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settembre 27, 2020

L’UMANESIMO ETICO DEL COMUNISMO ESISTENZIALE DI ROSSANA ROSSANDA

“Il comunismo ha sbagliato. Ma non era sbagliato”. Questo, che è un aforisma davvero bello, esprime a un tempo, con concettosa e appassionata sintesi, il valore di verità che Rossana Rossanda, che l’ha concepito e detto, attribuiva al comunismo (al marxismo, in primis) e il giudizio critico sulla drammatica esperienza storica dell’URSS, dei Paesi di socialismo reale, iniziata nel 1917 con la Rivoluzione d’Ottobre e conclusasi con il crollo del Muro e la fine dell’URSS (1989-1991). In controluce, poi, allude al senso che Rossanda attribuiva alla sua vita stretta nella difficile eppur esaltante dialettica politico-esistenziale della grandezza di un ideale e della povertà della sue realizzazioni. Tuttavia sapeva che, nella nostra epoca, lei, per quello che era e sapeva di essere, non poteva concedersi il diritto di venir meno al compito di essere comunista, pur con le contraddizioni che la cosa recava con sé. “Non ci sono mai state mai state tante ineguaglianze nella storia”, disse nel 2012. E, infatti, al suo compito politico-esistenziale è rimasta fedele fino alla fine della sua vita, sopraggiunta nel suo appartamento a Roma, nella notte tra il 19 e il 20 di questo mese, dopo una grave crisi cardiaca a fine aprile, superata a stento. In quella notte di quasi autunno di una settimana fa, in silenzio, in modo appartato e discreto com’era nel suo stile signorile, si è addormentata nel sonno senza sogni. Del suo stile, ha dato fulgida prova nella sua vita splendida ma anche segnata da delusioni, emarginazioni, dolori e sconfitte. Che non l’avevano però spezzata, meno che mai piegata. Qualche anno fa, bloccata su una sedia a rotelle da un ictus, che la privò della metà del suo corpo, aveva scritto in “Quel corpo che mi abita” (2018): “Ho corso sempre, continuo a correre per capire un mucchio di cose (…). Quelli come me sono vissuti come una tessera del mosaico del mondo”. Aveva 96 anni, un’età reverente, ma forse, da circa cinque anni, era solo “corpo vivente, anima assente”, per dirla con Garcia Lorca, cioè da quando era morto il suo amatissimo compagno e consorte Karol Kewes Karol, un ebreo polacco, che aveva combattuto nell’Armata Rossa ed era tra i fondatori del “Nouvel Observateur”. Negli ultimi anni Karol, ormai cieco e malato, aveva trovato in Rossana, che lo aveva conosciuto a Roma nel 1964, la donna che, con le sue amorevoli e quasi materne cure e con sollecito affetto e vicinanza, ne aveva alleviato le sofferenze se non allungando, rendendo meno penoso il suo ultimo vivere. Ma “La ragazza del secolo scorso”, come si era autodefinita nel titolo della sua coinvolgente e famosa autobiografia del 2005 (secondo classificato al premio Strega, ma meritava il primo posto), del suo privato parlava molto di rado. Piccola e minuta d’aspetto, dolce e bella nel viso, dallo sguardo severo con malinconia inclinante a un sorriso di simpatia per i giovani e per il mondo, specie se alle prese con “il male di vivere”, riservata e schiva nel portamento senza mai essere algida e distante, questa colta e sensibile intellettuale dell’alta borghesia era una comunista appassionata e combattiva, dotata di fine e meditativo spirito critico e di profondo senso umano. Insomma, una donna intelligente, libera, riflessiva e appassionata, amante della libertà, della democrazia e dell’uguaglianza; una donna autenticamente di sinistra, ovvero ricca di cuore accompagnato e guidato da rigorosa ragione critica e investigante, una femminista convinta, refrattaria però al femminismo gridato e retorico, non foss’altro perché era consapevole che le ingiustizie del mondo non si fermano al pianeta donna e quindi – affermava con sentimento e ragione – bisogna impegnarsi e lottare per l’unico obiettivo che pone fine alle ingiustizie: il superamento del capitalismo.Antonio Gramsci, credo io, non avrebbe esitato nel considerare Rossana Rossanda una “intellettuale condensata”, una donna destinata a svolgere un ruolo di egemonia culturale e politica, riassumendo nella sua figura, in ottima modalità, la giornalista, la direttrice di giornale, l’organizzatrice e la promotrice di cultura, la scrittrice e la traduttrice, la dirigente politica rivoluzionaria. A