Posts tagged ‘filippo turati’

luglio 14, 2021

U tiempo d’è buone azioni è finito!

Di Beppe Sarno

Questo il grido delle guardie carcerarie convenute a Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020. Poi cominciò la mattanza da parte dei reparti speciali delle guardie carcerarie.

A seguito delle denunce dei parenti dei detenuti la magistratura ha preso severi provvedimenti disponendo ben 52 misure cautelari. La notizia ha fatto il giro del mondo e la classe politica si è variamente schierata. Matteo Salvini si è schierato subito dalla parte delle guardie affermando “sono venuto qui per dare solidarietà a tutte le forze dell’ordine.” Giorgia Meloni, a sua volta ha espresso fiducia e solidarietà nei confronti degli agenti.

Questi due personaggi sono oggi quelli che volano nei sondaggi e ricevono maggior consenso politico da parte degli elettori.  Certo la Lega e fratelli d’Italia non rappresentano altrettante coscienze e convinzioni, ma non possiamo negare che questi sondaggi non rappresentino la stato d’animo del paese in cui viviamo.

S. Maria Capua Vetere non è solo un problema carcerario ma è il frutto di un sentimento di paura che per molteplici circostanze circola nel paese.

Per questo motivo vengono approvate leggi che la coscienza collettiva in altri periodi non avrebbe accettato e siamo diventati succubi di scelte in politica estera quasi mai  in linea con gli interessi della collettività.

La democrazia esce sconfitta e si consegna alla prevalenza delle forze reazionarie le quali hanno già preso in mano il governo della nazione e si apprestano a farlo in maniera definitiva alle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento e del Senato.

S. Maria Capua Vetere rappresenta la  metafora di una situazione generalizzata di degrado delle istituzioni che suscitano preoccupazione quando vediamo i mass media( giornali, televisioni, giornali on-line) e organi politici che non solo non contrastano questa mentalità ma anzi la riprendono, la avvalorano e la diffondono, a volte, col pretesto della difesa della democrazia.

Senza questo retroterra i fatti di S. Maria Capua Vetere non si sarebbero potuti verificare.

Filippo Turati in un discorso tenuto a Montecitorio il 18 marzo 1904 disse che “Sovente ci gonfiamo le gote a parlare di emenda di colpevoli e le nostre carceri  sono fabbriche di delinquenti” che “ le carceri italiane rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta.”

Il successo del discorso di Turati convinse l’opinione pubblica che era giunto il momento per porre mano ad una radicale trasformazione del sistema penitenziario italiano. Ci pensò Alfredo Rocco a smentire Turati affermando nel 1930 che “ le pene concorrono con le misure di sicurezza nella lotta contro il reo” e che “l’emenda e la rieducazione del reo non sono le funzioni principali delle pene, si tratta invece di scopi secondari ed accessori.”

Fu l’Assemblea Costituente a mettere le cose a posto approvando l’art. 27 della Costituzione che stabilisce “ che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato.”

Tutti tentativi di riforma e le riforme avvenute dal 1947 ad oggi hanno di fatto conservato il principio punitivo come cardine di comportamento da tenere nei confronti del condannato, per non parlare del regolamento degli istituti di Prevenzione e pena che conserva nel suo corpo il principio generale punitivo della pena. In questa maniera la Costituzione viene di fatto  calpestata nella pratica quotidiana.

E’ inutile parlare di riforme ogni qual volta succedono fatti come quelli di S. Maria Capua Vetere o più in generale quando si constata che qualche male tormenta la nostra società e che occorre porvi rimedio se poi questo rimedio rimane nelle dichiarazioni indignate del ministro della Giustizia di turno, rispettabilissime ma destinate a rimanere come pura dichiarazione di sdegno.

Questa riforma che da più parti viene invocata spaventa se sono i governanti in carica a doverla promuovere ed approvare.

Per la riforma del codice di diritto canonico la Chiesa cattolica ha impiegato decenni coinvolgendo studiosi di tutto il mondo.

Per la riforma della giustizia, del codice penale e delle sue regole, del sistema carcerario occorrerebbe un serio studio da parte di professori universitari, magistrati, avvocati, sociologi, criminologi, pedagogisti, enti e associazioni degli stessi detenuti che si interessano concretamente della vita dei detenuti, delle guardie carcerarie  e, perchè no?, degli stessi detenuti, con il compito di offrire agli organi legislativi il frutto del loro lavoro collegiale. Questo metodo esprimerebbe correttamente la forma d’azione e il modo di vita di una società democratica in cui pur affidandosi al potere costituito le funzioni che le sono proprie, i cittadini vengono chiamati a contribuire alla soluzione dei problemi che interessa l’intera collettività.

Nel caso dei fatti di S. Maria Capua Vetere si tratta di un problema particolarmente grave per la nostra collettività che non si sente più oggi sufficientemente garantita dall’esistenza di quelle sbarre che dividono le cosiddette persone per bene dai cosiddetti delinquenti quando coloro che dovrebbero garantire il rispetto delle regole lo fanno con la violenza sistematica convinti dell’impunità e di un problema estremamente doloroso per quegli uomini che la società, senza troppo indagare sulla causa dei loro errori e sulle responsabilità della intera collettività, manda in quelle carceri dalle quali vengono restituiti alla comunità quasi sempre peggiori di quello che erano al momento della condanna.

giugno 4, 2021

Una rivoluzione promessa!

Di Hugo Girone

Per ben due volte Platone dovette scontrarsi con la realtà nel suo tentativo di costruire la città ideale. Una prima volta andò a Siracusa e fu venduto come schiavo e la seconda volta dovette darsela a gambe per salvarsi.

Tommaso Campanella che sognava la Città Celeste, dovette scontare 27 anni di carcere e Thomas Muntzer  in nome della “Nuova Gerusalemme” fu decapitato per ordine di  Filippo d’Assia, detto “il buono”. Karl Marx cambiò prospettiva e invece di sognare improbabili stati ideali, diede agli intellettuali il gravoso compito di cambiare il mondo, non di interpretarlo. (Tesi su Feuerbach,12) , perché “il razionale è reale” ed è l’azione rivoluzionaria che rende reale il razionale.

In Marcuse l’intellettuale riceve ascolto dalle masse e ne diventa forza trainante. Mannehim afferma che “le utopie sono spesso verità premature”. Infine Calamandrei definisce la nostra Carta Costituzionale “una rivoluzione promessa”. Abbiamo potuto constare che “l’uomo nuovo” promesso dal comunismo non è mai nato ed il paradiso comunista si è rivelato una truffa. L’isola immaginaria che Tommaso Moro descriveva non si è realizzata in terra e Stalin lo ha clamorosamente smentito facendo diventare quel sogno un incubo.

I Padri Costituenti delinearono le linee di uno Stato in cui libertà, democrazia e solidarietà trovassero piena attuazione.  Più volte abbiamo assistito al tentativo di modificare la Costituzione, più volte il tentativo è stato infruttuoso ma alcune pesanti bordate la Costituzione ha dovuto sopportarle. Come mai questa svolta autoritaria? Il liberismo non sopporta la democrazia, la finanza mondiale ha altri disegni. Nel 2013 era scritto in un documento della J.P. Morgan le costituzioni europee, nate dall’esperienza della lotta al fascismo, mostrano una forte influenza delle idee socialiste“. Liberatevi delle vostre costituzioni, ci chiede la finanza internazionale.

Che fare? Tendere a rendere universale l’esperienza della “Comune di Parigi” o più semplicemente e più concretamente attestarsi nella difesa dei valori costituzionali scritti in quella carta che Calamandrei chiamava “Rivoluzione Promessa?” La Comune di Parigi durò due mesi e dieci giorni e si concluse in un bagno di sangue e Parigi non era la Francia. La nostra Costituzione invece è stata scritta con il sangue dei martiri del fascismo a partire da Giacomo Matteotti ed è ancora lì.

Il reale è razionale diceva Karl Marx  ed è da qui che dobbiamo partire. Difendere i valori scritti nella nostra Costituzione antifascista e democratica significa difendere i diritti dei cittadini. Non ci illudiamo: la democrazia scritta nella Costituzione è ben lungi dall’essere concretamente attuata; nella fabbriche nei posti di lavoro non è mai entrata la democrazia. Anche quella che potremmo definire democrazia politica tende ad indebolirsi in maniera sempre più evidente attraverso gli strumenti che di volta in volta vengono messi in campo dal legislatore di turno perché debbono solo servire a  ridurre le minoranze all’impotenza. Diceva Ferrero (in Potere 1947) “nelle democrazie l’opposizione è un organo della sovranità popolare altrettanto vitale quanto il governo. Sopprimere l’opposizione significa sopprimere la sovranità del popolo.” Per ben due volte la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionali le leggi elettorali vigenti. Non è costituzionalmente corretta la legge per l’elezione de membri del Parlamento Europeo, non sono costituzionali buona parte delle leggi elettorali regionali che prevedendo soglie di sbarramento altissime combinate con abnormi premi di maggioranza  e queste leggi rendono le opposizioni inesistenti. Quel  cinquantuno per cento che vince sulla base delle leggi elettorali vigenti, cancella il restante 49 per cento. Se poi si considera che un buon cinquanta per cento non si reca a votare quel cinquantuno percento diventa poco più di un quarto.

Ecco come la democrazia in cui il popolo è sovrano, attraverso i  meccanismi  che il legislatore mette in campo per renderla operante fa scomparire il popolo sostituendo a questo una massa facilmente manipolabile.

Quod principi placuit, legis habet vigorem” diceva Ulpiano.

La riduzione dei parlamentari imporrà al legislatore di mettere mano alla legislazione elettorale al fine di un adeguamento dei collegi elettorali al numero ridotto dei candidati da eleggere.

