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aprile 1, 2021

COMPAGNI CHE HANNO FATTO LA STORIAGRANDI SEGRETARI SOCIALISTIIGNAZIO SILONE 1941 / 1944

Ignazio Silone, pseudonimo di Secondino Tranquilli (Pescina, 1º maggio 1900 – Ginevra, 22 agosto 1978), è stato uno scrittore, giornalista, politico, saggista e drammaturgo italiano. Annoverato tra gli intellettuali italiani più conosciuti e letti in Europa e nel mondo, il suo romanzo più celebre, Fontamara, emblematico per la denuncia della condizione di povertà, ingiustizia e oppressione sociale delle classi subalterne, è stato tradotto in innumerevoli lingue; tra il 1946 e il 1963 ha ricevuto ben dieci candidature al Premio Nobel per la letteratura[1].Per molti anni esule antifascista all’estero, ha partecipato attivamente e in varie fasi alla vita politica italiana, animando la vita culturale del paese nel dopoguerra: tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia, ne viene in seguito espulso per la sua dissidenza con la linea stalinista[2]; si sposta dunque su posizioni affini al socialismo democratico. La rottura con il partito comunista, negli anni del secondo dopoguerra, lo porterà ad essere spesso osteggiato dalla critica italiana e solo tardivamente riabilitato, mentre all’estero[3] è stato sempre particolarmente apprezzato.IndiceL’infanzia nella MarsicaVeduta di Pescina dopo il sisma del 1915La casa natale«Sono un socialista senza partito e un cristiano senza Chiesa»(Ignazio Silone[4])Figlio di Paolo, piccolo proprietario contadino ed ex-emigrante in Brasile e di Marianna Delli Quadri, tessitrice, Ignazio trascorre l’infanzia nel paese natale abruzzese di Pescina, nella Marsica (è molto probabile che il cognome acquisito Silone affondi le proprie radici nell’antichità del popolo dei Marsi, considerata la memoria di personaggi antichi come Quinto Poppedio Silone, condottiero marso).Alla morte del padre (1911), il primogenito Domenico assume il gravoso compito di sostituire il padre nel duro lavoro dei campi, mentre la madre lavora come tessitrice e il piccolo Secondino inizia gli studi ginnasiali nel locale Seminario diocesano. Interrompe ben presto gli studi a causa delle condizioni disagiate della famiglia.[5]Il 13 gennaio 1915 la Marsica è messa in ginocchio dallo spaventoso terremoto di Avezzano che provoca nel solo paese natìo dello scrittore oltre 3.500 vittime; muoiono sotto le macerie la madre e altri numerosi suoi familiari; Secondino riesce a salvarsi con il fratello Romolo, il più piccolo della famiglia. Il dramma personale del non ancora quindicenne Silone lo segnerà per tutta la vita e trasparirà anche nella sua produzione letteraria, come ricorda Richard W. B. Lewis[6]: «Il ricordo del terremoto erompe dalle sue pagine con lo stesso significato che per Dostoevskij ebbe l’esperienza di scampare all’ultimo minuto dall’esecuzione capitale».Così scrive al fratello, alcuni mesi dopo il sisma, di ritorno dal Seminario di Chieti (dove studiava) al paese natale distrutto:[7]«Ahimè! son tornato a Pescina, ho rivisto con le lagrime agli occhi le macerie; sono ripassato tra le misere capanne, coperte alcune da pochi cenci come i primi giorni, dove vive con un’indistinzione orribile di sesso, età e condizione la gente povera. Ho rivisto anche la nostra casa dove vidi, con gli occhi esausti di piangere, estrarre la nostra madre, cerea, disfatta. Ora il suo cadavere è seppellito eppure anche là mi pare uscisse una voce. Forse l’ombra di nostra madre ora abita quelle macerie inconscia della nostra sorte pare che ci chiami a stringerci nel suo seno. Ho rivisto il luogo dove tu fortunatamente fosti scavato. Ho rivisto tutto…»L’incontro con Don OrioneNei drammatici giorni che seguono il tremendo sisma, i due fratelli Tranquilli