Karl Kautsy è stato sempre definito dai comunisti un “revisionista” e anche un “opportunista” traditore della causa dei lavoratori che introduceva nell’ortodossia comunista intransigente le “le idee borghesi”.
Per i comunisti ortodossi il presupposto di questa condanna nei confronti del grande teorico della seconda internazionale era che l’unica teoria possibile per interpretare gli interessi del proletariato era quella marxista-leninista. Tutte le altre teorie, ovviamente, erano espressione degli intellettuali borghesi.
Va osservato, però, che lo stesso Lenin in “Che fare?” riconosceva che le idee socialiste erano frutto dell’elaborazione teorica di intellettuali borghesi. Lenin, in maniera arbitraria, invece di concludere che, dati i presupposti, per la costruzione del socialismo sarebbe stata necessaria la collaborazione ed il contributo culturale proveniente da ogni parte della società, concludeva invece che solo la filosofia marxista esprimeva gli interessi dei lavoratori. Secondo questa visione solo il partito comunista era quella istituzione privilegiata che aveva il diritto di definire quali fossero gli interessi per i lavoratori. Questa singolare elaborazione teorica fu definita da Ignazio Silone “L’oppio del proletariato” Cioè quella droga ideologica che consentiva ai comunisti duri e puri di esercitare la loro personale dittatura sui lavoratori.
Si sono visti i risultati!
L a situazione che stiamo vivendo vede da una parte una destra arrogante e prevaricatrice che accettando l’idea liberista ne accentua i caratteri eversivi e illiberali dall’altra parte, invece, una sinistra sedicente socialdemocratica che utilizzando in maniera scorretta le idee socialdemocratiche accetta il liberismo e se ne fa alfiere.
Karl Kautsy fu un sincero democratico e un grande socialista. Per chi, come una parte del movimento socialista, si richiama ai principi espressi dalla nostra Carta Costituzionale e la difende e ne chiede l’attuazione, opponendosi ad un governo che invece ogni giorno ne calpesta i principi e cerca di imporre scelte antidemocratiche, Karl Kautsy può diventare un riferimento ideologico e morale (perché no?).
Nei suoi libri Karl Kautsy, In polemica con il bolscevismo, afferma che il proletariato è pronto per il potere “quando coloro che vogliono il socialismo sono diventati più forti di coloro che non lo vogliono”. Ovviamente perché ciò avvenga non si può non tener conto dello sviluppo economico “cioè dall’aumento del numero dei proletari, di coloro che hanno interesse al socialismo e dalla diminuzione dei capitalisti.” Karl Kautsy si schiera contro la violenza affermando che se il socialismo “ha profonde radici nelle masse” perché queste dovrebbero far uso della violenza dal momento che l’uso della violenza sarà necessaria “unicamente per tutelare la democrazia e non per sopprimerla.?” l’ostilità nei confronti del socialismo e perché interessi oggettivi non trovano un riconoscimento. “Quando ci sono liberi parlamenti- osserva Kautsy- ogni classe o partito può esercitare la più libera critica su ogni proposta di legge, indicarne le debolezze e anche farne conoscere l’ampiezza dell’ ostilità che eventualmente incontra tra il popolo”. Ecco perché la democrazia e nel nostro caso la Costituzione, va difesa come il metodo per affermare una società più giusta e solidale. Il governo Draghi appoggiato dalla Confindustria sta andando nella direzione opposta. All’indomani nelle recenti elezioni amministrative Draghi ha affermato che “ il Governo va avanti: l’azione del governo non può seguire il calendario elettorale” Come dire: gli strumenti della democrazia hanno solo la funzione notarile di certificare l’operato del governo senza per questo poter intervenire per discutere o controbattere alle decisioni del governo. D’altro canto quando la piazza si muove giustamente o meno il governo non esita a mandare in piazza la polizia con gli idranti e i manganelli. n questo quadro è chiaro che la destra eversiva trova spazio per aggredire la CGIL quale simbolo del mondo del lavoro. Ritornando a Kautsy e alla necessità di una terza via, ora più che mai è indispensabile e necessario stare attenti a non identificare il pensiero di Kautsy con la teoria e con la prassi di quei partiti che si definiscono socialisti o di derivazione socialdemocratica. infatti Kautsy “riconosce che la rivoluzione sociale alla quale aspira il proletariato non può essere condotta a compimento se esso non arriva a conquistare il potere politico” e Kautsy aggiunge “il proletariato non può arrivare al potere politico senza rivoluzione, senza un grosso cambiamento dei rapporti di forza nello Stato, ma semplicemente grazie a una tattica intelligente di collaborazione con i partiti borghesi vicini al proletariato, insieme ai quali si possa formare un governo di coalizione che nessuno dei partiti che compongono la coalizione potrebbe costituire da solo” e continua “il potere statale e soprattutto un organo del dominio di classe” e ancora “un partito proletario in un governo di coalizione borghese diventerà inevitabilmente complice delle azioni di repressione contro il proletario, la complicità in queste azioni lo farà disprezzare dal proletariato, ma al tempo stesso non gli servirà a conquistarsi la fiducia dei suoi alleati borghesi e gli impedirà di svolgere qualsiasi attività utile” .
