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aprile 1, 2020

Odi et Amo!

di Celestino Genovese

Categoria: Publio Ovidio Nasone @ Rhadrix ℗

Nel suo Non-luogo-senza-tempo Scrivente aveva radunato un certo numero di persone, ma prima aveva accuratamente recintato il giardino con un’alta rete per evitare che una folla sterminata, proveniente da diversi secoli e millenni, potesse entrare, desiderosa di dire la propria sull’argomento che egli voleva discutere. Ora il gruppetto si era raccolto intorno al più giovane tra loro, che si arrovellava sui suoi sentimenti contrastanti.

Gaio Valerio Catullo, scuotendo il capo: – Odio e contemporaneamente amo. Forse mi chiedi il motivo per il quale lo faccio.  Io non lo so, ma sento che accade e ne sono crocefisso.

Anacreonte, austero con la sua lunga barba: – Amo e non amo. Sono pazzo e non sono pazzo. Era accaduto anche a me.

Catullo: – Ma è diverso! Non amare non vuol dire odiare: è solo indifferenza.

Sigmund Freud, perfettamente a suo agio nel Non-luogo-senza-tempo: – L’atto di amare non è suscettibile di uno solo, ma di tre contrari. Oltre all’antitesi amare-odiare, vi è quella di amare ed essere amati; e inoltre l’amare e l’odiare presi insieme si contrappongono allo stato dell’indifferenza o della mancanza d’interesse.

Scrivente: – Già; ma l’indifferenza non è una passione, mentre amore ed odio sì. Come fanno due passioni opposte a stare insieme?

Freud: – Può accadere che lo stesso oggetto serva al soddisfacimento di più pulsioni, producendo ciò che Alfred Adler chiama un ‘intreccio pulsionale’.

Catullo: – Stai dicendo con parole diverse la stessa cosa che avevo detto io. Quel che io non so è: perché accade?

Freud: – La storia delle origini e dei rapporti dell’amore ci fa intendere perché tanto spesso esso si manifesti in forma ‘ambivalente’, e cioè accompagnato da moti di odio verso il medesimo oggetto.

Catullo: – E allora dillo. A che storia ti riferisci?

Freud: – L’odio mescolato all’amore proviene in parte dagli stadi preliminari non pienamente superati dell’amore, in parte si costituisce mediante reazioni di ripudio da parte delle pulsioni dell’Io…

Scrivente, rivolto a Catullo: – Per pulsioni dell’Io il Maestro intende la naturale spinta all’autoconservazione di tutti gli esseri umani.

Catullo: – Si; ma quali sarebbero questi “stadi preliminari non pienamente superati dell’amore”?

Freud: – Fasi preliminari dell’amore si costituiscono come mete sessuali provvisorie nel mentre che le pulsioni sessuali effettuano il loro complicato sviluppo. Quale prima fra queste fasi ravvisiamo quella dell’incorporare in sé, o divorare, una specie di amore compatibile con l’abolizione dell’esistenza separata dell’oggetto, che può quindi essere designato come ambivalente.

Catullo: – Questo è vero. Io stesso, quando sono con Lesbia, prima me la mangio con gli occhi e poi con mille e cento baci e poi ancora e ancora. Se potessi abolire la sua esistenza separata da me, la terrei al riparo anche dalle attenzioni di Egnazio, quello stupido iberico che ride sempre per mostrare i denti lavati con la propria urina.

Sarà anche stupido, ma certo non perché iberico – intervenne piccato Lucio Anneo Seneca: – Pur essendo nato a Cordova, tutto mi si può dire, eccetto che io rida sempre…E poi, quella baggianata dei denti lavati con l’urina, via…

Catullo: – Scusami Seneca, non intendevo offenderti. Sai, è la gelosia che fa brutti scherzi.

Quindi, rivolto di nuovo a Freud: – E poi?

Freud: – Nella successiva fase dell’organizzazione pregenitale sadico-anale, l’impulso verso l’oggetto si presenta come spinta ad appropriarsene e non importa se l’oggetto viene danneggiato o annientato.

Scrivente, divertito, scrutò con la coda dell’occhio il volto di Catullo per coglierne le reazioni. In realtà, non aveva tenuto conto dei carmi del poeta di Sirmione che non compaiono nelle antologie scolastiche ad opera della censura. Fu quindi un po’ sorpreso per la totale assenza d’imbarazzo con cui Catullo accolse l’inconsueto riferimento ad impudiche funzioni corporali; ma fu anche sorpreso per il fatto che il poeta sembrò comprendere appieno il senso di quel che aveva sentito.