vengono affidati alle cure della nonna materna Vincenza che riuscirà ad ottenere per il maggiore l’assistenza del Patronato Regina Elena e il successivo trasferimento in un collegio romano nei pressi del cimitero del Verano, da cui Silone fugge dopo poco tempo e per tale motivo ne viene poco dopo espulso.Don OrioneÈ un prete che molto si era speso per i disastrati del terremoto a concedere asilo a Silone e al suo amico Mauro Amiconi, destinando i due giovani presso un collegio di Sanremo; il sacerdote si chiama Don Luigi Orione che da quel momento avrà sempre un occhio benevolo per i due fratelli.Così Silone ricorderà più avanti l’incontro con quello che definì «uno strano prete»:[8]«Benché Don Orione fosse allora già inoltrato nella quarantina e io un ragazzo di sedici anni, a un certo momento mi avvidi di un fatto straordinario, era scomparsa tra noi ogni differenza di età. Egli cominciò a parlare con me di questioni gravi, non di questioni indiscrete o personali, no, ma di questioni importanti in generale, di cui, a torto, gli adulti non usano discutere con noi ragazzi, oppure vi accennano con tono falso e didattico. Egli mi parlava, invece, con naturalezza e semplicità, come non avevo ancora conosciuto l’eguale, mi poneva delle domande, mi pregava di spiegargli certe cose e induceva anche me a rispondergli con naturalezza e semplicità senza che mi costasse alcuno sforzo»L’anno successivo, da Sanremo, il giovane Silone viene trasferito nel collegio San Prospero di Reggio Calabria, anch’esso gestito da Don Orione, sia a causa della sua cagionevole salute sia per il suo carattere irrequieto e insofferente alla disciplina.Durante i suoi frequenti ritorni a Pescina, Silone inizia a partecipare attivamente alle vicende del paese, la cui popolazione è afflitta dai problemi sociali, accentuatisi nel post-terremoto; in una delle piccole “rivoluzioni” che si consumano nel paese marsicano e a cui lo scrittore prende parte (una sorta di lotta contro i locali Carabinieri venuti a trarre in arresto tre soldati in licenza per questioni di gelosia), Silone rimedia un processo e una condanna a mille lire di ammenda.Frattanto non si interrompe il rapporto con il sacerdote (che nel frattempo si occupa anche del fratello minore Romolo destinandolo al collegio di Tortona) con il quale Silone intrattiene un costante rapporto epistolare.Le prime esperienze politicheDopo aver appreso alcune notizie circa ruberie e malversazioni da parte delle autorità che avevano colpito alcuni paesi della Marsica nel periodo del dopo-terremoto, Silone si fa paladino delle ingiustizie patite da quei “cafoni” (che descriverà con passione nel suo capolavoro letterario) e decide di inviare una circostanziata denuncia all’Avanti!, tramite tre lettere pubblicate sul “foglio” socialista ma che non producono gli effetti sperati.Si iscrive quindi alla Lega dei Contadini e, alla fine del 1917, la sua scelta politica può dirsi compiuta con l’abbandono degli studi e del paese natale per recarsi a Roma, dove si iscrive alla Unione Giovanile Socialista, aderendo alle idee propugnate durante la Conferenza di Zimmerwald (1915).Bordiga, uno dei fondatori del Partito Comunista Italiano, cui Silone fu molto vicinoSi avvicina alla politica in un periodo tra l’altro di grande travaglio per il Partito Socialista Italiano, diviso com’era tra riformisti e rivoluzionari (questi ultimi avevano trovato il loro punto di riferimento nel bolscevismo della Rivoluzione russa del 1917) inserendosi, nell’ambito della contesa tra le due correnti, in una posizione vicina a quella di sinistra, allineato alle posizioni dei suoi due esponenti principali, Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci.

gennaio 29, 2021

…. E se Gina non la pensasse come me?