Kautsky a differenza dei socialisti nostrani complici di governi ultraliberisti chiarisce che per lui la borghesia man mano che il proletariato aumenta “è tentata di provocare la guerra civile per paura della rivoluzione” e non è lontano il tempo che “ il borghese sarà capace di tutto e quanto maggiore sarà la sua paura, tanto più selvaggiamente esigerà del sangue.” in riferimento all’imperialismo Kautsy ammonisce” l’imperialismo non può essere condotto avanti senza forti armamenti, senza flotte che siano in grado di ingaggiare battaglie nei mari più lontani.” la realtà dei nostri giorni ha dato ragione al teorico della seconda internazionale.
Secondo Kautsky le riforme sociali e le misure di protezione del lavoro non sono più possibili e gli unici obiettivi che i lavoratori debbano tenere di mira sono la conquista dei diritti politici e un regime parlamentare effettivo suscettibile di essere usato un giorno dal proletariato come strumento per il suo dominio democratico di classe. “Finché questi compiti non saranno realizzati, esso non potrà sperare in alcun progresso riformistico di una certa importanza tenuto conto della crescita delle associazioni di imprenditori, dell’aumento dei prezzi dei generi alimentari, dell’afflusso di strati più arretrati di operai, del ristagno generale della legislazione per le riforme sociali, del crescere degli oneri dello Stato, che in gran parte vengono accollati al proletariato.” Sembra la fotografia di quello che sta accadendo ai giorni nostri grazie governo Draghi, che le due vie: la destra e la sinistra unite insieme in un abbraccio mortale, portano avanti sotto l’occhio benevolo della Confindustria. in questa situazione ogni alleanza con i partiti della borghesia, diventa una pura illusione.
Rileggendo Kautsky si può capire quanto diversa sia l’impostazione ideologica e politica dell’autore rispetto a quelle sinistre contemporanee che ne rivendicano l’eredità. Di fronte a un imperialismo sfrenato e dissennato che stiamo vivendo nella fase attuale certamente il pensiero di Kautsky non può risolvere tutti i problemi che si presentano ma nonostante ciò “la terza via” non può e non deve essere una utopia riservata a pochi intellettuali; dobbiamo invece domandarci se esiste ancora una terza via o non vi sono più alternative alla compromissione borghese.
Occorre cioè non rimettere in discussione il pensiero di Kautsky, ma integrare e attualizzare le sue analisi storico sociali. Occorre, cioè, liberarsi di quelle teorie che attribuiscono l’imperialismo e la guerra unicamente alle contraddizioni del capitalismo, sicché basta che i lavoratori mandino al governo i propri rappresentanti perché vengono eliminati tutti i contrasti. Rinunciare a percorrere la terza via e comportarsi e lavorare diversamente significherebbe intraprendere una via senza uscita che ci condannerebbe all’irrilevanza politica e a ricoprire il ruolo di compagni visionari e generosi destinati a gridare alla luna senza che ci sia nessuno che ci ascolti.
