la possibile visione dei filmati non dovrebbe creare problemi. Più volte, comunque, le telecamere hanno chiarito delle situazioni: ad esempio, nel caso di abusi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, per le indagini riguardo le violenze a freddo, ai danni dei detenuti.

Ricciardi: “Chiedi chiarezza e piena verità sul caso di tuo nipote, Francesco Di Dio, purtroppo deceduto nel giugno 2020: detenuto da 30 anni continuativi (salvo una brevissima scarcerazione per decorrenza del termini di carcerazione preventiva, nel 1996), era gravemente malato per una malattia autoimmune, il morbo di Buerger, gli era stato amputato un piede. La direzione sanitaria  del carcere di Opera definiva le condizioni di salute di Francesco discrete, nonostante le sue difese immunitarie fossero bassissime, in tempi oltretutto di coronavirus, e lui fosse costretto con le stampelle. Puoi spiegare precisamente da cosa dipenda la mancata attuazione di tali misure?

 Di Dio: “Nell’ultima richiesta che abbiamo fatto, la responsabilità maggiore ce l’hanno il direttore  e la direzione sanitaria del carcere, perché secondo la circolare del 21 marzo del 2020 doveva essere il direttore  a segnalare al magistrato di sorveglianza chi stava particolarmente male e lui non lo fece; invece, in quel periodo fece uscire tante altre persone e l’unico che è morto è stato mio nipote. La direzione sanitaria  ha dichiarato che Francesco stava in discrete condizioni di salute, quando già in passato un primario specialista di Milano aveva scritto che il permanere nelle carceri per Francesco rappresentava un “alto rischio“. Inoltre c’è da rabbrividire dalla paura che in pieno lockdown in Lombardia i detenuti li hanno chiusi in celle separate  e  durante tutto il periodo mio nipote  non ha visto nessun medico.

Come si può lasciare un ragazzo gravemente malato senza medico?

E’ assurdo! Mio nipote non solo aveva bisogno di un medico, ma doveva essere monitorato costantemente.   Inoltre, durante una videochiamata chiesi a Francesco come mai non era stato inserito nell’elenco tra le persone che dovevano uscire: non rispose, abbassò la testa e venne richiamato dalla guardia. Una domanda semplice chiara, fatta da me, e per questo venne rimproverato mio nipote. Invece, nella penultima richiesta sono coinvolti tutti, perché il magistrato di sorveglianza ha tenuto conto solo della relazione del carcere e non ha tenuto conto della relazione medico specialistica, che dichiarava che Francesco era ad “alto rischio” e non poteva rimanere in carcere ma prospettare una diversa collocazione. Non riesco a capire l’accanimento che hanno avuto nei confronti di mio nipote, il carcere per qualsiasi istanza da noi presentata ci rispondeva che “loro erano in grado di gestire la malattia di mio nipote” Loro nei confronti di Francesco sono stati caini.” 

Ricciardi:  “Già prima della morte di Francesco, avevi “previsto” il grave rischio che correva, nonostante la direzione sanitaria del carcere avesse definito non prevedibile l’evento; cosa ti aveva fatto ipotizzare che invece le condizioni di Francesco rischiassero di precipitare? Ti eri rivolta anche a qualche persona esperta per una consulenza?”

Di Dio:  “Non è vero che non era prevedibile la morte di Francesco. Già nel  2016 un medico specialista di Milano aveva allertato il carcere e il magistrato sulle condizioni di Francesco, certificando che per Francesco   prospettava una diversa collocazione del carcere, in quanto era in una situazione precaria: l’arteriopatia agli arti inferiori di cui soffriva era in fase avanzata, e rappresentava una patologia ad ” alto rischio “sia in termini di sopravvivenza che di eventi acuti cardiovascolari oltre che distrettuali”. Francesco doveva vivere in un ambiente igienicamente controllato, dalle basse temperature e dall’umidità.  Inoltre, c’era bisogno di  medicazioni e una fisioterapia costante e continuativa, di cicli di terapia, controllo del dolore e di un monitoraggio delle condizioni distrettuali e generali, altrimenti avrebbe sofferto di dolori ingiustificati. Infatti diverse volte mio nipote mi riferiva che non sapevano gestire il suo dolore e che soffriva dolori inenarrabili, con urla fortissime. Nell’ultimo periodo, per la disperazione mi aveva chiesto di spedirgli un farmaco per attutire il dolore  e loro, che hanno sempre dichiarato di poter gestire la situazione, lo facevano urlare notte e giorno.”