Catullo: – Così si spiega come mai siamo portati anche a picchiare la donna che amiamo, cosa che mi era sempre sembrata un controsenso.

Scrivente, rivolto a Freud: – Prima dicevi anche che l’odio, oltre che provenire dagli stadi preliminari dell’amore, in parte si costituisce mediante reazioni di ripudio da parte delle pulsioni dell’Io. Quali reazioni?

Freud: – …reazioni che, dati i frequenti conflitti tra gli interessi dell’Io e quelli dell’amore, possono richiamarsi a motivi effettivi e attuali. In entrambi i casi l’odio che si mescola all’amore trae dunque origine dalle pulsioni di autoconservazione. Quando la relazione verso un oggetto determinato viene troncata, l’odio sorge non di rado al suo posto, cosicché noi ritraiamo l’impressione di una conversione dell’amore in odio.

Proprio in quel momento, provenendo dal cielo, Medea, figlia di Eete, aveva superato la rete di protezione ed aveva fermato il carro del Sole, trainato dai serpenti alati, tra i narcisi che fiorivano intorno al laghetto del Non-luogo-senza-tempo.

Medea: – Altro che impressione! So ben io che la conversione dell’amore in odio è una realtà…

Euripide di Salamina la interruppe: – Tu non hai diritto alla parola! Sei un personaggio, non una persona. Quel che avevi da dire è tutto in quel che io ho scritto.

 Seneca (di nuovo un po’ piccato): – Be’, per la verità è anche un personaggio mio.

Scrivente: – Suvvia, non è il caso di aprire una vertenza. Di Medea hanno scritto in tanti. In fondo, più che un personaggio è un mito… Giacché è qui, direi di farla parlare – e rivolto a Medea – Che cosa stavi dicendo?

Medea: – L’uomo al quale vi rivolgete come ad un maestro – disse indicando Freud – ha fatto intendere che la conversione dell’amore nell’odio è soltanto un’apparenza, un’impressione appunto. Ma forse lui non sa con quale sentimento profondo, forte e autentico ho odiato Giasone. 

Freud: – L’odio, il quale è effettivamente motivato, viene rafforzato dalla regressione dell’amore alla fase sadica preliminare; in tal modo l’odio acquista un carattere erotico e viene garantita la continuità di una relazione amorosa

Seneca: – Vi rendete conto che in questo modo state entrando nel delirio di una donna malata, che ha perso il senno, diventando l’espressione stessa del Maligno? Ma non ricordate tutto quello che ha fatto? E’ persino difficile elencare i suoi delitti, tanto sono numerosi: ha ucciso Glauce, Creonte, prima ancora il proprio fratello Albsirto, ma soprattutto ha ucciso i propri figli, e, non appagata, fuggita ad Atene col suo carro del Sole, ha tramato, per fortuna invano, perché Teseo fosse ucciso dal suo stesso padre. Ricordate quelle parole? “Anche se ne uccido due”, diceva l’indemoniata prima di uccidere il secondo figlio davanti agli occhi del padre, “numero troppo esiguo è per il mio rancore. Se nel mio grembo si cela ancora qualche creatura, frugherò le mie viscere con la spada e la estrarrò col ferro” Altro che continuità della relazione amorosa!

Catullo: – In effetti, più che malata, questa donna accecata dall’odio vive in un suo mondo incomprensibile, che a noi è completamente estraneo.

Cremète: – Sono un uomo e di quanto è umano nulla penso che mi sia estraneo.

 Medea annuì convinta, mentre a quel punto si fece avanti un uomo dalla carnagione ambrata.

Afro Publio Terenzio: – Neanche tu, Cremète, in quanto mio personaggio, potresti parlare; ma in fondo non fai che proporre il mio stesso pensiero. Pertanto…

Catullo (rivolto a Terenzio) protestò: – Queste cose non saranno estranee a te, che sei venuto schiavo da Cartagine, ma a noi persone civili certamente non appartengono. D’altra parte, non viene Medea dalla Colchide? Non è anch’essa una barbara?