Il 13 gennaio 1921 il comitato esecutivo della terza internazionale inviava un telegramma alla direzione del Partito Socialista che si apprestava a celebrare il XVII° congresso nazionale.
Il telegramma firmato per la componente russa da Lenin, Bukarin, Trotsky, Lesowski, sulla base delle considerazioni che in Italia più che in ogni altro paese fossero maturi i tempi per una azione rivoluzionaria, nel condannare la frazione che faceva riferimento a Serrati, chiudeva il telegramma con la dichiarazione non negoziabile che “Il Partito comunista Italiano deve essere creato ad ogni modo” e concludeva “Abbasso il riformismo, viva il vero partito comunista italiano!” e nel contempo si chiedeva l’espulsione della frazione guidata da Filippo Turati.
Con queste premesse è difficile pensare che il congresso potesse andare diversamente da come effettivamente si svolse. Era la terza internazionale che pretendeva la scissione. Il giorno successivo, 15 gennaio si riunisce il comitato dei comunisti unitari e Serrati tiene una lunga conferenza sulla situazione in Russia e sulle direttive della Terza Internazionale.
Il sedici gennaio si inaugura ufficialmente il XVII° congresso del partito socialista italiano. Il Partito arriva a questo appuntamento diviso, confuso ed impotente incapace di scegliere tra la soluzione riformista e quella rivoluzionaria. La frazione comunista del Psi che aveva visto nell’occupazione delle fabbriche la premessa storica della rivoluzione proletaria nell’ottobre 1920 aveva elaborato a Bologna un manifesto programmatico firmato da Bordiga, Gramsci, Terracini e Bombacci. Questo manifesto venne poi confermato ad Imola il novembre successivo e divenne il punto discriminante fra l’ala rivoluzionaria e quella riformista al congresso di Livorno.
Al congresso quattromila sezioni rappresentate salutavo il relatore ufficiale Giovanni Bacci. L’oratore ricorda che ricorre l’anniversario dell’insurrezione armata di Spartacus e la ricorrenza della morte di Rosa Luxemburg uccisa insieme a Liebknecht, dai miliziani dei cosiddetti Freikorps, i gruppi paramilitari agli ordini del governo del socialdemocratico Friedrich Ebert.
E’ il tedesco Levi che accende la miccia della divisione. Ricordando la Luxemburg e Liebknecht afferma testualmente “Vi sono momenti in cui bisogna dividersi, chi è stato fratello oggi potrà non esserlo domani” e conclude il suo intervento dichiarando “il proletariato deve essere guidato da un partito comunista unico!”
Tranquilli nel portare il saluto della Federazione giovanile socialista afferma “oggi qui debbono essere bruciati i fantocci dell’unità!”
Per Graziadei l’esistenza delle condizioni per una lotta rivoluzionaria e l’impossibilità a far convivere in un partito l’anima socialdemocratica e quella comunista non può che portare ad una rottura per aderire alle tesi della terza internazionale.
Per evitare la scissione Serrati propone l’approvazione di venti dei ventuno punti posti dalla Terza Internazionale. L’ultimo punto quello che divenne lo spartiacque fra i comunisti ed il resto del partito fu l’espulsione dei riformisti di Turati e Matteotti.
La relazione di Lazzari apre il terzo giorno del congresso ed è un invito all’unità. “La frazione che vuole la scissione contrappone socialismo e comunismo!” e “La separazione che si vuole fare fra socialisti e comunisti è artificiale e artificiosa” Lazzari non dimentica di far osservare quanto possa essere dannosa una scissione che non sarebbe capita dagli operai e dai contadini. “Noi non abbiamo il diritto di distruggere tutto.” Di segno opposto la relazione di Terracini che afferma “il proletariato è pronto per la conquista del potere” e “Il partito socialista così come è congegnato non può compiere questa missione!”