Ricciardi:  “La direzione sanitaria del carcere ha definito i motivi della morte di Francesco naturali e non prevedibili, ma tu hai qualche dubbio sulle circostanze: perchè e se ci siano margini, di controllo, sull’operato della direzione del carcere? Inoltre, la famiglia Di Dio aveva richiesto l’acquisizione dei filmati di sorveglianza, nel giorno della morte di Francesco, ma non vi sono stati ancora forniti, almeno per il momento: perchè? Cercherete di insistere in questa richiesta, ed in che modo?”

Di Dio: “ Sì, perché chi muore di infarto in posizione supina, come ha dichiarato il carcere, non può avere degli ematomi sul viso. Fin dall’inizio abbiamo chiesto la video sorveglianza delle ultime 48 ore di vita di mio nipote Francesco Di Dio: ad oggi, dopo circa dopo otto mesi non ci è stata fornita.  La mia famiglia ed io insistiamo sulla richiesta della videosorveglianza per trasparenza, e poi se è morto come dicono loro, non dovrebbero esserci problemi. Dopo tante richieste da parte della stampa di rilasciare interviste e dopo circa otto mesi mi sono decisa di concedere intervista alla stampa proprio per questo motivo. Noi, famiglia Di Dio chiediamo fortemente la videosorveglianza alla magistratura di Milano che sta seguendo il caso di mio nipote.”

Ricciardi: “ Francesco era stato condannato all’ergastolo a soli 18 anni, per un grave fatto di sangue, nell’ambito della faida tra la Stidda (organizzazione rivale della mafia siciliana “tradizionale”) e Cosa Nostra: tuttavia, in carcere aveva aderito ad iniziative culturali e per la non violenza, ed aveva chiesto perdono, con tutto sé stesso, ad un membro dell’altra organizzazione, a sua volta in prigione per vari reati, che si era commosso: lo aveva in effetti perdonato, durante una iniziativa dell’associazione umanitaria “Nessuno tocchi Caino”. Eppure, le autorità statali, fino alla sua morte, e nonostante la disgregazione totale della Stidda, gli avevano negato tutti benefici, cioè le attenuazioni del grado di intensità della pena… Da cosa deriva, a tuo avviso, tale atteggiamento di completa chiusura?”

 Di Dio:  “Questa domanda me la sono posta tantissime volte anch’io e questa risposta ce  la dovrebbe dare la direzione del carcere. Io, ho avuto sempre l’impressione di un accanimento di cattiveria nei confronti di mio nipote, che peraltro gravemente ammalato. Tante è vero che aveva necessità della sedia a rotelle e non gliela hanno mai fornita. Personalmente io ho mandato e-mail al carcere in cui scrivevo che volevo regalare una sedia a rotelle ad un detenuto. Alla prima e-mail mi hanno risposto chiedendomi chi ero, ho risposto che ero la zia di Francesco Di Dio allegando la mia fotocopia di carta di identità, e da allora non mi hanno mai più risposto. Come devo definire questo tipo di atteggiamento se non sadico! Perché non solo non gliela fornivano loro, che sempre si sono sempre dichiarati in grado di gestire la malattia di Francesco e neanche hanno permesso a me di potergliela regalare: aggiungo che questa è violazione dei diritti umani .”