Costantino Mortati in seno all’Assemblea Costituente propose di affermare nella costituzione il principio della rappresentanza proporzionale perché “ si tratta di vedere se e in quanto i principi elettorali influiscano sul funzionamento della Costituzione” e poi “la proporzionale costituisce un freno allo strapotere della maggioranza ed influisce anche, in senso positivo sulla stabilità governativa; infine che sussiste l’esigenza di coordinare le norme per l’elezione della prima e della seconda camera così da armonizzare le due rappresentanze.” Eliminare la proporzionale dalla Costituzione secondo Tosato “ porterebbe a dedurre che laddove non vi sia il sistema proporzionale, non sia nemmeno democrazia.” Antonio Giolitti all’epoca comunista affermò “Abbiamo proposto il sistema proporzionale come quello che riteniamo più idoneo e adeguato allo sviluppo della democrazia moderna”  e ancora “voglio ricordare la garanzia che il sistema elettorale costituisce per i diritti delle minoranze in particolare per il loro diritto ad essere rappresentate nel Parlamento e ad avere quell’influenza che corrisponde al loro peso e alla loro entità nella vita politica del paese.”  Togliatti che aveva le idee chiare in proposito di elezioni assunse una posizione ambigua e nel  feeling con  la Monarchia pasticciò una discutibile mediazione facendo cadere l’opzione  proporzionale  in Costituzione dando spazio alla destra liberalconservatrice. L’idea del proporzionale non nasce con Mortati. Infatti il sistema elettorale proporzionale è stato applicato per la prima volta, nel 1899, in Belgio. Nel 1907 fu adottato dal Il Regno svedese. Nel medesimo periodo ha trovato applicazione in alcuni Cantoni svizzeri e, nel 1914, venne adottato in Germania, limitatamente alle ventisei grandi circoscrizioni urbane.

In Italia il sistema elettorale proporzionale fu adottato nel 1919. Questa prima esperienza si dimostrò breve e tormentata. Il proporzionalismo venne abolito nel 1923 dalla Legge Acerbo.

In Italia, la dottrina proporzionalista della “giusta rappresentanza” fu inizialmente divulgata dall’Associazione per lo studio della rappresentanza proporzionale, fondata, il 16 maggio 1872, da esponenti del mondo liberalconservatore. Del Comitato promotore facevano parte, tra gli altri, Una rivoluzione promessa!e Attilio Murialti. Successivamente il proporzionalismo “partitico” fu sostenuto dall’’Associazione Proporzionalista, fondata a Milano nel 1911 da socialista Alessandro Schiavi, socialista. L’Associazione era diretta, oltre che dallo stesso Alessandro Schiavi, da Filippo Turati e Emilio Caldara, dai cattolici Filippo Meda, Leone Scolari, Stefano Cavazzoni e dal radicale Arnaldo Agnelli.

l’Associazione Proporzionalista Milanese affermava tra l’altro  “La Rappresentanza Proporzionale deve essere prima di tutto una rappresentanza per partiti che, adeguando l’origine alla funzione del deputato, garantisca il carattere politico dell’elezione e trasformi organicamente l’atomismo inorganico ed apolitico del localismo elettorale. Topografia politica e non politica topografica“.

Luigi Sturzo in un famoso articolo del 1925 dal titolo “La proporzionale risorgerà” affermò che “ Ecco perché nei popoli a struttura politica complessa, è necessario un regime elettorale che lasci al suffragio universale, la limpidezza della sua caratteristica e l’influsso della sua dinamica, e insieme dia la possibilità di un incanalamento delle varie forze discordi, su risultati politiche, rispondenti a diffusi stati di coscienza, di cultura e di interessi. Di qui la necessità della proporzionale ormai comune in tutta l’Europa Centrale.” Pietro Gobetti dedicò un intero numero del suo giornale “La Rivoluzione Liberale” alla causa proporzionalista.  Affermò Gobetti nel 1923  “Voglio la proporzionale come strumento rivoluzionario di formazione delle nuove classi dirigenti.” Ed anche “la proporzionale obbliga gli individui a battersi per una idea, vuole che gli interessi si organizzino, che l’economia sia elaborata dalla politica“.

Non c’è da illudersi la legge elettorale che verrà conterrà poco o nulla di proporzionale e molto di maggioritario ed  uninominale. Evidentemente, il sistema proporzionale è refrattario, non è utilizzabile contro la democrazia. Il difetto del proporzionale per i nostri governanti è quello di dare voce a tutti perché tende ad essere quanto più aderente al numero dei voti espressi. La natura del proporzionale implica uno sforzo affinché tutte le forze in campo presenti fra gli elettori possano trovare sbocco politico e una adeguata rappresentanza. È quindi la tecnica per tradurre il numero dei voti espressi dagli elettori in un numero proporzionale di eletti. Per essere rappresentato, un gruppo politico  deve raggiungere soltanto un numero minimo di voti. Se si pretende che la rappresentanza sia espressione delle opinioni individuali liberamente espresse e non già di una entità territoriale, di un ceto o di uno stato; se si desidera che il soggetto dell’atto elettorale siano gli elettori, suddivisi secondo le opinioni e non già appartenenti a un territorio arbitrariamente circoscritto; il proporzionalismo è il solo sistema elettorale in grado di supportare un tale diritto.  Quindi non illudiamoci la sinistra divisa e frammentata com’è,  assisterà impotente allo scempio della democrazia che Berlusconi, Monti, Letta, Renzi e infine Draghi hanno messo in atto giorno per giorno negli ultimi trent’anni. Le politiche antidemocratiche consentiranno ad uomini politici espressione della finanza internazionale di mantenere il proprio potere  privando le persone dei diritti civili e dei diritti economici, del diritto di scegliere il proprio destino. La legge Acerbo fu il primo passo del primo governo Mussolini non a caso scrutinio di lista con premio di maggioranza, poi il 17 gennaio 1925 legge elettorale uninominale con un turno. Il 17 maggio 1928 fu poi la volta della legge elettorale plebiscitaria ed infine nel 1924 e nel 34 gli elettori votarono per il listone predisposto dal Magnifico Duce.

Non c’è da stare tranquilli!

marzo 7, 2021

CARLO TOGNOLI, IL SINDACO AMATO DAI MILANESI PERCHE’ CON LORO SAPEVA IDENTIFICARSI

di Enrico Landoni

Il Sindaco più giovane nella storia di Milano. Quando il 12 maggio 1976 il Consiglio Comunale lo disegnò alla guida di Palazzo Marino, Carlo Tognoli aveva in effetti solo 38 anni. Decisamente pochi per i detrattori, tra i quali spiccavano allora i grandi nomi dell’intellighenzia ambrosiana e del giornalismo di punta, come Giorgio Bocca che, sulle pagine de L’Espresso, ebbe a definirlo addirittura una “mediocrità garantita, una persona insignificante, un oscuro funzionario». Ma davvero poco tempo sarebbe servito a Carlo Tognoli per dimostrare la mostruosità e la meschinità di questo errore di valutazione, commesso dai pochi, per fortuna, che non ne conoscevano il curriculum rigoroso e fitto, la dedizione, la passione e la formazione alla severa scuola del PSI. E che, con atteggiamento snobistico e per certi versi populista, già allora, ritenevano i partiti incapaci di selezionare adeguatamente la classe dirigente del paese, ignorando il valore etico della gavetta e l’importanza formativa del cursus honorum cui i partiti avviavano solo i quadri più dotati. E Carlo Tognoli è stato sicuramente uno di questi: consigliere e assessore a Cormano, poi segretario cittadino a Milano e quindi consigliere e assessore a Palazzo Marino, in un momento assai delicato per le continue fibrillazioni all’interno dell’ormai logora coalizione di centro-sinistra. Autonomista e riformista, Tognoli ha avuto in Filippo Turati, Emilio Caldara e Antonio Greppi, indimenticato Sindaco della Liberazione, i tre principali punti di riferimento, sul duplice fronte politico-cultural-identitario e amministrativo. Fedele interprete di questa tradizione e di questa storia, Carlo Tognoli, che fu anche un vivace giornalista, all’interno della redazione di Critica Sociale, è stato dunque capace di coniugare al meglio la visione politica con l’efficacia e l’efficienza realizzativa. Questo connubio ne ha fatto un amministratore concreto e un politico pragmatico, al contempo risoluto e aperto al dialogo e alla leale collaborazione con gli alleati e il PCI in particolare, durante la lunga stagione delle Giunte rosse. Alcune delle più importanti realizzazioni maturano infatti proprio nel quadro di questa collaborazione. Meritano una particolare citazione il Piano dei Trasporti del 1979, che spianò la strada alla realizzazione del Passante Ferroviario e della terza linea della metropolitana, il riscatto municipale dalla Montedison del servizio gas, perfezionato dallo storico vice di Carlo Tognoli, Elio Quercioli, l’avvio della metanizzazione, il lancio del teleriscaldamento, il varo del Piano Casa, ottimo esempio di collaborazione pubblico-privato, sotto il solido coordinamento politico del Comune. Ma non possono poi essere dimenticate le grandi mostre dedicate a Leonardo e all’arte degli anni Trenta. E, ancora, deve essere ricordata l’iniziativa Milano per Voi, concepita allo scopo di promuovere, attraverso un articolato programma di conferenze, i grandi temi dell’arte, della cultura, della scienza e dell’attualità presso il grande pubblico. Tognoli in realtà deve essere ricordato soprattutto come il Sindaco della doppia transizione vissuta dal capoluogo lombardo, a cavallo tra anni Settanta e Ottanta: quella del passaggio dalla stagione drammatica della violenza politica agli anni del dinamismo e della rinascita, riassunta dall’infelice e superficiale slogan “Milano da bere”; e quella del definitivo superamento della grande industrializzazione a beneficio del terziario avanzato. Di qui il difficile problema del governo delle aree dismesse, poi affrontato da Tognoli anche come Ministro per i Problemi delle Aree Urbane, prima di essere designato alla guida del dicastero del Turismo e dello Spettacolo. Dopo il 1992, le indagini giudiziarie, che squassarono in particolare il PSI, non risparmiarono naturalmente Tognoli, ora definitivamente uscito peraltro dal circuito della politica attiva. Con grande passione, nel 2003, si dedicò al primo incarico pubblico conferitogli dopo un lungo decennio di faticosa resilienza: quello di presidente del Museo della Scienza e della Tecnica di Milano. Seguì poi la nomina alla guida dell’ISAP, tradizionalmente legato alla cultura, all’identità e alla cultura socialista che, con Carlo Tognoli, perde un suo straordinario interprete.

gennaio 29, 2021

…. E se Gina non la pensasse come me?

Di Beppe Sarno

Il 13 gennaio 1921 il comitato esecutivo della terza internazionale inviava un telegramma alla direzione del Partito Socialista che si apprestava a celebrare il XVII° congresso nazionale.

Il telegramma firmato per la componente russa da Lenin, Bukarin, Trotsky, Lesowski, sulla  base delle considerazioni che in Italia più che in ogni altro  paese fossero maturi i tempi per una azione rivoluzionaria, nel condannare la frazione che faceva riferimento a Serrati, chiudeva il telegramma con la dichiarazione non negoziabile che “Il Partito comunista Italiano deve essere creato ad ogni modo” e concludeva “Abbasso il riformismo, viva il vero partito comunista italiano!”  e nel contempo si chiedeva l’espulsione della frazione guidata da Filippo Turati.