Il 20 gennaio parla Amedeo Bordiga. Per Bordiga il riformismo è funzionale al capitalismo e quindi solo un’azione rivoluzionaria può liberare la classe operaia dall’oppressione capitalistica. In questo senso il partito socialista è incapace di sviluppare energie rivoluzionarie. Bordiga conclude il suo discorso affermando “A chi chiede cosa faremo noi rispondiamo che faremo ciò che fa Mosca …. non falliremo e prendiamo impegno di consacrare tutta la nostra opera alla lotta contro tutti gli avversari della rivoluzione, alla lotta per raggiungere l’ultima meta: la Repubblica dei Soviet in Italia!”
E’ Bordiga il regista della frazione scissionista, non Togliatti, che è rimasto a Torino, non Gramsci che non prende la parola durante il congresso.
Nella seduta pomeridiana è Turati a prendere la parola, con un discorso dal sapore antico e poco convincente parla e condanna la violenza come strategia per prendere il potere, ma in buona sostanza aspetta l’evolversi degli eventi.
Bombacci rivendicando la fedeltà alla Terza Internazionale parla di una scissione necessaria destinata a rimarginarsi dopo la rivoluzione imminente. Bombacci chiudendo il suo intervento dichiara “Usciamo dal partito, ma non dal socialismo, è’ la rivoluzione russa che ci chiama sotto la sua bandiera, perché l’opera dei soviet deve trionfare per tutta l’Internazionale.”
Il 21 gennaio la mozione unitaria vince il congresso non prima di un intervento ultimativo del delegato Kabaktchieff, il quale comunica che qualora non si dovesse votare per la mozione comunista il partito socialista italiano sarebbe fuori dalla Terza Internazionale.
Infine Bordiga invita la frazione Comunista, sconfitta dal congresso a sbattere la porta e ad andarsene. «I delegati che hanno votato la mozione comunista abbandonino la sala. Sono convocati alle undici al teatro San Marco per deliberare la costituzione del Partito Comunista».
Nel comunicato conclusivo del congresso è scritto “Il Partito Socialista Italiano sostiene che la rivoluzione in Italia nelle forme violente e distruggitrici volute dal comunismo con l’immediata formazione di tipo russo sarebbe destinata a crollare a breve scadenza ove mancasse la concorrente azione economica e politica del proletariato di alcuni paesi più ricchi durante l’immancabile precipitazione economica.”
L’articolo di fondo dell’Avanti del 22 gennaio analizza la scissione e le sue conseguenze. L’articolo presumibilmente firmato da Serrati afferma che la scissione è poca cosa difronte al più grave problema di capire “la posizione del proletariato dei vari paesi di fronte alla rivoluzione.” C’è da parte di Mosca la volontà di far precipitare “artificialmente” la situazione anziché analizzare gli avvenimenti. La scissione, denuncia l’articolo “avvenuta per atto d’imperio….ed è stata come un fenomeno d’importazione” E conclude “ Così mentre il capitalismo sferra il proprio attacco, la Terza Internazionale, anche la dove non era necessario, provoca la scissura dei socialisti, spezza il movimento, scioglie le file di coloro che le creano, ….Questo è l’errore, errore pratico, politico del quale i compagni della Terza Internazionale si renderanno conto quando sarà loro dimostrato….che non si violenta la storia e non si provocano artificialmente situazioni che non hanno la loro ragion d’essere nella realtà. “
“Non si violenta la storia! Frase potente e nello stesso tempo struggente.
Intanto arriva da Bologna la notizia che la camera del lavoro di Bologna e di Modena sono state incendiate dalle bande fasciste, nella mattina a Modena e la sera a Bologna sotto l’indifferenza delle forze dell’ordine. A Milano la libreria in cui si vendeva l’Avanti viene saccheggiata e distrutta. L’articolo si conclude con un appello all’unità “La scissione oggi nelle presenti circostanze è eminentemente reazionaria. Giova ai dominatori, spezza le reni al movimento di classe. Compagni restiamo uniti. E’ l’ora del pericolo.”
Mai allarme fu così fondato.
