di Anonimo barlettano
Avvocato figlio di operai, nipote di contadini.
Nella vita di lavori ne ho fatti tanti, assai.
Garzone di macellerie, imbianchino e falegname. Vulcanizzatore di scarpe e rifinitore di tomaie. Idraulico, pizzaiolo, cameriere, elettricista, meccanico, carpentiere e contadino.
Sono cresciuto così, per strada, tra i quartieri più poveri ed emarginati della mia città, Barletta, quelli abbattuti in quegli anni dall’eroina, dalle siringhe nelle vene e decimati dall’AIDS, tra Santa Maria, Cifù e Zona Marango.
Per i capi di quei quartieri, ero “u student”, lo studente, il ragazzino miope con gli occhiali e la riga di lato tra i capelli, a cui chiedere cose e spiegazioni, e così è sempre stato tra casini, retate della Polizia e Carabinieri e risse varie, dalle quali però mi tenevano sempre fuori: “Tu adesso vai a casa a studiare”, mi dicevano.
E così è andata per tutti gli anni novanta, imparando tante cose ed evitandone tante altre.
Il mio ultimo lavoro è quello dell’avvocato dopo essermi laureato con 110 e lode all’Università di Bari e aver superato con il massimo dei voti anche l’esame di abilitazione. Per tutto devo solo ringraziare la mia famiglia.
Ogni lavoro che ho fatto mi ha lasciato qualcosa: mi ha lasciato conoscenza e tanta rabbia, rabbia per le disuguaglianze sociali ed economiche, rabbia di cui sono intriso io e la mia toga, che ho voluto indossare solo per lavoro e per difendere la mia gente dall’arroganza delle classi dominanti, per questo faccio l’avvocato, e gli altri avvocati, quelli che le servono, mi fanno solo schifo.
Questa rabbia scorre nelle mie vene, e la sento pulsare anche adesso che sto scrivendo queste parole nella consapevolezza che alimenterà tutte le mie azioni fino alla fine dei miei giorni.
grazie compagno di questa tua preziosa testimonianza