 Prima che le cose prendessero una brutta piega Scrivente intervenne per calmare gli animi; quasi tutti, infatti, sembravano indignati per l’infelice uscita di Catullo.

scrivente: – Tutti noi siamo stranieri, Catullo, anche la tua Sirmione è nella Gallia Cisalpina. Anacreonte è nato a Teo in Asia Minore, come in Asia Minore è l’isola di Salamina, patria di Euripide. Di Seneca si è già detto che viene da Cordova e, quanto a Freud, non solo è nato in Moravia, ma appartiene ad una minoranza ebraica che mai si è veramente integrata in quella che lui considera la sua Vienna. Anch’io, infine, vivo in una città che non è quella dove sono nato e cresciuto. In tutti noi c’è un altrove, che non ci rende pacificati e crea in noi una dimensione disordinata e tragica. E’ questo che ci fa degli esseri umani, ed è per questo che voi poeti potete occuparvi di noi.

Euripide: – Infatti, è quel che dice Ecuba nella mia opera: “Altro non era scritto fra gli dèi che le mie pene (…) Eppure, se Dio ci avesse inabissati, travolgendo sottoterra quello ch’era sopra, noi, rimanendo oscuri, non saremmo stati cantati, non avremmo dato appiglio ai canti d’uomini futuri”.

Catullo: – Ma non potete certo dire che tutti noi facciamo quel che ha fatto Medea!

Scrivente: – Non lo facciamo, ma potremmo farlo. L’alterità di cui parliamo è dentro di noi, ma noi non la riconosciamo e ne facciamo uno straniero: è Medea la sciagurata e noi ci sentiamo salvi.  Il mio Maestro – aggiunse indicando Freud – ha dato il nome di Es a questa parte di noi che ignoriamo, ma della quale siamo schiavi.

Freud assentì col capo, mentre Catullo, Seneca e Terenzio si guardarono con aria interrogativa.

Scrivente: – Oh, scusate, non conoscete il tedesco. La traduzione latina della parola Es è Id, per intendere qualcosa di estraneo.

Un uomo alto ed un po’ allampanato, con i capelli bianchi ed una sigaretta tra le labbra, si avvicinò al gruppo.

Donald Woods Winnicott: – Sarà la traduzione latina, ma anche noi nel Regno Unito usiamo la parola Id, come anche Ego e Super-Ego.

Freud scosse il capo, pensando al guaio che aveva combinato approvando, a suo tempo, la traduzione inglese della sua opera curata da Strachey. Proprio da quella traduzione sarebbero poi derivati equivoci ed incomprensioni, e tante critiche che la psicoanalisi certo non meritava. Preferì, però, tenere per sé quelle considerazioni, poiché sapeva che Strachey era stato analista di Winnicott.  

Seneca, rivolto a Scrivente: – In parte, comprendo cosa vuoi dire; ma ci stiamo allontanando dalla questione centrale. Se ci limitassimo all’odio di Medea per Giasone, forse il discorso quadrerebbe, ma qui ci troviamo di fronte ad una donna, che, per vendicarsi con il suo uomo, uccide i suoi stessi figli! Come si può uccidere chi si ama per l’odio verso un altro? Qui non c’entra la trasformazione dell’amore in odio: Medea non odia i suoi figli, eppure li uccide… Assurdo!

Medea: – Ma che dite? Non capite che la vendetta nei confronti di Giasone è soltanto una delle cause del mio gesto, e forse neppure la più importante? Non capite che uccidere i miei figli era necessario per salvarmi dall’odio e, quindi, dall’amore per Giasone? Solo dopo quel delitto si è potuto dissolvere ciò che ancora mi legava all’uomo che avevo sposato, il quale ha così perso per me ogni valore, finendo nel mucchio dell’indifferenza, come diceva il vostro maestro.

E c’è di più: non capite che anche per salvare i miei figli era necessario ucciderli? Avrei forse dovuto lasciarli nelle mani dei Corinzi? Oppure nelle mani del padre, che per loro preparava un futuro forse più agiato, ma alterandone e misconoscendone identità e radici? Altro che odio, li ho uccisi per amore. Li avevo generati io, e solo uccidendoli io, potevo renderli liberi e conservarne integra l’identità.

Era davvero strano come il discorso di Medea, pur rimanendo assolutamente folle, sembrava, per altri versi, estremamente coerente. Ed infatti per qualche secondo tutti tacquero confusi.

Scrivente: – Credo che Medea stia dicendo che con il suo gesto ha anche impedito che i suoi figli diventassero per lei stessa un’alterità. E’ quest’ultima che ha ucciso, salvando dentro di sé l’unità con loro. Però, io mi chiedo: è veramente possibile fare ciò senza odio? Può una madre odiare i propri bambini come alterità?

Winnicott: – La mia ipotesi è che la madre odi il bambino prima che il bambino odi la madre, e prima che il bambino possa sapere che sua madre lo odia.