Il giorno successivo la direzione del Partito firma un appello ai lavoratori nel quale denuncia che la scissione è avvenuta solo per la forte volontà dei rappresentanti della Terza Internazionale e dichiara che la scissione favorirà esclusivamente le forze reazionarie che già sono all’opera.
Lasciando il Teatro Goldoni gli scissionisti cantando l’internazionale si avviano verso il Teatro San Marco dove viene celebrato il primo congresso del Partito Comunista “ Sezione dell’Internazionale comunista “ Fra tutti spicca la figura di Amedeo Bordiga capo effettivo del partito. Oggi si celebra il centesimo anno da quell’evento con grande e sospetta enfasi. La domanda che sorge spontanea è se quel partito nato al Teatro san Marco di Livorno è veramente il partito che oggi si celebra e soprattutto: fu vera gloria? Veramente quella scissione era necessaria per il movimento dei lavoratori? Va detto che la scissione di Livorno non nasce per caso essa è solo la certificazione di una lacerazione profonda che si era andata creando all’interno dl partito Socialisti negli anni precedenti. A Livorno si arriva con un’Italia scossa da una profonda crisi economica con una classe operaia che esce sconfitta dal biennio rosso. Nel 1917 il partito adottò un programma come base della sua azione per il dopoguerra. Chiedeva il suffragio universale, era favorevole alla repubblica, proponeva un vasto intervento economico con la promozione di una serie di lavori pubblici e con la bonifica delle terre incolte. Il giovane Amedeo Bordiga, aveva appena 28 anni, denunciò questo programma perché non si poneva il problema delle guerra. In realtà la sinistra di Bordiga, Bombacci, era decisamente rivoluzionaria e contro la guerra, mentre l’ala destra del partito sotto la guida di Filippo Turati aveva appoggiato apertamente lo sforzo bellico. Lo scoppio della rivoluzione russa entusiasmò la base del partito che si sentiva pronta per la rivoluzione, ma fra il dire e il fare……e poi non va dimenticato che nel 1919 le gerarchie vaticane autorizzarono don Sturzo a fondare un partito cattolico, che ebbe grosse adesioni soprattutto nel meridione. Gli attori di quel momento erano i Socialisti, cattolici, e la destra di D’Annunzio con Mussolini che cominciava a crescere deciso a prendersi la rivincita sui socialisti che lo avevano cacciato. In questo contesto nel congresso di Bologna i socialisti si pronunciarono decisamente in favore dell’opzione rivoluzionaria. “In Italia è iniziato il il periodo rivoluzionario di profonda trasformazione della società, che conduce ovunque all’abbattimento violento del dominio capitalista borghese.” Le elezioni dovevano servire solo per “agevolare l’abbattimento degli organi della dominazione borghese. “Il Partito aderì alla terza internazionale definita “l’organismo proletario mondiale che tali principi propugna e difende,” Da una parte quindi la ricerca di un collegamento con la base operaia per preparare la rivoluzione e dall’altra il lavoro all’interno delle istituzioni primo fra tutti il parlamento per portare avanti una implacabile opposizione per rendere impossibile il funzionamento dello stato borghese. Al fascino per ciò che era avvenuto in Russia si contrapponeva la consapevolezza da parte della maggioranza del partito dell’impreparazione dei lavoratori a affrontare l’avventura rivoluzionaria. A Bologna Bordiga usci sconfitto, come uscirà sconfitto dal congresso di Livorno. Non a caso la CGL nel 1919 aveva approvato un programma per la ricostruzione postbellica che chiedeva la repubblica, l’abolizione del senato, la rappresentanza proporzionale, l’abolizione della polizia politica, l’introduzione del referendum, e il controllo della politica estera da parte del parlamento. In più si chiedeva l’istituzione di una costituente, la riforma agraria e il controllo dell’industria da parte dello Stato. Un bel pacchetto di riforme, insomma. Questo programma fu respinto dalla destra di Turati e dall’ala rivoluzionaria fautrice