Con queste premesse è difficile pensare che il congresso potesse andare diversamente da come effettivamente si svolse. Era la terza internazionale che pretendeva la scissione. Il giorno successivo, 15 gennaio si riunisce il comitato dei comunisti unitari e Serrati tiene una lunga conferenza sulla situazione in Russia e sulle direttive della Terza Internazionale.

Il sedici gennaio si inaugura ufficialmente il XVII° congresso del partito socialista italiano.  Il Partito arriva a questo appuntamento diviso, confuso ed impotente incapace di scegliere tra la soluzione riformista e quella rivoluzionaria. La frazione comunista del Psi che aveva visto nell’occupazione delle fabbriche la premessa storica della rivoluzione proletaria nell’ottobre 1920 aveva elaborato a Bologna  un manifesto programmatico firmato da Bordiga, Gramsci, Terracini e Bombacci. Questo manifesto venne poi confermato ad Imola il novembre successivo e divenne il punto discriminante fra l’ala rivoluzionaria e quella riformista al congresso di Livorno.

Al congresso quattromila sezioni rappresentate salutavo il relatore ufficiale Giovanni Bacci. L’oratore ricorda che ricorre l’anniversario dell’insurrezione armata di Spartacus  e la ricorrenza della morte di  Rosa Luxemburg uccisa insieme a  Liebknecht, dai miliziani dei cosiddetti Freikorps, i gruppi paramilitari agli ordini del governo del socialdemocratico Friedrich Ebert.

E’ il tedesco Levi che accende la miccia della divisione. Ricordando la Luxemburg e Liebknecht afferma testualmente “Vi sono momenti in cui bisogna dividersi, chi è stato fratello oggi potrà non esserlo domani” e conclude il suo intervento dichiarando “il proletariato deve essere guidato da un partito comunista unico!”

Tranquilli nel portare il saluto della Federazione giovanile socialista afferma “oggi qui debbono essere bruciati i fantocci dell’unità!”

Per Graziadei l’esistenza delle condizioni per una lotta rivoluzionaria e l’impossibilità a far convivere in un partito l’anima socialdemocratica e quella comunista non può che portare ad una rottura per aderire alle tesi della terza internazionale.

Per evitare la scissione Serrati propone l’approvazione di venti dei ventuno punti posti dalla Terza Internazionale. L’ultimo punto quello che divenne lo spartiacque fra i comunisti ed il resto del partito fu l’espulsione dei riformisti di Turati e Matteotti. 

La relazione di Lazzari apre il terzo giorno del congresso ed è un invito all’unità. “La frazione che vuole la scissione contrappone socialismo e comunismo!” e  “La separazione che si vuole fare fra socialisti e comunisti è artificiale e artificiosa” Lazzari non dimentica di far osservare quanto possa essere dannosa una scissione che non sarebbe capita dagli operai e dai contadini. “Noi non abbiamo il diritto di distruggere tutto.” Di segno opposto la relazione di Terracini che afferma “il proletariato è pronto per la conquista del potere” e “Il partito socialista così come è congegnato non può compiere questa missione!”

Il 20 gennaio parla Amedeo Bordiga. Per Bordiga il riformismo è funzionale al capitalismo e quindi solo un’azione rivoluzionaria può liberare la classe operaia dall’oppressione capitalistica. In questo senso il partito socialista è incapace di sviluppare energie rivoluzionarie. Bordiga conclude il suo discorso affermando “A chi chiede cosa faremo noi rispondiamo che faremo ciò che fa Mosca …. non falliremo e prendiamo impegno di consacrare tutta la nostra opera alla lotta contro tutti gli avversari della rivoluzione, alla lotta per raggiungere l’ultima meta: la Repubblica dei Soviet in Italia!”

E’ Bordiga il regista della frazione scissionista, non Togliatti, che è rimasto a Torino, non Gramsci che non prende la parola durante il congresso.

Nella seduta pomeridiana è Turati a prendere la parola, con un discorso dal sapore antico e poco convincente parla e condanna la violenza come strategia per prendere il potere, ma in buona sostanza aspetta l’evolversi degli eventi.

Bombacci rivendicando la fedeltà alla Terza Internazionale parla di una scissione necessaria destinata a rimarginarsi dopo la rivoluzione imminente. Bombacci chiudendo il suo intervento dichiara “Usciamo dal partito, ma non dal socialismo, è’ la rivoluzione russa che ci chiama sotto la sua bandiera, perché l’opera dei soviet deve trionfare per tutta l’Internazionale.”

Il 21 gennaio la mozione unitaria vince il congresso non prima di un intervento ultimativo del delegato Kabaktchieff, il quale  comunica che qualora non si dovesse votare per la mozione comunista il partito socialista italiano sarebbe fuori dalla Terza Internazionale.

Infine Bordiga  invita la frazione Comunista, sconfitta dal congresso  a sbattere la porta e ad andarsene. «I delegati che hanno votato la mozione comunista abbandonino la sala. Sono convocati alle undici al teatro San Marco per deliberare la costituzione del Partito Comunista».

Nel comunicato conclusivo del congresso è scritto “Il Partito Socialista Italiano sostiene che la rivoluzione in Italia nelle forme violente e distruggitrici volute dal comunismo con l’immediata formazione di tipo russo  sarebbe destinata a crollare a breve scadenza ove mancasse la concorrente azione economica e politica del proletariato di alcuni paesi più ricchi durante l’immancabile precipitazione economica.”

L’articolo di fondo dell’Avanti del 22 gennaio analizza la scissione e le sue conseguenze. L’articolo presumibilmente firmato da Serrati afferma che la scissione è poca cosa difronte al più grave problema di capire “la posizione del proletariato dei vari paesi di fronte alla rivoluzione.” C’è da parte di Mosca la volontà di far precipitare “artificialmente” la situazione anziché analizzare gli avvenimenti. La scissione, denuncia l’articolo  “avvenuta per atto d’imperio….ed è stata come un fenomeno d’importazione” E conclude “ Così mentre il capitalismo sferra il proprio attacco, la Terza Internazionale, anche la dove non era necessario, provoca la scissura dei socialisti, spezza il movimento, scioglie le file di coloro che le creano, ….Questo è l’errore, errore pratico, politico del quale i compagni della Terza Internazionale si renderanno conto quando sarà loro dimostrato….che non si violenta la storia e non si provocano  artificialmente situazioni che non hanno la loro ragion d’essere nella realtà. “

“Non si violenta la storia! Frase potente e nello stesso tempo struggente.

Intanto arriva da Bologna la notizia che la camera del lavoro di Bologna e di Modena sono state incendiate dalle bande fasciste, nella mattina a Modena e la sera a Bologna sotto l’indifferenza delle forze dell’ordine. A Milano la libreria in cui si vendeva l’Avanti viene saccheggiata e distrutta. L’articolo si conclude con un appello all’unità “La scissione oggi nelle presenti circostanze è eminentemente reazionaria. Giova ai dominatori, spezza le reni al movimento di classe. Compagni restiamo uniti. E’ l’ora del pericolo.”

Mai allarme fu così fondato.

Il giorno successivo la direzione del Partito firma un appello ai lavoratori nel quale denuncia  che la scissione è avvenuta solo per la forte volontà dei rappresentanti della Terza Internazionale e dichiara che la scissione favorirà esclusivamente le forze reazionarie che già sono all’opera.