darle i natali era stata la città istriana di Pola il 23 aprile 1924, che sarà annessa alla Jugoslavia nel 1947. Suo padre Luigi Rossanda era un affermato notaio, un anticlericale e irredentista convinto ma anche un uomo all’antica che parlava, oltre che in italiano, in latino, greco e tedesco, lingua in cui conversava con sua moglie. Ovvero, sua madre Anita, di vent’anni più giovane del marito, anche lei poliglotta, di indole aperta e cordiale, che apparteneva a una famiglia della ricca borghesia istriana, proprietaria di alcune isole del Carnaro, tra cui Fenara e Scoglio Cielo. La crisi economica mondiale del 1929 mandò quasi in rovina la famiglia Rossanda. Rossana – insieme alla sorella Marina, di tre anni più giovane di lei, morta nel 2000 – visse, dal 1930 per sei anni, presso una zia a Venezia, per riunirsi poi a suoi genitori, che si erano trasferiti a Milano. Nel capoluogo lombardo Rossana frequentò il liceo classico Manzoni, dove fu studentessa brillante e precoce così da conseguire la maturità classica con un anno di anticipo e con un’ottima votazione. Per gli studi universitari, scelse la facoltà di Filosofia presso la Statale e divenne allieva prediletta di Antonio Banfi, filosofo marxista, vicino al Partito Comunista Italiana e alla Resistenza antifascista. Di Banfi, sposò il figlio Roberto, dal quale si separò agli inizi degli anni Sessanta. Alla domanda di Antonio Gnoli (intervista “la Repubblica” del primo febbraio 2015): “Lei come è diventata comunista?”, Rossana Rossanda rispose: “Scegliendo di esserlo. La Resistenza ha avuto un peso. Come lo ha avuto il mio professore di estetica e filosofia Antonio Banfi. Andai da lui, giuliva e incosciente. Mi dicono che lei è comunista, gli dissi. Mi osservò incuriosito. Poi mi suggerì una lista di libri da leggere, tra cui Stato e rivoluzione di Lenin. Divenni comunista all’insaputa dei miei, soprattutto di mio padre. Quando lo scoprì si rivolse a me con durezza. Gli dissi che l’avrei rifatto cento volte. Avevo un tono cattivo, provocatorio. Mi guardò con stupore. Replicò freddamente: fino a quando non sarai indipendente dimentica il comunismo”.Rossana era una giovane coraggiosa e forte: partecipò alla Resistenza attivamente col nome di “Miranda”. Della Resistenza, evidenziò sempre la decisiva grandezza libertaria, senza tacerne però qualche ombra: “La Resistenza – disse – non fu tutta concordia e virtù. Neppure noi eravamo senza macchia”. La cosa non deve sorprendere. In questa grande donna, ciò che fece sempre aggio su tutto fu il bisogno, morale prima che teorico, di verità e, con esso, l’imperativo di comportarsi in coerenza con gli ideali libertari e umanitari del socialismo e del comunismo, senza cedere alle lusinghe e alle ragioni del potere.Dopo essersi laureata in filosofia e un breve impiego alla casa editrice Hoepli, Rossana Rossanda si iscrisse nel 1947 al PCI. In breve tempo divenne una funzionaria di partito e svolse in modo veramente ammirevole il compito, affidatole dal Partito, di rimettere in piedi la Casa della Cultura di Milano. Ben presto Palmiro Togliatti, Segretario Generale del PCI, chiamato “il Migliore”, la notò e la inserì nella delegazione dei comunisti italiani che partecipava a una conferenza di partiti comunisti a Mosca,. nel 1949. Di più e meglio: data la sua eccezionale intelligenza e cultura, divenne in pochi anni amica ed interlocutrice culturale, di Jean-Paul Sartre, Simone de Beavoir, Luis Aragon, Bertold Brecht, Luis Althusser, Michel Foucault. Manco a dirsi, la Rivoluzione ungherese del 1956 fu un evento traumatico per Rossanda come per tanti militanti comunisti, innanzitutto intellettuali. Nella “La ragazza del secolo scorso” scrive: “fu terribile Quei giorni mi vennero i capelli bianchi, è proprio vero che succede., avevo trentadue anni”. In precedenza c’era già stato il trauma del rapporto Kruscev che aveva rivelato, al XX Congresso, i crimini commessi da Stalin, A Togliatti non perdonò mai di aver taciuto, di non aver detto al partito la verità sull’URSS, anche se ne riconosceva l’elevata statura politica e la prestanza intellettual-culturale. E fu proprio Togliatti che nel 1963 la nominò, ad appena 39 anni, responsabile culturale del PCI, una carica di enorme prestigio. L’anno seguente, volle che fosse candidata al parlamento e che il partito si