dell’abbattimento violento dello stato. Mentre le altre organizzazioni sindacali (USI e Confederazioni italiana del lavoro) erano variamente composte la CGL era composta in maggior parte da quadri socialisti. Intanto il fascismo cresceva e D’Annunzio occupava Fiume e a conclusione del biennio rosso Giolitti affermava “«Ho voluto che gli operai facessero da sé la loro esperienza, perché comprendessero che è un puro sogno voler far funzionare le officine senza l’apporto di capitali, senza tecnici e senza crediti bancari. Faranno la prova, vedranno che è un sogno, e ciò li guarirà da pericolose illusioni.» Questa era la situazione quando si apre il congresso di Livorno e lo scontro fra le tre anime del partito: i comunisti puri, favorevoli all’espulsione dei riformisti, i comunisti unitari che volevano l’adesione al Komintern e accettavano la linea politica dettata da Mosca, ma erano contrari all’espulsione dei riformisti e infine i concentrazionisti contrari ad ogni espulsione e che miravano a salvare l’unità del partito. La vittoria andò al gruppo più forte: il gruppo di centro. Sia Lazzari che Serrati si recarono a Mosca per negoziare ma inutilmente perché il Komintern comprendeva il pericolo di un partito autonomista. Il congresso di Livorno fu una sconfitta per tutti i lavoratori, divisi e disorientati ed indeboliti dalle scelte di Bordiga: non a caso alle elezioni del maggio 1921 i comunisti ebbero solo 13 deputati ed il PSI risultò indebolito. Insomma la scissione fu per coloro che la organizzarono un fallimento, ma tale fallimento purtroppo non coinvolse solo i velleitari scissionisti ma l’intero movimento operaio che vide infrangere i propri tentativi di resistere all’onda fascista che cresceva con lo sciopero generale dell’agosto 1922. Dopo l’agosto 1922 la forza dei sindacati e dei socialisti era infranta. Con l’espulsione di Turati, reo di essersi recato al Quirinale per incontrare il re per discutere del nuovo governo, ratificata dal congresso di Roma, l’intero movimento socialista divenne l’ombra di quello che era stato pochi anni prima. Il 28 ottobre 1922 i fascisti marciano su Roma. Gli errori di una classe politica che ha preferito coltivare il sogno rivoluzionario ad una presa d’atto della situazione reale del movimento operaio furono riconosciuti dallo stesso Gramsci che nel 1923 come certifica Paolo Spriano nella sua storia del partito Comunista che scrive “Su questo aspetto è giunta presto un’autocritica da parte comunista . anche profonda perché non ha eluso il nesso tra la scissione e l’indebolimento della resistenza operaia all’offensiva dell’avversario di classe. Gramsci giungerà nel 1923 a collegare la vittoria fascista con il modo della scissione, ad annotare che non essere riusciti nel 1920/21 a portare l’Internazionale comunista la maggioranza del proletariato italiano è stato senza dubbio il più grande trionfo della reazione” e nel 1924 scriverà che da Imola fino a Livorno la frazione comunista si limitò “a battere sulle questioni formali di pura logica, di pura coerenza e, dopo, non seppe, costituito il nuovo partito continuare nella sua specifica missione, che era quella di conquistare la maggioranza del proletariato.” Se questo è vero forse è anche vero riguardo al PSI quello che scrive Gramsci nel marzo 1921 quando afferma “ ora i socialisti, posti di fronte alla storia hanno confermato la loro incapacità ad organizzare la classe operaia in classe dominante.” E soggiunge “dopo il congresso di Livorno il partito socialista si ridusse ad essere un partito di piccoli borghesi, di funzionari attaccati alla carica come l’ostrica allo scoglio capaci di qualsiasi vergogna e di qualsiasi infamia pur di non perdere la posizione occupata.” A chi dice aveva ragione Turati rispondo che non è vero, come non è vero che aveva ragione Bordiga e forse aveva ragione Gramsci quando afferma che “il movimento politico della sinistra sia esso socialista che comunista non è riuscito ad organizzare i