Lasciando il Teatro Goldoni gli scissionisti cantando l’internazionale si avviano verso il Teatro San Marco  dove viene celebrato il primo congresso del Partito Comunista “ Sezione dell’Internazionale comunista “ Fra tutti spicca la figura di Amedeo Bordiga capo effettivo del partito. Oggi si celebra il centesimo anno da quell’evento con grande e sospetta enfasi. La domanda che sorge spontanea è se quel partito nato al Teatro san Marco di Livorno è veramente il partito che oggi si celebra e soprattutto: fu vera gloria?  Veramente quella scissione era necessaria per il movimento dei lavoratori? Va detto che la scissione di Livorno non nasce per caso essa è solo la certificazione di una lacerazione profonda che si era andata creando all’interno dl partito Socialisti negli anni precedenti. A Livorno si arriva con un’Italia scossa da una profonda crisi economica  con una classe operaia che esce sconfitta dal biennio rosso. Nel 1917 il partito adottò un programma  come base della sua azione per il dopoguerra. Chiedeva il suffragio universale, era favorevole alla repubblica, proponeva un vasto intervento economico con la promozione di una serie di lavori pubblici e con la bonifica delle terre incolte. Il giovane Amedeo Bordiga, aveva appena 28 anni, denunciò questo programma  perché non si poneva il problema delle guerra. In realtà la sinistra di Bordiga, Bombacci, era decisamente rivoluzionaria  e contro la guerra, mentre l’ala destra del partito sotto la guida di Filippo Turati aveva appoggiato apertamente lo sforzo bellico.  Lo scoppio della rivoluzione russa entusiasmò la base del partito che si sentiva pronta per la rivoluzione, ma fra il dire e il fare……e  poi non va dimenticato che nel 1919 le gerarchie vaticane autorizzarono don Sturzo a fondare un partito cattolico, che ebbe grosse adesioni soprattutto nel meridione. Gli attori di quel momento erano i Socialisti,  cattolici, e la destra di D’Annunzio con Mussolini che cominciava a crescere  deciso a prendersi la rivincita sui socialisti che lo avevano cacciato. In questo contesto nel congresso di Bologna i socialisti si pronunciarono decisamente in favore dell’opzione rivoluzionaria. “In Italia è iniziato il il periodo rivoluzionario di profonda trasformazione della società, che conduce ovunque all’abbattimento violento del dominio capitalista borghese.” Le elezioni dovevano servire solo per “agevolare l’abbattimento degli organi della dominazione borghese. “Il Partito aderì alla terza internazionale definita “l’organismo proletario mondiale che tali principi propugna e difende,” Da una parte quindi la ricerca di un collegamento con la base operaia per preparare la rivoluzione e dall’altra il lavoro all’interno delle istituzioni primo fra tutti il parlamento per portare avanti una implacabile opposizione per rendere impossibile il funzionamento dello stato borghese. Al fascino per ciò che era avvenuto in Russia si contrapponeva la consapevolezza da parte della maggioranza del partito dell’impreparazione dei lavoratori a affrontare l’avventura rivoluzionaria. A Bologna Bordiga usci sconfitto, come uscirà sconfitto dal congresso di Livorno. Non a caso la CGL nel 1919 aveva approvato un programma per la ricostruzione postbellica che chiedeva la repubblica, l’abolizione del senato, la rappresentanza proporzionale, l’abolizione della polizia politica, l’introduzione del referendum, e il controllo della politica estera da parte del parlamento. In più si chiedeva l’istituzione di una costituente, la riforma agraria e il controllo dell’industria da parte dello Stato. Un bel pacchetto di riforme, insomma. Questo programma fu respinto dalla destra di Turati e dall’ala rivoluzionaria fautrice dell’abbattimento violento dello stato. Mentre le altre organizzazioni sindacali (USI e Confederazioni italiana del lavoro) erano variamente composte la CGL era composta in maggior parte da quadri socialisti. Intanto il fascismo cresceva e D’Annunzio occupava Fiume e a conclusione del biennio rosso Giolitti affermava “«Ho voluto che gli operai facessero da sé la loro esperienza, perché comprendessero che è un puro sogno voler far funzionare le officine senza l’apporto di capitali, senza tecnici e senza crediti bancari. Faranno la prova, vedranno che è un sogno, e ciò li guarirà da pericolose illusioni.»   Questa era la situazione quando si apre il congresso di Livorno e lo scontro fra le tre anime del partito: i comunisti puri, favorevoli all’espulsione dei riformisti, i comunisti unitari che volevano l’adesione al Komintern e accettavano la linea politica dettata da Mosca,  ma erano contrari all’espulsione dei riformisti e infine i concentrazionisti contrari ad ogni espulsione e che miravano a salvare l’unità del partito. La vittoria andò al gruppo più forte: il gruppo di centro. Sia Lazzari che Serrati si recarono a Mosca per negoziare ma inutilmente perché il Komintern comprendeva il pericolo di un partito autonomista. Il congresso di Livorno fu una sconfitta per tutti i lavoratori, divisi e disorientati ed indeboliti dalle scelte di Bordiga: non a caso alle elezioni del maggio 1921 i comunisti ebbero solo 13 deputati ed il PSI risultò indebolito. Insomma la scissione fu per coloro che la organizzarono un fallimento, ma tale fallimento purtroppo non coinvolse solo i velleitari scissionisti ma l’intero movimento operaio che vide infrangere i propri tentativi di resistere all’onda fascista che cresceva con lo sciopero generale dell’agosto 1922. Dopo l’agosto 1922 la forza dei sindacati e dei socialisti era infranta. Con l’espulsione di Turati, reo di essersi recato al  Quirinale per incontrare il re  per discutere del nuovo governo, ratificata dal congresso di Roma, l’intero movimento socialista divenne l’ombra   di quello che era stato pochi anni prima. Il 28 ottobre 1922 i fascisti marciano su Roma. Gli errori di una classe politica che ha preferito coltivare il sogno rivoluzionario ad una presa d’atto della situazione reale del movimento operaio furono riconosciuti dallo stesso Gramsci che nel 1923 come certifica Paolo Spriano nella sua storia del partito Comunista che scrive “Su questo aspetto è giunta presto un’autocritica da parte comunista . anche profonda perché non ha eluso il nesso tra la scissione e l’indebolimento della resistenza operaia all’offensiva dell’avversario di classe. Gramsci giungerà nel 1923 a collegare la vittoria fascista con il modo della scissione, ad annotare che non essere riusciti nel 1920/21 a portare l’Internazionale comunista la maggioranza del proletariato italiano è stato senza dubbio il più grande trionfo della reazione” e nel 1924 scriverà che da Imola fino a Livorno la frazione comunista si limitò “a battere sulle questioni formali di pura  logica, di pura coerenza e, dopo, non seppe, costituito il nuovo partito continuare nella sua specifica missione, che era quella di conquistare la maggioranza del proletariato.”  Se questo è vero forse è anche vero  riguardo al PSI quello che scrive Gramsci nel marzo 1921 quando afferma “ ora i socialisti, posti di fronte alla storia hanno confermato la loro incapacità ad organizzare la classe operaia in classe dominante.” E soggiunge “dopo il congresso di Livorno il partito socialista si ridusse ad essere un partito di piccoli borghesi, di funzionari attaccati alla carica come l’ostrica allo scoglio capaci di qualsiasi vergogna e di qualsiasi infamia pur di non perdere la posizione occupata.” A chi dice aveva ragione Turati rispondo che non è vero, come non è vero che aveva ragione Bordiga e forse aveva ragione Gramsci quando afferma che “il movimento politico della sinistra sia esso socialista che comunista non è riuscito ad organizzare i lavoratori  consentendo l’ascesa del fascismo.” Da una parte un partito sclerotico e arroccato su posizioni formali e dall’altra un partito settario gestito da Mosca. Quest’ultima considerazione ci porta a rispondere all’ultima domanda: quel partito nato al teatro S. Marco   è lo stesso partito di cui quest’anno si celebra il centenario? Molti compagni socialisti hanno risposto di no ed io mi sento di condividere questa interpretazione.  Il Partito nato a Livorno era il partito di Bordiga che “«definisce la classe, lotta per la classe, governa per la classe e prepara la fine dei governi e delle classi», ma aera anche il partito di Gramsci, entrato in carcere quando era il segretario del Pcd’I, e poi abbandonato a sé stesso. il partito comunista che abbiamo conosciuto è il partito di Togliatti che a Livorno non andò. E’ lo stesso Togliatti che ce ne dà testimonianza in una sua intervista pubblicata  su “Trent’anni di storia italiana – (Einaudi 1975 pp. 365 e segg.)”. In questa testimonianza il PCI viene presentato non più come il partito che come diceva Bordiga  di voler lottare per “ raggiungere l’ultima meta: la Repubblica dei Soviet in Italia!” Molto più realisticamente Togliatti  dice “nel nostro paese sono presenti oggi alcuni elementi di fondo, di natura democratica avanzata, i quali ci consentono di andare avanti e sperare meglio per l’avvenire: il regime repubblicano, ,una Costituzione dal contenuto politico e sociale avanzato, la presenza di grandi organizzazioni popolari e di massa.” Egli poi definisce il PCI come un partito di democrazia e progresso.” Questo partito di democrazia e progresso non può assolutamente essere considerato l’erede di un gruppo di scismatici irrilevanti. In riferimento alla monarchia Togliatti afferma che all’indomani della svolta di Salerno si domandò che fare, la risposta fu “La nostra risposta fu accantoniamo il problema, dichiariamo solennemente tutti uniti  che lo risolveremo quando tutta l’Italia sarà stata liberata e il popolo potrà essere consultato. Allora vi sarà un plebiscito, vi sarà un’assemblea costituente il popolo si libererà dell’Istituto monarchico e verrà proclamato quel regime repubblicano che era nelle nostre aspirazioni.” Il partito che  Togliatti disegna  rinuncia a a costruire la repubblica dei soviet e decide di combattere con le altre forze democratiche per  ricostruire l’Italia su basi democratiche. Ancor più chiaramente Togliatti afferma” Quali erano  i nostri obiettivi?  La guerra(contro i tedeschi n.d.r.), l’unità della nazione, un governo di unità.” E ancora “Eravamo repubblicani, volevamo liberare l’Italia dalla monarchia….che doveva avvenire, secondo noi per via democratica, attraverso una consultazione democratica del popolo ed un voto popolare.” Riferendosi alla svolta di Salerno Togliatti afferma  e queste sue affermazioni ci fanno comprendere ancora di più quanto fosse diverso il partito nuovo che Togliatti metteva in gioco che con il partito di Bordiga aveva in comune solo il nome “Nessuno conosceva più i partiti politici . Se ne era perduta, anche nelle masse popolari, la tradizione. Soprattutto poi quando si parlava di comunisti e socialisti era come parlare del demonio. Il veleno inoculato dal fascismo agiva ancora.” Venti anni di regime, le lotte partigiane, la repressione, l’esilio avevano abbattuto il muro che aveva diviso i socialisti e i comunisti e Togliatti parla dei due partiti come di una parte del movimento della sinistra   poteva essere coesa. Dice Togliatti “Dovevamo abbattere questa barriera, affinchè venisse compreso da tutto il popolo che cosa erano e sono queste forze popolari avanzate, che così eravamo e siamo noi comunisti, i socialisti il partito d’azione.” Questo atto di onestà intellettuale deve essere rimarcato ed apprezzato perché Togliatti, malgrado quello che poi è accaduto,  comprende che in una nazione lacerata dal fascismo, dalla guerra, dalla crisi economica, solo la solidarietà fra le forze politiche avanzate può portare l’Italia fuori dal Tunnel in cui Mussolini l’aveva portata. Continua Togliatti “ tra i sei partiti del CLN i socialisti e noi fummo in tutto questo periodo pienamente d’accordo, ed è questo un punto che intendo sottolineare, perché di grande importanza e perché oggi alle volte fa comodo dimenticarlo.” Per chiarire ogni dubbio circa il fatto che il PCI che si celebra in questi giorni non è nato cento anni fa ci viene in aiuto lo stesso Togliatti che afferma, rispondendo ad un funzionario americano presente in Italia all’epoca della svolta di Salerno “Molto modestamente invece gli feci osservare che noi lottavamo non per la Repubblica dei Soviet, ma perché l’Italia partecipasse alla guerra, cacciasse dal proprio territorio i tedeschi, distruggesse pienamente il fascismo e si costruisse niente altro che un regime democratico e repubblicano.” Il grande partito di massa che abbiamo conosciuto non ha nulla a che vedere con il gruppuscolo settario che provocò la scissione di Livorno. Grazie agli errori dei socialisti, che nel 1946 era ancora un partito di massa e alla capacità strategica di Togliatti quella saldatura fra i partiti popolari si incrinò con l’evolversi della situazione politica italiana per non mai più ricostituirsi. Oggi che i due più grandi partiti della sinistra non esistono più bisognerebbe domandarsi chi è perché, fingendo di ignorare la storia, ha dedicato tanto clamore mediatico a questo evento e perché costoro ignorano quel partito socialista che malgrado i suoi limiti ed i suoi errori subì la scissione di Livorno e malgrado ciò rimase per anni l’unico partito   a difesa dei diritti dei lavoratori e che nel ’46 era ancora il secondo partito italiano. Bisognerebbe anche domandarsi perché Amedeo Bordiga padre fondatore del PCI e leader indiscusso del partito per i primi anni della sua vita venne cancellato dalla storia del PCI ed oggi viene del tutto ignorato. Ricordo a me stesso che Gramsci aveva stima e simpatia per il comunista napoletano. Queste risposte andrebbero date perché ancora oggi ci sono tantissimi italiani che hanno creduto nel comunismo e che meritano rispetto per una vita di coerenza agli ideali che hanno perseguito. L’attualità senza il PCI e senza il PSI ci fa intravedere un’Italia travolta dalla crisi economica in cui una destra arrogante rappresentata dalla Lega di Salvini, dai postfascisti della Meloni e dal partito di Berlusconi riesce facilmente ad arginare le pretese di un partito che nato dalle ceneri della DC e del PCI costituitosi ad imitazione del Partito democratico americano. L’Italia non ha bisogno di festeggiare un centenario che non esiste se non nella mente di chi ha escogitato questo diabolico tranello. l’Italia che  non rinuncerà mai ad una democrazia faticosamente costruita deve essere vigile affinchè i demoni che la destra sta provando a risvegliare in Italia come nel resto del mondo non creino danni irreparabili all’impianto democratico nato dalla Costituzione. Al di là delle celebrazioni è la Costituzione “più bella del mondo” che va difesa provando a ricostruire una sinistra unita e coesa che non sia la pallida imitazione di sistemi politici che non ci appartengono.     .    
 