Scrivente: – E quest’odio è sempre collegato al problema dell’alterità?

Winnicott: – Nei miei scritti ho elencato almeno diciotto ragioni per le quali la madre può odiare il suo bambino e queste hanno tutte delle connessioni con l’alterità, compreso l’amore spietato del piccolo.

Catullo: – Mi sembra di capire che questo tipo d’odio sia specifico della madre. Esso riguarda quindi la tormentata vita amorosa della donna, non quella del maschio.

 

Scrivente era un po’ deluso dalla piega che aveva preso il discorso, che più procedeva più complicava il problema, anziché chiarirlo. Ma la sua perplessità fu subito tranciata da una sentenza senza appello, pronunciata dal Maestro.

 

Freud: – [La vita amorosa] della donna – da una parte a causa dell’atrofizzazione culturale, dall’altra a causa del silenzio e dell’insincerità convenzionale delle donne – è ancora avvolta da un’oscurità impenetrabile.

Scrivente non fece in tempo a riprendersi dalla sorpresa che la folla ondeggiante cominciò a rumoreggiare di là della rete. Erano tantissimi quelli che volevano intervenire per dire la ‘parola decisiva’ sul tema dell’amore e dell’odio. Scrivente riconobbe alla rinfusa Publio Ovidio Nasone, Lev Tolstoj, Dante Alighieri, Gesù di Nazareth, William Shakespeare, Sofocle di Colono, Melanie Klein, ecc. ecc. ecc. ecc. Cominciò a contarli, ma a differenza di ciò che solitamente accade quando si conta a lungo, invece di addormentarsi si svegliò.

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agosto 11, 2013

PURGATORIO – Canto III° (parte 1e 2)

L’inizio della salita – versi 1-45

Dopo che le anime del purgatorio sono state rimproverate da Catone per aver tardato il cammino di espiazione per ascoltare la canzone di Casella, Dante e Virgilio vanno verso la montagna. Virgilio è ancora pieno di rimorso per l’errore che ha commesso (quello di aver ascoltato anche lui la canzone di Casella). Dante ad un tratto vede solo la sua ombra e non quella di Virgilio e teme che il suo maestro lo abbia abbandonato ma non è così, infatti il maestro gli spiega che il suo corpo fu portato da Brindisi a Napoli: ossia nella sua tomba. La luce del sole, come passa per i cieli del paradiso senza trovare ostacoli, così passa attraverso le anime e non permette loro di fare ombra. Come poi esse, che sono immateriali, possano soffrire le pene del purgatorio e dell’inferno, questo non lo sa. Lo sa solo la virtù divina che però non vuole svelarci tutto perché se avessimo potuto saper tutto Maria non avrebbe avuto bisogno di partorire. Molti filosofi dell’antichità come Platone e Aristotele tentarono di conoscere tutto e ora il loro desiderio di conoscenza è diventato la loro pena eterna. E qui Virgilio si interrompe e turbato (perché si sente tirato in causa) non aggiunge altro.

Gli scomunicati – versi 46-102

Dante e Virgilio arrivano finalmente alla montagna del purgatorio. Il problema è che è troppo ripida, così ripida che in confronto ad essa i dirupi più scoscesi d’Europa (che si trovavano in Liguria e nell’Appennino emiliano) sembrano delle scale facili da salire. Impossibilitati a salire Dante e Virgilio provano a trovare una soluzione. Virgilio prova con la sua ragione e volge gli occhi verso il basso mentre Dante guarda verso l’alto e scorge delle anime di penitenti. Dice al maestro che se non riesce a trovare una soluzione da solo forse è meglio chiedere alle anime dove la salita è meno ripida. Virgilio e Dante si dirigono verso le anime che il Dante narratore paragona a un gregge. Questo “gregge” va molto lento e si trova a una grande distanza dai poeti. Dante scopre che queste anime sono gli scomunicati.

Si può notare in questa parte del canto come il ruolo di Virgilio quale guida per il pellegrino Dante venga a mancare. In effetti, ora il poeta latino si trova in un luogo che non ha mai visitato, a causa della sua pena divina (il restare nel Limbo). Sul piano allegorico, la Ragione, rappresentata da Virgilio, man mano che si avvicina a Dio, si smarrisce sempre più, poiché essa non è stata creata per comprendere il suo mistero (che, secondo Dante, è comprensibile solo per via diretta tramite l’estasi mistica, che proverà infatti nell’ultimo canto del Paradiso). L’azione giusta da compiere per avvicinarsi a Dio, quindi, non è il ragionare a testa bassa come fa Virgilio, bensì guardare verso l’alto, verso l’amore divino.