lavoratori consentendo l’ascesa del fascismo.” Da una parte un partito sclerotico e arroccato su posizioni formali e dall’altra un partito settario gestito da Mosca. Quest’ultima considerazione ci porta a rispondere all’ultima domanda: quel partito nato al teatro S. Marco è lo stesso partito di cui quest’anno si celebra il centenario? Molti compagni socialisti hanno risposto di no ed io mi sento di condividere questa interpretazione. Il Partito nato a Livorno era il partito di Bordiga che “«definisce la classe, lotta per la classe, governa per la classe e prepara la fine dei governi e delle classi», ma aera anche il partito di Gramsci, entrato in carcere quando era il segretario del Pcd’I, e poi abbandonato a sé stesso. il partito comunista che abbiamo conosciuto è il partito di Togliatti che a Livorno non andò. E’ lo stesso Togliatti che ce ne dà testimonianza in una sua intervista pubblicata su “Trent’anni di storia italiana – (Einaudi 1975 pp. 365 e segg.)”. In questa testimonianza il PCI viene presentato non più come il partito che come diceva Bordiga di voler lottare per “ raggiungere l’ultima meta: la Repubblica dei Soviet in Italia!” Molto più realisticamente Togliatti dice “nel nostro paese sono presenti oggi alcuni elementi di fondo, di natura democratica avanzata, i quali ci consentono di andare avanti e sperare meglio per l’avvenire: il regime repubblicano, ,una Costituzione dal contenuto politico e sociale avanzato, la presenza di grandi organizzazioni popolari e di massa.” Egli poi definisce il PCI come un partito di democrazia e progresso.” Questo partito di democrazia e progresso non può assolutamente essere considerato l’erede di un gruppo di scismatici irrilevanti. In riferimento alla monarchia Togliatti afferma che all’indomani della svolta di Salerno si domandò che fare, la risposta fu “La nostra risposta fu accantoniamo il problema, dichiariamo solennemente tutti uniti che lo risolveremo quando tutta l’Italia sarà stata liberata e il popolo potrà essere consultato. Allora vi sarà un plebiscito, vi sarà un’assemblea costituente il popolo si libererà dell’Istituto monarchico e verrà proclamato quel regime repubblicano che era nelle nostre aspirazioni.” Il partito che Togliatti disegna rinuncia a a costruire la repubblica dei soviet e decide di combattere con le altre forze democratiche per ricostruire l’Italia su basi democratiche. Ancor più chiaramente Togliatti afferma” Quali erano i nostri obiettivi? La guerra(contro i tedeschi n.d.r.), l’unità della nazione, un governo di unità.” E ancora “Eravamo repubblicani, volevamo liberare l’Italia dalla monarchia….che doveva avvenire, secondo noi per via democratica, attraverso una consultazione democratica del popolo ed un voto popolare.” Riferendosi alla svolta di Salerno Togliatti afferma e queste sue affermazioni ci fanno comprendere ancora di più quanto fosse diverso il partito nuovo che Togliatti metteva in gioco che con il partito di Bordiga aveva in comune solo il nome “Nessuno conosceva più i partiti politici . Se ne era perduta, anche nelle masse popolari, la tradizione. Soprattutto poi quando si parlava di comunisti e socialisti era come parlare del demonio. Il veleno inoculato dal fascismo agiva ancora.” Venti anni di regime, le lotte partigiane, la repressione, l’esilio avevano abbattuto il muro che aveva diviso i socialisti e i comunisti e Togliatti parla dei due partiti come di una parte del movimento della sinistra poteva essere coesa. Dice Togliatti “Dovevamo abbattere questa barriera, affinchè venisse compreso da tutto il popolo che cosa erano e sono queste forze popolari avanzate, che così eravamo e siamo noi comunisti, i socialisti il partito d’azione.” Questo atto di onestà intellettuale deve essere rimarcato ed apprezzato perché Togliatti, malgrado quello che poi è accaduto, comprende che in una nazione lacerata dal fascismo, dalla guerra, dalla crisi economica, solo la solidarietà fra le forze politiche avanzate può portare l’Italia