impegnasse a farla eleggere, cosa che puntualmente avvenne. Di Togliatti, quando era sua collaboratrice a “Rinascita”, la rivista culturale del PCI, Rossana ebbe a dire: “talvolta, all’improvviso, aveva lo sguardo di un uomo che viene dall’Inferno”, Dall’Inferno, ovviamente, dell’Unione Sovietica di Stalin, da cui, senza rinnegare il “legame di ferro” con l’URSS, Togliatti prese le distanze, elaborando la teoria della “via italiana al socialismo”, che trovò il suo convincente compimento con teorizzazione di Berlinguer del “valore universale della democrazia”. I demoni dello stalinismo erano, però, nell’essenza stessa dei movimenti e partiti comunisti. Rossana Rossanda li ritrovò, per capirci, nei comunicati delle brigate Rosse durante il sequestro Moro.. Lo scrisse in un articolo del 1978, destinato a diventare famoso. Affermò tra l’altro: “Chiunque sia stato comunista negli anni Cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle BR. Sembra di sfogliare l’album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria. Il mondo, imparavamo, allora, è diviso in due. Da una parte sta l’imperialismo, dall’altra il socialismo. L’imperialismo agisce come centrale unica del capitale monopolistico internazione (…) Vecchio o giovane che sia il tizio che maneggia la famosa Ibm (la macchina da scrivere usata dai brigatisti per i loro comunicati – nda), il suo schema è veterocomunismo puro”. Velenosa e cattiva fu la risposta, a nome del PCI, di Emanuele Macaluso. Questi, mentendo sapendo di mentire, replicò: “Io non so quale album conservi Rossana Rossanda : è certo che in esso non c’è la fotografia di Togliatti; né ci sono le immagini di milioni di lavoratori e di comunisti che hanno vissuto le lotte, i travagli e anche le contraddizioni di questi anni (…). Una tale confusione e distorsione delle nostre posizioni da parte degli anticomunisti di destra e di sinistra è veramente impressionante”..Ma procediamo con ordine cronologico. Dopo la morte di Togliatti (21 agosto 19649 ), Rossanda si andò sempre più facendo sue le posizioni movimentiste e di sinistra di Pietro Iingrao. Nel 1968 pubblicò un breve saggio, “L’anno degli studenti” in cui a esprimeva la sua vicinanza al movimento studentesco in cui vedeva una forza in grado di rinnovare e, addirittura, “un detonatore della rivoluzione” . Per la Sinistra ingraiana, Rossanda in prima fila, era ormai giunto il tempo di agire politicamente, così che diedero vita al “Manifesto”, una rivista mensile, il cui primo numero fu pubblicato il 23 giugno 1969. La loro battaglia per la democrazia interna era sacrosanta. Giusta era anche la critica alla timidezza del dissenso del PCI verso l’invasione della Cecoslovacchia del 21 agosto 1968, espresso nell’editoriale: “Praga è sola”. Più discutibile, e alla fine astratta, era l’idea che il PCI non avesse un modello di sviluppo da contrapporre a quello capitalistico, anche perché era una critica ispirata a un romantico utopismo che faceva intravedere la rivoluzione quasi dietro l’angolo. Nell’elaborazione politica di Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Aldo Natoli, Lucio Magri e Luciana Castellina, i leaders del “Manifesto”, confluivano l’eredità del comunismo di sinistra da Luxemburg in poi e la suggestione del Maggio francese e della Contestazione giovanile. Questo fascinoso ma astratto universo teorico faceva loro perdere la capacità d’analisi si stampo marxista dei processi storici del tempo storico in cui il PCI si trovava ad operare. Che non era per nulla quello della vigilia della rivoluzione; anzi, in Italia e altrove, le forze reazionarie ed eversive di destra erano in agguato. Già la formazione dei governi di centrosinistra era stata punteggiata da tentativi di colpi di Stato: 1960, Tambroni-Gronchi; 1964, Segni-DeLorenzo; 1970, Borghese-Andreotti; 1969, strage di Piazza Fontana. L’Italia, dopo i governi centristi del dopoguerra, ebbe sì il centrosinistra con Amintore Fanfani e Aldo Moro, ma si formò anche l’antistato criminal-mafioso andreottiano e doroteo. Sarebbe stato, comunque, un gran bene davvero che il PCI si fosse evoluto, fin dall’epoca del “Manifesto”, in senso democratico e socialista. Fu, invece, necessario attendere, dopo il golpe cileno del settembre 1973, la proposta del Compromesso storico di Berlinguer e poi l’eurocomunismo, teorizzato