gennaio 20, 2021

Se cent’anni vi sembrano pochi!

di Felice Besostri

Siamo, idealmente, nel gennaio del 1891, abbiamo appena un anno davanti a noi prima di fondare un partito dei lavoratori italiani, nella città che offra le migliori condizioni logistiche per un’ampia partecipazione di lavoratori e delle loro associazioni, particolarmente presenti e organizzate nell’Italia settentrionale in varie forme, società di mutuo soccorso, casse di resistenza, leghe, camere del lavoro, circoli operai. Siamo in ritardo. In Germania è stato fondato nel 1863, in Austria è attivo dal 1874, persino la Spagna è più avanti di noi avendo fondato il suo nel 1879, mentre in Gran Bretagna nel 1881 si costituiva una prima formazione d’ispirazione socialista con la partecipazione di Eleanor Marx. Soltanto la Francia è più indietro dell’Italia, benché nel 1889, centenario  della Rivoluzione francese con la presa della Bastiglia, proprio a Parigi, sede di un’Esposizione Universale, si fosse riunita per la sua fondazione l’Internazionale Socialista, che radunò nel suo seno  tutte le diverse sensibilità socialiste, da quelle socialdemocratiche a quelle comuniste fino allo scoppio della prima guerra mondiale.

Nella situazione attuale della sinistra, scomparsa come forza politica influente in Italia, e in grave difficoltà in Europa, ma vince in Nuova Zelanda e in Bolivia, per invertire la tendenza dovremmo dedicare più tempo, energie fisiche ed intellettuali, nonché le limitate risorse materiali di cui disponiamo al 130° anniversario della fondazione, nel 1892, del primo partito dei lavoratori italiani, piuttosto che al centenario del Congresso di Livorno, inteso sia come data di fondazione del partito comunista in Italia, che come scissione del socialismo italiano al suo XVII° Congresso.  La situazione obiettiva non è paragonabile a quella degli anni Venti del XX° secolo, allora il Partito, ancora unico della sinistra, era il Partito di maggioranza relativa. Ora siamo come alla fine del XIX° senza un partito della sinistra, con quello che è rimasto non di può rifondare/ricostruire nulla, per non ripetere, bisogna come nel 1892 cominciare da capo.

La fondazione  partito dei lavoratori a Genova, per profittare delle agevolazioni ferroviarie per le celebrazioni della scoperta delle Americhe del 1492, era stata preceduta da una separazione, quella dei socialisti dagli anarchici, non una scissione, in senso tecnico, perché non si era formata un’organizzazione unica, perché sarebbe stato impossibile formarla per ragioni politiche ed ideologiche delle sue componenti.  Nel giro di pochi anni il partito dei lavoratori si sarebbe definito socialista, come nel resto d’Europa ad eccezione della Scandinavia e della Gran Bretagna, con varie combinazioni di aggettivi, che prescindevano dall’adesione o meno al marxismo, compreso il Partito Operaio Socialdemocratico Russo fondato a Minsk nel 1898, che comprendeva sia i bolscevichi, comunisti e rivoluzionari, che i menscevichi, socialisti democratici. Le vicende di quel partito strettamente legate alla Rivoluzione russa, un fatto epocale, sono in parte all’origine dell’evento  per Left del 8 gennaio 2021 Livorno 1921, come “c’è scissione e scissione, non tutto è dannazione”, perché ridurla al fatto dell’autoemarginazione dei comunisti per fondare il PCdI, esito non voluto se non da Amedeo Bordiga il leader della frazione d‘allora, in contrapposizione all’espulsione dei riformisti, chiesta nelle 21 condizioni dell’Internazionale Comunista, significa rimanere prigionieri del passato. Stabilire oggi politicamente, se avesse ragione Amedeo Bordiga, tra l’altro eliminato dalla storia ufficiale del PCI, come Lev Trotsky non compare in nessuna foto del PCUS, o Filippo Turati, ci renderebbe prigionieri, für ewig, del passato, porteremmo mattoni in più alla costruzione del muro, che ha diviso socialisti e comunisti, le principali componenti, anche se non esclusive, ideali e storiche della sinistra italiana, europea e mondiale. Erano due minoranze, che, anche sommate (58.783 i comunisti e 14.695 la mozione riformista), erano molto lontane da 98.628 voti dei massimalisti di Giacinto Menotti Serrati. Il confronto tra di loro, chiunque avesse vinto, non avrebbe evitato la sconfitta ad opera dei fascisti e dei loro alleati e/o complici, altrettanto determinanti degli squadristi. La verifica la si avrebbe avuta da lì a poco con le elezioni del  15 maggio 1921 il Partito Socialista Italiano era ancora il primo partito italiano con 1 631 435 voti e il 24,7% e 123 seggi, ma rispetto al 1919 -33 seggi e -7,6%, una perdita non compensata dal risultato del Partito Comunista con il 4,41% e 15 deputati.

Che la situazione stesse precipitando e che l’oggettiva situazione rivoluzionaria, preconizzata de Bordiga ma anche del Terracini nel suo discorso di Livorno fosse tramontata, fosse mai esistita se non come pio desiderio di “fare come in Russia” di convinti militanti senza base di massa, si manifestò nel giro di poco più di un anno: marcia su Roma del 28 ottobre 1922, incarico di Presidente del Consiglio del 30 ottobre a Benito Mussolini. Seguirono le elezioni del 6 aprile 1924 con violenze squadriste e brogli e con la legge Acerbo caratterizzata da un premio dei 2/3 dei seggi a chi avesse superato il 25% dei voti validi e l’assassinio di Giacomo Matteotti del 10  giugno 1924. Il 9 novembre 1926 la Camera dei deputati deliberò la decadenza dei 123 deputati aventiniani, nei quali la sinistra era rappresentata da 24 Socialisti unitari e 22 socialisti italiani e nel complesso del Parlamento del 1924 anche da 19 comunisti               per un totale del 14,67%: una percentuale paragonabile al 16,57% dei DS alle elezioni dei 2001, dopo la fondazione del PD con la scomparsa dell’ultima formazione erede nella sua stragrande maggioranza del PCI, non sono più possibili paragoni. La sinistra non esiste più, c’è un centro-sinistra con partito egemone il PD, aderente tardivo, grazie a Renzi, al PSE, ma non più ad un’Internazionale Socialista, nel frattempo smobilitata e una sinistra fuori dal PD e in Parlamento temporaneamente raccolta in Liberi e Uguali alleata con PD nel Governo Conte bis e fuori dal Parlamento quel che resta di Rifondazione Comunista e, forse Potere al Popolo, un abbozzo di progetto verde-rosso e un Comitato per l’Unità Socialista, che ha aderito al Manifesto promosso dall’ANPI.

Tutte queste forze nel nostro Paese non hanno un consenso superiore, sulla base delle elezioni col Rosatellum del 2018 e quelle regionali del 2019- 2020, a quello del solo PSU nelle elezioni del 1924, cioè, ad essere ottimisti, il 5,90%. Da quello che ho letto e visto o so si sta preparando per il centenario di Livorno, sono giunto alla brutale, ma spero provvisoria conclusione, che sarà un’occasione politicamente perduta, sul piano storico non mi pronuncio e neppure mi interessa la nostalgia di come eravamo. Livorno non ha nulla da insegnare, né sulla consapevolezza di chi siamo oggi come sinistra, ma soprattutto su cosa dovremmo pensare e fare per influire sugli eventi e acquistare consensi, formando cittadini partecipanti consapevoli.

Questo è il compito principale di forze preoccupate per la crescita delle diseguaglianze dovunque, anche nei paesi cosiddetti “sviluppati” e che non assicurano in troppe aree del mondo, dove vive la maggioranza della sua popolazione, il soddisfacimento dei bisogni primari alimentari, sanitari e educativi, per la sopravvivenza del pianeta, per la crescita esponenziale del potere di centri decisionali sottratti ad ogni forma di controllo pubblico politico democratico e a un prelievo fiscale equo e progressivo, ma che controllano la comunicazione sociale e influenzando i comportamenti individuali e collettivi, in altre semplici parole, che vogliono un mondo diverso e migliore.

Milano 18 gennaio 2021, terzo giorno del Congresso di Livorno cent’anni fa.

gennaio 9, 2021

Tre noterelle gramsciane

Per la ripresa di un dialogo

di Gaetano Colantuono

Riscoprire da socialisti la lezione di Gramsci

A Gaetano Arfé, indimenticato e indispensabile

  1. Rileggendo Raul Mordenti, Gramsci e la rivoluzione necessaria.

Libri su Antonio Gramsci ce ne sono tanti – si potrebbe dire. E una nuova, terza, fase della fortuna del suo pensiero è stata registrata da Giorgio Baratta: fase che ha una dimensione mondiale, camminando anche a fianco dei movimenti di contestazione verso la globalizzazione neoliberista, in tanti paesi e in differenti culture. Un Gramsci meticciato e diasporico (per utilizzare due categorie molto in voga nel lessico postcoloniale), i cui Quaderni divengono una preziosa “cassetta di attrezzi” (magari non sempre criticamente vagliata) del pensiero critico e per l’interpretazione di vicende storiche impensate dal comunista sardo. Ciò basti a confutare l’immagine, di matrice accademico-erudita, di un Gramsci come monumento letterario, tipo Madame Bovary o il Canzoniere petrarchesco, e perciò museificato e mummificato. Neutralizzato.