Di Beppe Sarno

Il 13 gennaio 1921 il comitato esecutivo della terza internazionale inviava un telegramma alla direzione del Partito Socialista che si apprestava a celebrare il XVII° congresso nazionale.

Il telegramma firmato per la componente russa da Lenin, Bukarin, Trotsky, Lesowski, sulla  base delle considerazioni che in Italia più che in ogni altro  paese fossero maturi i tempi per una azione rivoluzionaria, nel condannare la frazione che faceva riferimento a Serrati, chiudeva il telegramma con la dichiarazione non negoziabile che “Il Partito comunista Italiano deve essere creato ad ogni modo” e concludeva “Abbasso il riformismo, viva il vero partito comunista italiano!”  e nel contempo si chiedeva l’espulsione della frazione guidata da Filippo Turati.

Con queste premesse è difficile pensare che il congresso potesse andare diversamente da come effettivamente si svolse. Era la terza internazionale che pretendeva la scissione. Il giorno successivo, 15 gennaio si riunisce il comitato dei comunisti unitari e Serrati tiene una lunga conferenza sulla situazione in Russia e sulle direttive della Terza Internazionale.

Il sedici gennaio si inaugura ufficialmente il XVII° congresso del partito socialista italiano.  Il Partito arriva a questo appuntamento diviso, confuso ed impotente incapace di scegliere tra la soluzione riformista e quella rivoluzionaria. La frazione comunista del Psi che aveva visto nell’occupazione delle fabbriche la premessa storica della rivoluzione proletaria nell’ottobre 1920 aveva elaborato a Bologna  un manifesto programmatico firmato da Bordiga, Gramsci, Terracini e Bombacci. Questo manifesto venne poi confermato ad Imola il novembre successivo e divenne il punto discriminante fra l’ala rivoluzionaria e quella riformista al congresso di Livorno.

Al congresso quattromila sezioni rappresentate salutavo il relatore ufficiale Giovanni Bacci. L’oratore ricorda che ricorre l’anniversario dell’insurrezione armata di Spartacus  e la ricorrenza della morte di  Rosa Luxemburg uccisa insieme a  Liebknecht, dai miliziani dei cosiddetti Freikorps, i gruppi paramilitari agli ordini del governo del socialdemocratico Friedrich Ebert.

E’ il tedesco Levi che accende la miccia della divisione. Ricordando la Luxemburg e Liebknecht afferma testualmente “Vi sono momenti in cui bisogna dividersi, chi è stato fratello oggi potrà non esserlo domani” e conclude il suo intervento dichiarando “il proletariato deve essere guidato da un partito comunista unico!”

Tranquilli nel portare il saluto della Federazione giovanile socialista afferma “oggi qui debbono essere bruciati i fantocci dell’unità!”

Per Graziadei l’esistenza delle condizioni per una lotta rivoluzionaria e l’impossibilità a far convivere in un partito l’anima socialdemocratica e quella comunista non può che portare ad una rottura per aderire alle tesi della terza internazionale.

Per evitare la scissione Serrati propone l’approvazione di venti dei ventuno punti posti dalla Terza Internazionale. L’ultimo punto quello che divenne lo spartiacque fra i comunisti ed il resto del partito fu l’espulsione dei riformisti di Turati e Matteotti. 

La relazione di Lazzari apre il terzo giorno del congresso ed è un invito all’unità. “La frazione che vuole la scissione contrappone socialismo e comunismo!” e  “La separazione che si vuole fare fra socialisti e comunisti è artificiale e artificiosa” Lazzari non dimentica di far osservare quanto possa essere dannosa una scissione che non sarebbe capita dagli operai e dai contadini. “Noi non abbiamo il diritto di distruggere tutto.” Di segno opposto la relazione di Terracini che afferma “il proletariato è pronto per la conquista del potere” e “Il partito socialista così come è congegnato non può compiere questa missione!”