anch’esso da Berlinguer. Ma forse era già tardi. L’assassinio di Moro nel maggio del ’78 vanificò il tentativo di fare dell’Italia una vera democrazia e un “Paese normale”.L’avventura del dissenso libertario e di sinistra del “Manifesto” si concluse a fine novembre 1969 con la radiazione (un’espulsione ipocriticamente dissimulata) dei suo9i maggiori esponenti, Leggiamo come la presenta il “Progresso irpino” del 2 dicembre, il settimanale comunista diretto da me giovanissimo (25 anni), in prima pagina, in un corsivo di 20 righe riquadrate, di cui questo era il testo: “La richiesta di radiazione dal Partito per Natoli, Pintor, Rossana Rossanda e Magri, avanzata dalla direzione del PCI, ed accolta a stragrande maggioranza dal Comitato Centrale e dalla Commissione Centrale di Controllo, suscita in noi non poche perplessità, e non solo per i problemi che essa viene a creare nella vita del più grande partito operaio italiano, ma anche perché si accompagna ad altri due episodi non meno preoccupanti: l’arresto del direttore di«Potere operaio» (come ai tempi della Francia di Napoleone «il piccolo») e l’invito rivolto dall’Associazione degli Scrittori Sovietici al romanziere Solzenitsyn a uscire dalla sua patria – se lo desidera.Quello che più impressiona è la sensazione di un’ondata che tutte e tre queste vicende producono sulle nostre teste e di quanti, nella riunione del Comitato federale del Pci, avevamo votato – ed erano la maggioranza dei presenti – una mozione contro l’adozione di misure disciplinari nei confronti del compagni del «Manifesto».Ci domandiamo perché e dove si corra a passi tanto spediti, e come una simile corsa si possa compierla, anche se involontariamente, con la magistratura dello stato borghese”.Orgogli feriti? Abitudini inveterate dure a scomparire? Nessuno può dirlo, se solo si cerca di sollevare il velo della salvaguardia delle istituzioni, con cui è stato giustificato un atto del genere. Una sola cosa è certa: non è stata né una vittoria né del socialismo né della democrazia”. Autori del corsivo eravamo io e il professore Federico Biondi, entrambi componenti della segreteria provinciale del Partito, che difendevano il diritto al libero pensiero nel PCI. La Federazione comunista irpina subito reagì, convocando il Comitato federale e la Commissione federale di controllo che ci “processò”. Il sette dicembre fummo “sollevati” da tute le nostre cariche.Rossana Rossanda fu, insieme a Pintor, l’anima del “Manifesto”, trasformato in giornale, che diventò la coscienza critica della Sinistra, ma non ebbe mai presa tra le masse. Con il passare degli anni, venne sempre più alla luce quella che era la sostanza profonda del suo pensiero filosofico-politico. Tale pensiero può essere definito come umanesimo etico e un comunismo esistenziale. In essi convergono l’eticità della “Philia” universale, incarnata dall’eroina tebana Antigone, di sofoclea memoria; l’umanismo dell’esistenzialismo di Sartre per cui è l’uomo, con la sua vita, a darsi un’indole e un compito; temi dell’antropologia di San. Paolo e Sant’Agostino, da Rossanda definiti “pensatori assoluti”, e del teologo protestante Dietrich Bonhoeffer, da lei “amato e ammirato per il suo magistero e il suo sacrificio” (fu ucciso dai nazisti). Infatti, in “Anche per me” del 1987 Rossanda vede “la condizione dell’uomo, appesa tra vita e morte” in quanto “dato biologico, “astorico”. E’ questo il “residuo indistruttibile della sua sofferenza”, “limite oscuro, che incontra al limite del suo cammino”. E il comunismo allora? La “sua missione”, dice Rossanda, “non sta nel restituire l’uomo alla felicità, ma soltanto (soltanto!) liberarlo dalla intollerabilità dell’ingiustizia”.Dunque, non è erroneo dire che Rossana Rossanda lascia in eredità molte cose pregiate e belle – da pensare. Tra queste, due in particolare. La prima: la vita vale la pena di essere vissuta in nome della libertà e della dignità umana, i principi che fondano e migliorano la razza umana. La seconda cosa: non risolvendosi solo in una pur fulgida figura libertaria e critica, colta e umana della tragedia del comunismo, ci comunica pensieri, valori ed emozioni che ci aiutano ad affrontare la notte del mondo in cui ci dibattiamo e a cercare di costruire, come vuole la Bibbia, un mondo in cui sono rese nuove tutte le cose.Luigi Anzalone