Parallelamente si sono diffusi proprio in Italia non pochi luoghi comuni sul suo pensiero, interpretazioni capziose e fuorvianti, estranee a corretti principi metodologici, insieme a continue illazioni sulla sua vita ed in particolare (c’era da attenderselo) sulla fase della sua carcerazione: così è divenuta merce corrente sentire o leggere che Gramsci fu sì imprigionato dal regime fascista, ma che gli venne riservato un trattamento di favore, che comunque non morì in carcere e che ad ucciderlo – o meglio a volerlo morto – furono proprio i compagni del suo partito. Sinteticamente un Indro Montanelli (figura incredibilmente rivalutata come testimone storico) poteva scrivere: «Togliatti non mosse un dito e anzi ostacolò il trasferimento a Mosca di Gramsci». Altri si sono “limitati” a esporre giudizi tranchant sull’opera gramsciana: un documento censurato da Togliatti e dal suo partito, ovvero un testo sopravvalutato nel quadro di quel (presunto) controllo della cultura attuato dalla Sinistra in Italia per quaranta anni (giova rammentare: di opposizione parlamentare). Nuove, ardite proposte sono venute su (o sono tornate) negli anni ’90: un Gramsci “socialista” degli ultimi tempi (secondo un’amena affermazione di Craxi: quindi con tutto ciò che tale qualifica in quel momento poteva significare); un Gramsci liberale e liberista; immancabile una sorta di “Codice da Turi”, ovviamente inteso come Gramsci versus Togliatti e l’URSS.

Solo da questa rapida rassegna è possibile constatare una costante – un’ossessione (anti)togliattiana – e due possibili operazioni su Gramsci uomo politico e teorico.

Si tratta di un’alternativa secca per vulgate ansiose di legittimazione: annettere o liquidare Gramsci. Tertium non datur. Occorre rinunciare preliminarmente ad entrambe le opzioni e riprendere le fila di un dialogo, per noi impegnati nell’arduo compito di ricostruire in Italia una presenza per il socialismo di sinistra, senza trascurare i punti di attrito fra gli assunti gramsciani (con particolare rilievo della sua produzione carceraria) e le elaborazioni dei dirigenti e studiosi socialisti [a mo’ di esempio il ripensamento critico delle categorie gramsciane per la storia meridionale moderna in Gaetano Cingari, uno studioso indubbiamente da recuperare, su cfr. Gaetano Cingari. L’uomo, lo storico, Manduria 1996].

Gaetano Cingari

È tuttavia confortante che il quadro degli studi gramsciani italiani non sia segnato dalla nota dominante della ruffianeria, assenza di scrupoli deontologici e filologici, sostanziale funzionalità rispetto al vigente status quo. E forse si può sostenere che, anche in questo caso, “non tutto il mal vien per nuocere”, poiché tali ricorrenti, persistenti luoghi comuni fallaci, teorie inverificabili e campagne di stampa hanno comportato una rinnovata lettura critica del corpus gramsciano, nei suoi vari passaggi diacronici, nelle sue parole tematiche (vedi Le parole di Gramsci. Per un lessico dei Quaderni del carcere, Roma 2004), nei condizionamenti terribili della sua situazione di prigioniero e delle ricadute sulle condizioni psico-fisiche, nella verifica storica dei suoi assunti. È stata così messa alla prova una nuova generazione di studiosi/e, che ha dovuto riverificare e rileggere i testi nel fuoco di un’altra, non trascurabile, battaglia delle idee. Quella di resistenza al discorso egemonico (è il caso di dirlo) neoliberista e di costruzione di efficaci alternative.

Fra le varie opere comparse nel corso del precedente anniversario gramsciano (2007), particolare rilievo va attribuito al volume di Raul Mordenti, Gramsci e la rivoluzione necessaria (Editori Riuniti, Roma 2007, pp. 206), per il nesso fra ricerca storico-filologica sui testi gramsciani e l’impegno storico-politico dello studioso attraverso gli stessi. Una dote non comune se si pensa alle tendenze di certa dirigenza dell’Istituto Fondazione Gramsci in Italia, legata organicamente alle trasformazioni che hanno condotto dal PCI al Partito Democratico. E chissà poi. È noto che in reazione a questa situazione si registra un crescente interesse verso le iniziative dell’International Gramsci Society (IGS) con le sue sezioni nazionali.

L’opera di Mordenti, in realtà, si presenta come una raccolta di precedenti lavori, cinque in particolare, rifusi a mo’ di sintesi organica in cui l’opera gramsciana viene analizzata ora sul piano filologico ed esegetico ora in relazione al proprio Fortleben. Ben chiare su entrambi i versanti le posizioni dello studioso, con una forte polemica contro alcuni degli stereotipi sopra accennati, mentre rigoroso è il suo procedere critico, alla ricerca di una rinnovata interpretazione iuxta sua principia di Gramsci, che se intende superare la vulgata genericamente denominabile come “togliattiana”, non per questo rinuncia agli ineliminabili fondamenti (i.e. comunisti) di quella ricerca politica e vicenda umana (su cui si veda il capitolo 2 La rivoluzione necessaria). Questi elementi, assieme a molti altri, rendono il testo al contempo un documento dell’attuale fioritura di studi, un’introduzione agli stessi e un saggio in cui convergono numerosi spunti di metodo, ipotesi di lavoro ulteriore, risultanze assodate e interessanti aperture al mondo variegato degli studi culturali.

Tuttavia, in questa sua cifra lo studio mostra alcuni elementi limitanti. L’aver insistito su una dicotomia (lettura togliattiana versus quella antitogliattiana) ha come effetto la sostanziale trascuranza di altri settori in cui si è in passato esercitata la lettura gramsciana, a partire, e.g., dalla variegata sinistra socialista, soprattutto durante la fase autonomista del PSI (1956-1963): Panzieri non è menzionato, Bosio solo di sfuggita e così via. La stessa cultura socialista legata al corso nenniano non fu estranea a studi e categorie gramsciani, per cui leggendo l’ampia citazione da una lettera del 2 maggio 1932 (a p. 46) sovviene al lettore accorto la ripresa di Antonio Giolitti [cfr. il suo Riforme e rivoluzione, Torino 1957] dei medesimi temi negli anni Cinquanta, quando maturò il suo passaggio dal PCI al PSI.

Antonio Giolitti

Conviene rileggere in forma estesa quanto Gramsci scriveva in quella lettera in cui si fondano critica anticrociana (ma anche antibordighiana) e formulazione di nuove proposte aderenti ad un contesto complesso come quello nazionale: «Si può dire concretamente che il Croce, nell’attività storico-politica, fa battere l’accento unicamente su quel momento che in politica si chiama dell’“egemonia”, del consenso, della direzione culturale, per distinguerlo dal momento della forza, della costrizione, dell’intervento legislativo e statale o poliziesco […] è avvenuto proprio nello stesso periodo in cui il Croce elaborava questa sua sedicente clava, la filosofia della praxis [scil. la dottrina marxista], nei suoi più grandi teorici moderni, veniva elaborata nello stesso senso e in momento dell’“egemonia” o della direzione culturale era appunto sistematicamente rivalutato in opposizione alle concezioni meccanicistiche e fatalistiche dell’economismo. È stato anzi possibile affermare che il tratto essenziale della più moderna filosofia della praxis consiste appunto nel concetto storico-politico di “egemonia”».

È tuttavia chiaro che come ogni epoca, così ogni tradizione politico-culturale della Sinistra ha il proprio Gramsci. D’altra parte, se lo stesso politico sardo realizzò un crescente distacco dal Psi e fu anzi uno dei promotori della scissione di Livorno, non bisogna dimenticare che è davvero disagevole pensare l’elaborazione del suo pensiero al di fuori della precedente esperienza politica accumulata dal partito del proletariato italiano e senza riferimento al patrimonio di sacrifici (si pensi alla scelta neutralista per oltre tre lunghissimi anni), resistenze e costruzioni di alternative (cooperative, mutue, sindacato, organi di stampa). La critica più feroce di Gramsci al Psi acquista così un senso di prospettiva, al di là delle mere contingenze polemiche e di taluni giudizi incresciosi. Una proposta interessante potrebbe essere una ricerca collettiva e aperta (cioè anche bidirezionale) sul tema Gramsci e la cultura politica dei socialisti, contemporanei e successivi.

Una sinistra, non indegna del patrimonio gramsciano, ancorché minoritaria, deve certamente comprendere (come annota l’autore, p. 21 e passim) l’importanza delle partite, a più livelli, giocate attorno alla memoria, alle tradizioni, alla storia – quella narrata e quella agita – come anche a temi attualmente assenti dal dibattito pubblico o degradati ad argomenti da chiacchiera da “bar dello sport”: fra questi, il folclore, la storia ai margini della storia stessa (ovvero la storia dei gruppi sociali subalterni), la quistione degli intellettuali – temi ai quali il volume dedica pagine molto impegnative e suggestive. Inevitabilmente alcuni temi, pur significativi (è il caso delle riflessioni sulle religioni e sul cattolicesimo), non sono affrontati nel volume in modo diretto.

Un approccio allo studio dell’opera gramsciana che ne possa garantire vitalità e forza (piuttosto che un pregiudizio di “attualità”) deve coniugare metodo filologico e rilettura collettiva e corale, aperta e rigorosa. Mi è francamente difficile ed al contempo spiacevole immaginare una futura trasmissione dell’opera gramsciana in assenza di pratiche di liberazione e di progetti di rivoluzione (necessaria). Qualunque cosa ciò possa significare nei diversi contesti? – è questa una domanda da non eludere.