Il 20 gennaio parla Amedeo Bordiga. Per Bordiga il riformismo è funzionale al capitalismo e quindi solo un’azione rivoluzionaria può liberare la classe operaia dall’oppressione capitalistica. In questo senso il partito socialista è incapace di sviluppare energie rivoluzionarie. Bordiga conclude il suo discorso affermando “A chi chiede cosa faremo noi rispondiamo che faremo ciò che fa Mosca …. non falliremo e prendiamo impegno di consacrare tutta la nostra opera alla lotta contro tutti gli avversari della rivoluzione, alla lotta per raggiungere l’ultima meta: la Repubblica dei Soviet in Italia!”

E’ Bordiga il regista della frazione scissionista, non Togliatti, che è rimasto a Torino, non Gramsci che non prende la parola durante il congresso.

Nella seduta pomeridiana è Turati a prendere la parola, con un discorso dal sapore antico e poco convincente parla e condanna la violenza come strategia per prendere il potere, ma in buona sostanza aspetta l’evolversi degli eventi.

Bombacci rivendicando la fedeltà alla Terza Internazionale parla di una scissione necessaria destinata a rimarginarsi dopo la rivoluzione imminente. Bombacci chiudendo il suo intervento dichiara “Usciamo dal partito, ma non dal socialismo, è’ la rivoluzione russa che ci chiama sotto la sua bandiera, perché l’opera dei soviet deve trionfare per tutta l’Internazionale.”

Il 21 gennaio la mozione unitaria vince il congresso non prima di un intervento ultimativo del delegato Kabaktchieff, il quale  comunica che qualora non si dovesse votare per la mozione comunista il partito socialista italiano sarebbe fuori dalla Terza Internazionale.

Infine Bordiga  invita la frazione Comunista, sconfitta dal congresso  a sbattere la porta e ad andarsene. «I delegati che hanno votato la mozione comunista abbandonino la sala. Sono convocati alle undici al teatro San Marco per deliberare la costituzione del Partito Comunista».

Nel comunicato conclusivo del congresso è scritto “Il Partito Socialista Italiano sostiene che la rivoluzione in Italia nelle forme violente e distruggitrici volute dal comunismo con l’immediata formazione di tipo russo  sarebbe destinata a crollare a breve scadenza ove mancasse la concorrente azione economica e politica del proletariato di alcuni paesi più ricchi durante l’immancabile precipitazione economica.”

L’articolo di fondo dell’Avanti del 22 gennaio analizza la scissione e le sue conseguenze. L’articolo presumibilmente firmato da Serrati afferma che la scissione è poca cosa difronte al più grave problema di capire “la posizione del proletariato dei vari paesi di fronte alla rivoluzione.” C’è da parte di Mosca la volontà di far precipitare “artificialmente” la situazione anziché analizzare gli avvenimenti. La scissione, denuncia l’articolo  “avvenuta per atto d’imperio….ed è stata come un fenomeno d’importazione” E conclude “ Così mentre il capitalismo sferra il proprio attacco, la Terza Internazionale, anche la dove non era necessario, provoca la scissura dei socialisti, spezza il movimento, scioglie le file di coloro che le creano, ….Questo è l’errore, errore pratico, politico del quale i compagni della Terza Internazionale si renderanno conto quando sarà loro dimostrato….che non si violenta la storia e non si provocano  artificialmente situazioni che non hanno la loro ragion d’essere nella realtà. “

“Non si violenta la storia! Frase potente e nello stesso tempo struggente.

Intanto arriva da Bologna la notizia che la camera del lavoro di Bologna e di Modena sono state incendiate dalle bande fasciste, nella mattina a Modena e la sera a Bologna sotto l’indifferenza delle forze dell’ordine. A Milano la libreria in cui si vendeva l’Avanti viene saccheggiata e distrutta. L’articolo si conclude con un appello all’unità “La scissione oggi nelle presenti circostanze è eminentemente reazionaria. Giova ai dominatori, spezza le reni al movimento di classe. Compagni restiamo uniti. E’ l’ora del pericolo.”