Manfredi – versi 103-145

Tra gli scomunicati c’è un bel giovane con due ferite, una delle quali al petto, descritto come “biondo, bello e di gentile aspetto, ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso”. Questo bel giovane chiede a Dante se lo ha mai visto. Dante risponde di non sapere chi sia e il giovane gli racconta la sua storia. Egli è Manfredi, figlio di Federico II e nipote di Costanza d’Altavilla. Manfredi cita la figlia Costanza, madre di Giacomo e Federico, rispettivamente re di Aragona e di Sicilia. Manfredi racconta “orribil furon li peccati miei” e di essere stato scomunicato da vari papi. Morì in battaglia nel 1266 a Benevento ma in punto di morte si pentì e il Signore lo perdonò mandandolo nel Purgatorio invece che all’Inferno. I papi invece non lo perdonarono, tanto che il vescovo di Cosenza, incaricato da papa Clemente IV[1], fece dissotterrare le sue ossa (Or le bagna la pioggia e move il vento), che furono poi trasportate a ceri spenti e capovolti, come nei funerali degli eretici, lungo il fiume Verde (identificabile secondo Benvenuto e molti altri critici moderni con il Liri o il Garigliano). Manfredi chiede a Dante di raccontare quello che ha detto a sua figlia Costanza e di dirle che lui stesso si trova nel Purgatorio, se altro si crede nel mondo dei vivi, e di chiederle di pregare per lui, perché più si prega per un’anima del Purgatorio più il tempo di espiazione diminuisce. Con Manfredi, i credenti riescono a capire la grande bontà di Dio che abbraccia tutti coloro che si sono pentiti in fin di vita.

luglio 25, 2013

LA DIVINA COMMEDIA inferno,canti da 31 a 34

Il canto trentunesimo dell’Inferno di Dante Alighieri si svolge tra l’ottavo e il nono cerchio, nel Pozzo dei giganti, puniti per essersi opposti a Dio; siamo nel pomeriggio del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.

Si tratta di un canto di raccordo tra due zone diverse dell’Inferno, come lo era stato il canto IX (presso le mura della città di Dite) tra i peccatori di incontinenza e quelli di malizia, e i canti XVI e XVII (con il volo di Gerione) tra violenti e fraudolenti.

Il canto trentaduesimo dell’Inferno di Dante Alighieri si svolge nella prima e nella seconda zona del nono cerchio, nella ghiaccia del Cocito, ove sono puniti rispettivamente i traditori dei parenti (Caina) e quelli della patria e del partito (Antenora); siamo nel pomeriggio del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.

Il canto trentatreesimo dell’Inferno di Dante Alighieri si svolge nella seconda e nella terza zona del nono cerchio, nella ghiaccia del Cocito, ove sono puniti rispettivamente i traditori della patria e del partito e i traditori degli ospiti; siamo nel pomeriggio del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.

Il canto trentaquattresimo dell’Inferno di Dante Alighieri si svolge nella quarta zona del nono cerchio, nella ghiaccia del Cocito, ove sono puniti i traditori dei benefattori; siamo alla sera del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.

Si tratta dell’ultimo canto dell’Inferno: Dante e Virgilio vi vedono Lucifero, principio di ogni male, e scendono al centro della terra lungo il suo corpo, fino a risalire poi sull’altro emisfero dove si trova il Purgatorio, oggetto della cantica successiva.

 

luglio 9, 2013

Gassman Legge Dante – La Divina Commedia – Inferno – Canto XXV

l canto venticinquesimo dell’Inferno di Dante Alighieri si svolge nella settima bolgia dell’ottavo cerchio, ove sono puniti i ladri; siamo nel mattino del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.

« Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi

d’incenerarti sì che più non duri,
poi che ‘n mal fare il seme tuo avanzi? »

luglio 6, 2013

La Divina Commedia. Inferno, canto XXI° (Malacoda e i 10 Diavoli).

Il canto ventunesimo dell’Inferno di Dante Alighieri si svolge nella quinta bolgia dell’ottavo cerchio, ove sono puniti i malversatori; siamo nel mattino del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.« Canto XXI, il quale tratta de le pene ne le quali sono puniti coloro che commisero baratteria, nel quale vizio abbomina li lucchesi; e qui tratta di dieci demoni, ministri a l’offizio di questo luogo; e cogliesi qui il tempo che fue compilata per Dante questa opera. » (Anonimo commentatore dantesco del XIV secolo)