2. La riflessione gramsciana sull’Azione Cattolica

L’ipotesi di lavoro gramsciana (Q.20) è in analogia con quanto sostenuto da uno storico sulle vicende politiche francesi post-napoleoniche: «pare che Luigi XVIII non riuscisse a persuadersi che nella Francia dopo il 1815 la monarchia dovesse avere un partito politico specifico per sostenersi». In altre parole l’intuizione dell’Azione Cattolica come partito politico specifico della Chiesa nella società, dopo la crisi europea culminata nel 1848, quando decade il monopolio delle istanze religioso-ecclesiastiche come elemento ordinatore, l’unico consentito, delle masse. L’AC ha assunto con il mutare dei tempi diverse funzioni, tuttavia resta l’espressione di una nuova fase (Gramsci lo dice più chiaramente in Q.2 confrontando AC con i terziari francescani) nella storia del cattolicesimo, quando le sue concezioni da insieme totalitario («nel duplice senso: che era una totale concezione del mondo di una società nel suo totale») si fa parziale (ancora nel duplice senso); ovvero come «la reazione contro l’apostasia di intere masse». Insomma, questo quadro dimostra che «non è più la Chiesa che fissa il terreno i mezzi della lotta; essa invece deve accettare il terreno impostole dagli avversari o dall’indifferenza e servirsi di armi prese a prestito dall’arsenale dei suoi avversari (l’organizzazione politica di massa)». Pertanto Gramsci può concludere che la nascita dell’AC, al di là dei risultati ottenuti, è prova del fatto che «la Chiesa è sulla difensiva», avendo perduto non solo il monopolio della formazione delle coscienze (come diremmo noi oggi) ma anche la scelta del terreno e delle armi (fuor di metafora: temi, forme, strumenti) dello scontro per il controllo delle masse. Ha perduto quindi la sua capacità di indirizzo culturale, sociale, morale – quello che potremmo chiamare egemonia.

Un altro strumento di presenza-controllo sulle masse è poi costituito dal sindacalismo operaio cattolico – e qui Gramsci nota come, ai suoi tempi, non fosse avvertita l’esigenza di un corrispondente sindacato confessionale degli imprenditori.

  1. Turati e Gramsci: una polemica mal posta.

Le seguenti brevi note nascono come commento sul dibattito innescato dall’articolo di Roberto Saviano “Elogio dei riformisti” apparso su “la Repubblica” (28.02.2012).

È un errore identificare l’articolo del Saviano col libro di A. Orsini [Gramsci e Turati. Le due sinistre], che meriterebbe di essere letto in sé, anche se credo che sin dalla intitolazione l’autore abbia voluto insistere sulla dicotomia fra Turati e Gramsci (ragioni non meramente cronologiche impongono che si stabilisca un ordine fra i due leader diverso da quello del titolo). Il Saviano evidentemente ne fa una lettura personale, scegliendo passi e temi funzionali alla propria linea.

Il tema, ossia la dicotomia di cui sopra, era nient’affatto inedito, direi anzi abituale in larga parte della storiografia. Ne esistono però due varianti opposte: quella anti-riformista e quella anti-comunista. Per fortuna già la migliore storiografia – in genere di sinistra – dagli anni Sessanta in poi aveva lentamente superato questa polarizzazione. Alcuni nostri colleghi – ed alcuni incauti loro lettori-recensori – sembrano ricaderci: è un segno dei tempi, del “nuovismo” fatto politica (PD ma non solo) e dominante in cultura. Il cui pendant, per curioso che possa apparire, è la generale marginalizzazione di una larga fetta di generazione dai venti ai quaranta anni.

Il riproporre la polarità Turati-Gramsci in termini così radicali appare nient’altro che il traboccare di antiche e insopite contrapposizioni che, in tempi di neoliberismo trionfante e di crisi indefinita, appaiono anacronistiche. Ogni santo anno, in occasione dell’anniversario del congresso-scissione di Livorno, debbo assistere al rinnovarsi del derby: aveva ragione Turati profeticamente e su tutta la linea, si affannano gli uni; il partito comunista, “luce che rischiara nelle tenebre”, nasce dal fallimento storico del partito riformista, celebrano gli altri. I nomi delle due “curve” si sprecherebbero e le loro analisi a dir poco condizionate da un forte senso identitario sono equivalenti: ed è un dato eloquente che non pochi di loro abbiano dato miglior prova dei loro studi in altri temi. Peccato che queste fazioni disconoscano che entrambi i tronconi fossero divisi al loro interno e non solo per ragioni di leadership. Ricordo a me stesso che le medesime fazioni fra loro accanite sono poi generalmente unanimi nel condannare (o obliterare) Serrati, nonostante già un Natta, purtroppo postumo, ne avesse composto una riabilitazione con tanto di duro giudizio sull’atteggiamento di Gramsci verso lo stesso Serrati nella celebre lettera di fondazione dell’Unità [ora si vedano gli studi di Marco Scavino].

In realtà, la canonizzazione di Turati presenta vari elementi di perplessità, primo fra tutti l’autocritica dello stesso politico nei suoi anni di amaro esilio parigino, quando si rimproverò l’ingenua fede nel metodo gradualistico-legalitario e di non aver compreso la forza della violenza, quella fascista (quella della parte estremistica del suo partito egli l’aveva già opportunamente contestata, anche per ragioni di lotta politica interna, in quel di Livorno). Turati, anche se idealizzato, va letto anche nelle sue pagine dell’esilio. Inoltre, lo stesso percorso politico-culturale di Turati appare tutt’altro che lineare ed esprimibile soltanto col nome “riformismo”. Sulla questione vale la pena riprendere gli studi del principale storico del socialismo italiano, Gaetano Arfé, nostro indimenticato maestro (cfr. in part. la sua Storia del socialismo italiano (1892-1926), Einaudi). I classici giacciono quasi inerti nelle biblioteche, mentre testi nuovisti occupano le pagine dei giornali. Ci si può chiedere se quest’ultimi faranno storia o non piuttosto cronaca, secondo il nostro parere, su quotidiani e social network.

Lo studio storico del movimento operaio e dei suoi partiti soffre in Italia di alcune lacune. Su due vorrei brevemente soffermarmi. La prima è la sostanziale assenza o la mancata fruizione di luoghi deputati all’archiviazione e allo studio dell’imponente massa documentaria prodotta in quasi 150 anni di movimento dei lavoratori. Ciò spiega anche il successo, spesso effimero, di determinate vulgate e metodologie. La seconda è la mancanza di quei partiti e della loro multiforme attività (case editrici, centri studi e fondazioni, attività didattica e divulgativa e così via). Un imponente processo di dissipazione, non c’è che dire.

Perché non possiamo dirci riformisti” – è questo il titolo di uno degli ultimi interventi di Arfé (“Il ponte” 2005). E forse lo sforzo di una società di studiosi/e che faccia filologia e divulgazione della tradizione socialista andrà ripreso nei prossimi mesi in un apposito progetto. Studuisse oportebat.

Gaetano Arfè

PS: le tre note sono state composte rispettivamente nel gennaio 2008, dicembre 2006 e aprile 2012. L’autore non sommessamente ricorda come tutti e tre i pensatori socialisti citati (Arfé, Giolitti, Cingari) abbiano abbandonato il PSI negli anni Ottanta in polemica con la leadership di allora.

aprile 17, 2020

Un libro e la sfida continua.

di Gaetano Colantuono
L'immagine può contenere: 1 persona, testo

“Lo scritto [di Rosselli] dedicato alla memoria di Turati è un commosso atto d’amore per il vecchio maestro, è il riconoscimento argomentato e documentato di quanto egli ha dato, fino all’ultimo suo giorno di vita, alla causa della libertà, del socialismo, della nazione; è anche storicizzazione di una esperienza irripetibile perché irreversibile è il mutamento avvenuto nei moduli della lotta sociale, politica, ideologica. I motivi polemici che egli verrà via via sviluppando fondono le riflessioni sul passato, l’analisi del presente, le intuizioni su quel che sarà l’imminente e incombente futuro; è stato merito del socialismo democratico, per Rosselli, avere indirizzato il movimento operaio sulla via della legalità, ma il legalitarismo condanna alla sconfitta qualora sia elevato a dogma: lo dimostra il caso dell’Aventino, quando si erano affidate le sorti della battaglia a una forza esterna e tendenzialmente avversa, la monarchia.” (Gaetano Arfè, socialista, giornalista e storico, parlamentare, direttore de “L’Avanti!”)

aprile 12, 2020

Quando muore un compagno…..

Morto Luciano Pellicani, fu il teorico del socialismo riformista di CraxiLuciano Pellicani (1939-2020)

Era un socialista, vicino a Bettino Craxi, ma aveva dedicato grande impegno allo studio del capitalismo, nel quale vedeva molti aspetti positivi. Era un riformista convinto e battagliero, ma sin da giovane aveva rivolto un’attenzione assidua, molto critica, alle ideologie rivoluzionarie e ai loro fautori. Luciano Pellicani, scomparso all’età di 81 anni, era mosso soprattutto da una enorme curiosità per l’esperienza umana nel suo complesso.

Docente alla Luiss Guido Carli di Roma, sociologo come qualifica accademica, si destreggiava tuttavia in molti campi del sapere, dalla filosofia all’antropologia. Era un conversatore vivace e instancabile, gran conoscitore di vicende storiche poco note. E in lui ardeva la fiamma di una intensa passione politica, che lo aveva portato ad essere uno dei sostenitori più attivi, sul piano intellettuale, della linea di Craxi alla guida del Psi.

A Pellicani si doveva in gran parte la stesura del Vangelo socialista, un intervento firmato da Craxi e pubblicato nell’estate del 1978 sull’«Espresso» (riedito nel 2018 da Aragno), che venne poi ricordato impropriamente come «il saggio su Proudhon». In realtà si trattava di un’analisi spietata del pensiero di Lenin e della sua profonda vocazione totalitaria: il francese Pierre-Joseph Proudhon, a suo tempo rivale di Karl Marx, veniva citato come esempio di un socialismo libertario estraneo alla visione dogmatica del comunismo. Il senso politico dell’articolo consisteva nell’indicare ai progressisti la via maestra del riformismo, incalzando un Pci che, con Enrico Berlinguer, ancora rendeva omaggio a Lenin e vagheggiava la fuoriuscita dal capitalismo.

Fu insomma un segnale del duello a sinistra al quale si apprestava un Psi ben deciso a dismettere qualsiasi complesso d’inferiorità nei riguardi dei comunisti. E che Pellicani fosse in prima linea nella sfida non stupisce affatto. Nato a Ruvo di Puglia il 10 aprile 1939, proveniva da una famiglia antifascista. Suo padre Michele era stato un esponente del Pci, ma poi lo aveva abbandonato nel 1956, dopo il soffocamento della rivoluzione ungherese, per approdare su posizioni socialdemocratiche. E anche Luciano, in gioventù comunista, aveva seguito un tragitto analogo sulla scorta dei suoi studi.