Mai allarme fu così fondato.

Il giorno successivo la direzione del Partito firma un appello ai lavoratori nel quale denuncia  che la scissione è avvenuta solo per la forte volontà dei rappresentanti della Terza Internazionale e dichiara che la scissione favorirà esclusivamente le forze reazionarie che già sono all’opera.

Lasciando il Teatro Goldoni gli scissionisti cantando l’internazionale si avviano verso il Teatro San Marco  dove viene celebrato il primo congresso del Partito Comunista “ Sezione dell’Internazionale comunista “ Fra tutti spicca la figura di Amedeo Bordiga capo effettivo del partito. Oggi si celebra il centesimo anno da quell’evento con grande e sospetta enfasi. La domanda che sorge spontanea è se quel partito nato al Teatro san Marco di Livorno è veramente il partito che oggi si celebra e soprattutto: fu vera gloria?  Veramente quella scissione era necessaria per il movimento dei lavoratori? Va detto che la scissione di Livorno non nasce per caso essa è solo la certificazione di una lacerazione profonda che si era andata creando all’interno dl partito Socialisti negli anni precedenti. A Livorno si arriva con un’Italia scossa da una profonda crisi economica  con una classe operaia che esce sconfitta dal biennio rosso. Nel 1917 il partito adottò un programma  come base della sua azione per il dopoguerra. Chiedeva il suffragio universale, era favorevole alla repubblica, proponeva un vasto intervento economico con la promozione di una serie di lavori pubblici e con la bonifica delle terre incolte. Il giovane Amedeo Bordiga, aveva appena 28 anni, denunciò questo programma  perché non si poneva il problema delle guerra. In realtà la sinistra di Bordiga, Bombacci, era decisamente rivoluzionaria  e contro la guerra, mentre l’ala destra del partito sotto la guida di Filippo Turati aveva appoggiato apertamente lo sforzo bellico.  Lo scoppio della rivoluzione russa entusiasmò la base del partito che si sentiva pronta per la rivoluzione, ma fra il dire e il fare……e  poi non va dimenticato che nel 1919 le gerarchie vaticane autorizzarono don Sturzo a fondare un partito cattolico, che ebbe grosse adesioni soprattutto nel meridione. Gli attori di quel momento erano i Socialisti,  cattolici, e la destra di D’Annunzio con Mussolini che cominciava a crescere  deciso a prendersi la rivincita sui socialisti che lo avevano cacciato. In questo contesto nel congresso di Bologna i socialisti si pronunciarono decisamente in favore dell’opzione rivoluzionaria. “In Italia è iniziato il il periodo rivoluzionario di profonda trasformazione della società, che conduce ovunque all’abbattimento violento del dominio capitalista borghese.” Le elezioni dovevano servire solo per “agevolare l’abbattimento degli organi della dominazione borghese. “Il Partito aderì alla terza internazionale definita “l’organismo proletario mondiale che tali principi propugna e difende,” Da una parte quindi la ricerca di un collegamento con la base operaia per preparare la rivoluzione e dall’altra il lavoro all’interno delle istituzioni primo fra tutti il parlamento per portare avanti una implacabile opposizione per rendere impossibile il funzionamento dello stato borghese. Al fascino per ciò che era avvenuto in Russia si contrapponeva la consapevolezza da parte della maggioranza del partito dell’impreparazione dei lavoratori a affrontare l’avventura rivoluzionaria. A Bologna Bordiga usci sconfitto, come uscirà sconfitto dal congresso di Livorno. Non a caso la CGL nel 1919 aveva approvato un programma per la ricostruzione postbellica che chiedeva la repubblica, l’abolizione del senato, la rappresentanza proporzionale, l’abolizione della polizia politica, l’introduzione del referendum, e il controllo della politica estera da parte del parlamento. In più si chiedeva l’istituzione di una