di Carlo Formenti
Complice il tempo vuoto associato al lockdown vissuto a Milano, condizione che mi induce alla passività produttiva (a mille chilometri dalla mia casa di Lecce dove ho lasciato i libri, gli appunti e il computer in cui sono memorizzati la maggior parte dei miei lavori non posso leggere tutto ciò che mi serve, né tantomeno scrivere testi che vadano al di là di qualche post) da qualche settimana dedico quasi tutti giorni un paio d’ore alla lettura del Corriere della Sera che, assieme al Sole 24 Ore, è fonte preziosa di informazioni sulle reali intenzioni di chi comanda in questo Paese (sia pure per procura dei veri padroni, che stanno a Washington e Berlino). Queste letture mi ispirano alcuni dei lunghi post che leggete da qualche settimana su questa pagina. Spesso fra i commenti trovo quelli che sentenziano che non è il caso di perdere tempo ad analizzare nei dettagli certe posizioni perché “si sa”, “che altro ti vuoi aspettare da questa gente”, e via di questo passo. Ma sono atteggiamenti profondamente sbagliati, che Gramsci avrebbe duramente bacchettato come ottusi luoghi comuni : compito prioritario di chi si dice comunista è tenersi accuratamente aggiornato sugli umori, le trame, i progetti, pensieri e parole dell’avversario di classe che, se rispondono sempre agli stessi interessi, mutano in base a contingenze ed esigenze tattiche, perché l’egemonia si basa anche e soprattutto su questa “flessibilità mentale” del nemico, maturata in secoli di dominio, alla quale non ci si oppone con ottuse formulette ideologiche. Esaurito il pistolotto, passo all’analisi del numero di oggi, particolarmente ricco di spunti.
Dopo un fuoco di sbarramento di decine di articoli che preparavano il terreno all’attacco frontale contro il pericolo giallo, il foglio lombardo cala il pezzo da Novanta, ospitando il fondo a firma di Paolo Mieli, re dei sessantottini pentiti, riciclatosi, dopo avere esaurito il compito di direttore, come mediocre storico (Indro Montanelli, ancorché a sua volta dilettante in questo mestiere, aveva tempra ben diversa). “Sulla Cina troppe ambiguità”, recita il titolo del pezzo, che esordisce citando la voce del padrone, cioè quel New York Times che, pur essendo “uno dei quotidiani più ostili a Trump” (come se ciò rappresentasse una garanzia di “obiettività” e distanza dagli interessi geostrategici americani) accusa la Cina di “condurre una campagna di controinformazione globale per sviare le accuse legate allo scoppio della pandemia”. Il nodo del pezzo riguarda il fatto che la Ue, annota gongolante Mieli, dopo qualche incertezza iniziale, sembra decisa a schierarsi docilmente al fianco di Washington (il boss dev’essere rispettato e obbedito anche quando alla guida c’è un folle come Trump) nel chiedere alla Cina trasparenza e onestà (richiesta che avanzata da governi occidentali che hanno a loro volta manipolato cifre, nascosto la verità, ritardato interventi causando decina di migliaia di morti, suona francamente ridicola). Dopodiché il nostro passa a stigmatizzare la posizione “ambigua” del nostro Paese che, traviato dai Di Battista di turno (l’attacco ai cinque stelle fa il paio con quello del TG2 dell’altro giorno, in cui un delirante ex ambasciatore fascistoide li ha praticamente accusati di essere succubi di Xi Jinping) strizza l’occhio al celeste impero mentre vede nella Germania la “nostra peggiore nemica”. Conclusione: basta con questi tentennamenti è venuta l’ora di “far intendere ai nostri cugini (!!??) europei che, quando verrà il momento di premere su Pechino per far definitivamente luce sulle origini sulle origini del virus, l’Italia non si tirerà indietro cercando rifugio nelle consuete e ben note ambiguità”. Certo Mieli non è ambiguo: ci richiama seccamente al ruolo predefinito di arlecchino servitore di due padroni (Washington e Berlino). Ruolo storico che tre quarti di secolo fa ci ha visti servire Berlino prima della sconfitta, poi Washington, mentre oggi – secondo Mieli – dovrebbe indurci a servire entrambi contemporaneamente. Evidentemente, assai più della vicenda coronavirus, qui è in gioco la “lesa maestà” dell’accordo italiano con la Cina sulla via della seta, che ha irritato entrambi i padroni, ma soprattutto è in gioco il tentativo dell’Occidente neoliberista di sfruttare la crisi del coronavirus per scatenare la guerra fredda (e più avanti forse peggio) contro un competitor economico e politico che minaccia la sua secolare egemonia. Non a caso, sotto lo sproloquio di Mieli, troviamo in taglio basso un articolo del Segretario generale della Nato che rivendica di averci offerto molti più aiuti (disinteressati!!??) di quelli (interessati) che ci ha offerto la Cina. Complottismo? Sì, come quelli di Giulietto Chiesa, uno degli ultimi (se non l’ultimo) giornalista non prezzolato di questo Paese che vanta ormai uno dei sistemi informativi più asserviti del pianeta, venuto a mancare poco fa (a pagina 20 Antonio Ferrari ne traccia un profilo che ne riconosce ampiamente i meriti limitandosi a definire comoplottista la sua tesi sull’autoattentato americano delle Torri Gemelle, ma il titolista sceglie di evidenziare solo quella critica di poche righe titolando “Giulietto Chiesa, dalla critiche all’URSS al complottismo”). Chiudo segnalando un’intervista al politologo americano Ian Bremmer (pag 14) in cui questi riconosce esplicitamente che è in gioco la sopravvivenza stessa del capitalismo (“dobbiamo porci domande essenziali sulla sostenibilità del capitalismo basato sul libero mercato in una democrazia rappresentativa”). Come si vede per lorsignori il rischio è immenso, ecco perché sfoderano artigli sempre più affilati.