fuori dal Tunnel in cui Mussolini l’aveva portata. Continua Togliatti “ tra i sei partiti del CLN i socialisti e noi fummo in tutto questo periodo pienamente d’accordo, ed è questo un punto che intendo sottolineare, perché di grande importanza e perché oggi alle volte fa comodo dimenticarlo.” Per chiarire ogni dubbio circa il fatto che il PCI che si celebra in questi giorni non è nato cento anni fa ci viene in aiuto lo stesso Togliatti che afferma, rispondendo ad un funzionario americano presente in Italia all’epoca della svolta di Salerno “Molto modestamente invece gli feci osservare che noi lottavamo non per la Repubblica dei Soviet, ma perché l’Italia partecipasse alla guerra, cacciasse dal proprio territorio i tedeschi, distruggesse pienamente il fascismo e si costruisse niente altro che un regime democratico e repubblicano.” Il grande partito di massa che abbiamo conosciuto non ha nulla a che vedere con il gruppuscolo settario che provocò la scissione di Livorno. Grazie agli errori dei socialisti, che nel 1946 era ancora un partito di massa e alla capacità strategica di Togliatti quella saldatura fra i partiti popolari si incrinò con l’evolversi della situazione politica italiana per non mai più ricostituirsi. Oggi che i due più grandi partiti della sinistra non esistono più bisognerebbe domandarsi chi è perché, fingendo di ignorare la storia, ha dedicato tanto clamore mediatico a questo evento e perché costoro ignorano quel partito socialista che malgrado i suoi limiti ed i suoi errori subì la scissione di Livorno e malgrado ciò rimase per anni l’unico partito a difesa dei diritti dei lavoratori e che nel ’46 era ancora il secondo partito italiano. Bisognerebbe anche domandarsi perché Amedeo Bordiga padre fondatore del PCI e leader indiscusso del partito per i primi anni della sua vita venne cancellato dalla storia del PCI ed oggi viene del tutto ignorato. Ricordo a me stesso che Gramsci aveva stima e simpatia per il comunista napoletano. Queste risposte andrebbero date perché ancora oggi ci sono tantissimi italiani che hanno creduto nel comunismo e che meritano rispetto per una vita di coerenza agli ideali che hanno perseguito. L’attualità senza il PCI e senza il PSI ci fa intravedere un’Italia travolta dalla crisi economica in cui una destra arrogante rappresentata dalla Lega di Salvini, dai postfascisti della Meloni e dal partito di Berlusconi riesce facilmente ad arginare le pretese di un partito che nato dalle ceneri della DC e del PCI costituitosi ad imitazione del Partito democratico americano. L’Italia non ha bisogno di festeggiare un centenario che non esiste se non nella mente di chi ha escogitato questo diabolico tranello. l’Italia che non rinuncerà mai ad una democrazia faticosamente costruita deve essere vigile affinchè i demoni che la destra sta provando a risvegliare in Italia come nel resto del mondo non creino danni irreparabili all’impianto democratico nato dalla Costituzione. Al di là delle celebrazioni è la Costituzione “più bella del mondo” che va difesa provando a ricostruire una sinistra unita e coesa che non sia la pallida imitazione di sistemi politici che non ci appartengono. .
Il 21 agosto 1940 moriva il grande rivoluzionario, compagno di Lenin nell’ “assalto al cielo”
del 1917 in Russia, fondatore dell’Armata Rossa e della Quarta internazionale; vittima di un sicario del “più grande assassino di comunisti della storia”, Giuseppe Stalin.
Riproduciamo qui di seguito l’intervento che ha svolto il compagno Franco Grisolia all’iniziativa in ricordo di Trotsky svoltasi a Carrara il 6 agosto Settanta anni fa, il 20 agosto del 1940, l’agente stalinista Ramon Mercader, infiltratosi con l’inganno nella casa messicana di Trosky, colpiva a morte il grande rivoluzionario, il compagno di Lenin nella direzione della rivoluzione russa, il fondatore dell’Armata Rossa, il dirigente della Internazionale comunista alle sue origini, il principale teorico e leader della neonata IV Internazionale.