Una pietra miliare di quel percorso era stato il volumeI rivoluzionari di professione(Vallecchi, 1975), nel quale Pellicani aveva messo a fuoco la natura intollerante delle teorie imperniate sulla pretesa di conoscere il senso della storia e il destino della società, dalla quale discendeva il progetto di radere al suolo il sistema vigente e costruirne nuovo, rimodellando gli esseri umani fino a mutarne la natura strutturalmente imperfetta. Parlava a tal proposito di «moderna gnosi» e ne sottolineava gli effetti catastrofici, verificati del resto ampiamente nell’esperienza sovietica.

Tutto ciò aveva portato Pellicani in una condizione di quasi isolamento nella sinistra, egemonizzata all’epoca dai comunisti, ma in sintonia con altri studiosi critici verso il marxismo, come Domenico Settembrini, e soprattutto con Craxi, in nome della riscoperta di autori come Eduard Bernstein, Filippo Turati, Carlo Rosselli. Non si trattava di abbattere il capitalismo e lo Stato borghese, motori del progresso economico e di quello civile, ma di sfruttarne le potenzialità piegandole alle ragioni della giustizia sociale.

Su questa linea Pellicani si era mosso con coerenza, dirigendo a due riprese la rivista ideologica socialista, «MondOperaio», ma senza mai rinunciare alla sua autonomia di giudizio. Non aveva condiviso nel 1987 la scelta antinucleare del Psi e lo aveva scritto a chiare lettere. Più tardi aveva messo in guardia il partito dalle commistioni tra politica e affari che poi avrebbero portato al suo affossamento nella stagione tumultuosa di Mani pulite.

Sul piano più strettamente teorico, Pellicani si era distinto per le sue tesi circa le origini del capitalismo. Riteneva inadeguata la spiegazione economicista formulata da Marx, basata sul concetto di «accumulazione primaria», ma scartava anche quella di taglio culturale e religioso elaborata da Max Weber, incentrata sulla spinta dell’etica protestante.

Nel saggio La genesi del capitalismo(Sugarco, 1988) aveva sostenuto che occorre guardare piuttosto a fattori di natura istituzionale: la mancanza di un potere centralistico e dispotico nell’Europa medievale e moderna, con il fiorire dei liberi comuni, delle città marinare, delle stesse strutture feudali, aveva posto le condizioni, insussistenti nei grandi imperi asiatici, per lo sviluppo della libera iniziativa economica e del mercato, con il consolidarsi dei diritti di proprietà e della contrattazione privata.

Non bisogna pensare tuttavia che la visione di Pellicani fosse eurocentrica: al contrario, era sinceramente interessato alla civiltà indiana, così come a quella musulmana. E riconosceva che la modernizzazione era comunque un trauma, suscettibile di provocare reazioni violente come quella del fondamentalismo islamico. Credeva nel progresso, attaccava aspramente i nostalgici di un passato idilliaco mai esistito, ma era conscio del vuoto creato dal disincanto del mondo nell’anima degli uomini.

Anticomunista fermissimo, si era sempre tenuto alla larga dal centrodestra e aveva sostenuto l’Ulivo, pur deprecando diversi aspetti, per esempio il giustizialismo, della cultura prevalente a sinistra. Rigorosamente laico, Pellicani respingeva le pretese della Chiesa cattolica di dettare i suoi valori alla società civile. Ammiratore della cultura classica pagana, della quale l’illuminismo gli appariva erede, aveva però ben chiari i lati problematici della secolarizzazione.

Sapeva che la libertà umana poggia su fondamenta fragili e che le sirene autoritarie restano sempre in agguato. Anche per questo Pellicani non aveva mai smesso di scrivere, polemizzare, affinare la sua critica agli antagonisti della democrazia occidentale. Forse con qualche eccesso, come l’equiparazione di Lenin a Hitler su cui aveva scritto un volume per Rubbettino. Ma con una fame di conoscenza e una limpidezza d’intenti che gli vanno doverosamente riconosciute.

marzo 29, 2020

La grande fuga.

di Beppe Sarno

Il 29 marzo 1932 moriva esule in Francia uno dei padri del socialismo italiano: Filippo Turati. A me più che ricordarlo da morto piace ricordarlo da vivo e mi piace più di tutto gli episodi della sua vita l’avventuroso episodio del suo espatrio.
il fatto avvenne fra l’11 e il 12 dicembre 1925. In un primo momento si era pensato do farlo espatriare in Svizzera, ma l’impresa si rivelò molto rischiosa e si optò per la via del mare.
“Una vertiginosa fuga in auto per monti e per valli gelate – scriveva Ferruccio Parri organizzatore dell’impresa – sfuggendo fortunosamente i blocchi stradali ci portò a Savona. Adriano Olivetti impassibile e silenzioso guidava la macchina. Ricoverammo al’albergo senza incidenti “il povero vecchio zio sofferente” Fuori dal porto non si può partire, a Vado nemmeno. Si tenta “ai pesci vivi” all’interno del porto. Ma riesce, momenti di sospensione alla bocca del porto: che fragore nei nostri cervelli quel motore! La sentinella è distratta. Evviva!Ammiragli della spedizione erano Lorenzo Dabove , macchinista navale ed Italo Oxilia, capitano di lungo corso. L’industriale Francesco Spirito aveva fornito il motoscafo. [……..] guardavo Turati. Aveva lasciato più che la sua patria e mi pareva una quercia crudelmente sradicata. Sapeva che non avrebbe più rivisto la sua casa, sentiva che sarebbe morto in esilio e lo diceva respingendo dolcemente le proteste di Rosselli. Ora anche Pertini era della partita. ” Continua il racconto Carlo Rosselli sul periodico parigino Libertà “…..dodici ore durò la traversata da Savona alla Corsica. orribili. Più volte dovemmo darci il cambio alla pompa per eliminare l’acqua che ogni ondata ci regalava. Oxilia e Dabove grandi lupi di mare si davano il cambio al timone, sapientemente accogliendo le ondate…..Ma ecco la linea dei monti farsi più chiara col monte Cinto che tutti li sovrasta. L’isola rossa ci saluta. Ci saluta il sole. Calvi svela il suo forte proteso sul mare. Navighiamo ora in un’atmosfera di sogno, zitti in piedi, protesi verso la terra amica. Entriamo i rada verso le dieci del mattino sfiniti, inzuppati ma felici”
Il gruppo viene accolto nel locale circolo repubblicano dove Turati tiene una conferenza.
Dirà Pietro Nenni su le “Soir” del 21 dicembre 1926 “Turati fronteggia dapprima la tirannia mussoliniana, ma ormai nuove leggi di eccezione vietano quel po’ che ancora sussisteva del diritto di parola, di scrivere di pensare ….Rimanere in Italia come ostaggio sarebbe una viltà. Filippo Turati, vecchio sofferente, ha preso la dolorosa via dell’esilio.
Claudio Treves definirà nel 1936 i fuggiaschi “Argonauti del dolore che puntano la prua verso una terra di libertà e di onore per porvi i lari della patria perduta e tradita.”
Scriveva in francese Turati “M hanno incaricato di assumere la direzione di un “Bollettino d’informazione” edito par” la concentration antifasciste Italienne,” Questo bollettino si chiamerà “ITALIA”.
Scriverà Vera Modogliani in “Esilio” “Chi vorrà essere lo storico dell’Italia martoriata dal fascismo troverà in LIBERTA’ dati e informazioni. Vi troverà, in particolare la statistica delle condanne a morte pronunciate in Italia da quell’autentica vergogna giudiziaria che prese il nome di “Tribunale Speciale”
Scrive Pertini, che fu definito il mozzo dell”imbarcazione fuggiasca, a Turati ” Maestro domani è l’anniversario della nostra partenza da Savona ed io voglio ricordarlo con lei”.
Siamo nel dicembre 1927 e Pertini, futuro Presidente della Repubblica, faceva il muratore per sopravvivere.
Beppe Sarno

L'immagine può contenere: 3 persone, persone in piedi
giugno 4, 2012

Bruno Buozzi un martire del sindacalismo italiano.

Bruno Buozzi (Pontelagoscuro, 31 gennaio 1881Roma, 4 giugno 1944) è stato un sindacalista e politico italiano. Fu tra i più autorevoli sindacalisti italiani della prima metà del ‘900 e fu deputato socialista dal 1920 al 1926.

Operaio metallurgico, socialista riformista, nel 1911 assunse la carica di segretario generale della FIOM. Nel settembre del 1920 fu l’ideatore e il principale promotore dell’occupazione delle fabbriche metallurgiche. Continuamente corteggiato da Mussolini sin dal 1919, al contrario di altri eminenti sindacalisti socialisti che cedettero al collaborazionismo, a partire dall’11 giugno 1924, ovvero dopo la crisi politica decretata dall’omicidio Matteotti, iniziò a sfidare apertamente il fascismo rappresentando, insieme a Filippo Turati, il Partito Socialista Unitario nel seno del “Comitato dei sedici”.

Bruno Buozzi a Roma nel 1924.

Nel marzo del 1925 guidò gli ultimi imponenti scioperi del periodo fascista. Nel dicembre del 1925, rimasto l’unico sindacalista di un certo calibro a non volersi piegare di fronte al fascismo, si vide costretto da un imperativo morale a succedere a Ludovico D’Aragona, nella guida della Confederazione Generale del Lavoro.

Perseguitato dal regime e minacciato più volte di morte, nell’ottobre del 1926 si trasferì in Francia ove ricostituì la sede della CGdL. In Francia si occupò della difesa dei diritti dei lavoratori italiani emigrati all’estero e fece attiva opera antifascista attraverso la direzione del giornale “L’Operaio Italiano” che, pubblicato in formato ridotto, venne anche fatto circolare clandestinamente in Italia. Fu catturato dai tedeschi nel 1942 e consegnato all’Italia, che lo confinò a Montefalco, ove prese alloggio in un piccolo stabile in prossimità delle mura urbiche. Sulla facciata è stata apposta una lapide commemorativa.

Liberato dopo il 25 luglio 1943, fu attivo nella Resistenza, lavorò con Giuseppe Di Vittorio e Achille Grandi per la rinascita del sindacato, ma non poté firmare il Patto di Roma (9 giugno 1944) che ha fatto nascere la CGIL, perché tra la notte e la mattina del 3 e il 4 giugno 1944, insieme ad altri tredici prigionieri, Buozzi fu arrestato e fucilato dai tedeschi in fuga da Roma, che lo tenevano in ostaggio, in località La Storta sulla via Cassia, a pochi chilometri da Roma (eccidio de La Storta).