costituente, la riforma agraria e il controllo dell’industria da parte dello Stato. Un bel pacchetto di riforme, insomma. Questo programma fu respinto dalla destra di Turati e dall’ala rivoluzionaria fautrice dell’abbattimento violento dello stato. Mentre le altre organizzazioni sindacali (USI e Confederazioni italiana del lavoro) erano variamente composte la CGL era composta in maggior parte da quadri socialisti. Intanto il fascismo cresceva e D’Annunzio occupava Fiume e a conclusione del biennio rosso Giolitti affermava “«Ho voluto che gli operai facessero da sé la loro esperienza, perché comprendessero che è un puro sogno voler far funzionare le officine senza l’apporto di capitali, senza tecnici e senza crediti bancari. Faranno la prova, vedranno che è un sogno, e ciò li guarirà da pericolose illusioni.»   Questa era la situazione quando si apre il congresso di Livorno e lo scontro fra le tre anime del partito: i comunisti puri, favorevoli all’espulsione dei riformisti, i comunisti unitari che volevano l’adesione al Komintern e accettavano la linea politica dettata da Mosca,  ma erano contrari all’espulsione dei riformisti e infine i concentrazionisti contrari ad ogni espulsione e che miravano a salvare l’unità del partito. La vittoria andò al gruppo più forte: il gruppo di centro. Sia Lazzari che Serrati si recarono a Mosca per negoziare ma inutilmente perché il Komintern comprendeva il pericolo di un partito autonomista. Il congresso di Livorno fu una sconfitta per tutti i lavoratori, divisi e disorientati ed indeboliti dalle scelte di Bordiga: non a caso alle elezioni del maggio 1921 i comunisti ebbero solo 13 deputati ed il PSI risultò indebolito. Insomma la scissione fu per coloro che la organizzarono un fallimento, ma tale fallimento purtroppo non coinvolse solo i velleitari scissionisti ma l’intero movimento operaio che vide infrangere i propri tentativi di resistere all’onda fascista che cresceva con lo sciopero generale dell’agosto 1922. Dopo l’agosto 1922 la forza dei sindacati e dei socialisti era infranta. Con l’espulsione di Turati, reo di essersi recato al  Quirinale per incontrare il re  per discutere del nuovo governo, ratificata dal congresso di Roma, l’intero movimento socialista divenne l’ombra   di quello che era stato pochi anni prima. Il 28 ottobre 1922 i fascisti marciano su Roma. Gli errori di una classe politica che ha preferito coltivare il sogno rivoluzionario ad una presa d’atto della situazione reale del movimento operaio furono riconosciuti dallo stesso Gramsci che nel 1923 come certifica Paolo Spriano nella sua storia del partito Comunista che scrive “Su questo aspetto è giunta presto un’autocritica da parte comunista . anche profonda perché non ha eluso il nesso tra la scissione e l’indebolimento della resistenza operaia all’offensiva dell’avversario di classe. Gramsci giungerà nel 1923 a collegare la vittoria fascista con il modo della scissione, ad annotare che non essere riusciti nel 1920/21 a portare l’Internazionale comunista la maggioranza del proletariato italiano è stato senza dubbio il più grande trionfo della reazione” e nel 1924 scriverà che da Imola fino a Livorno la frazione comunista si limitò “a battere sulle questioni formali di pura  logica, di pura coerenza e, dopo, non seppe, costituito il nuovo partito continuare nella sua specifica missione, che era quella di conquistare la maggioranza del proletariato.”  Se questo è vero forse è anche vero  riguardo al PSI quello che scrive Gramsci nel marzo 1921 quando afferma “ ora i socialisti, posti di fronte alla storia hanno confermato la loro incapacità ad organizzare la classe operaia in classe dominante.” E soggiunge “dopo il congresso di Livorno il partito socialista si ridusse ad essere un partito di piccoli borghesi, di funzionari attaccati alla carica come l’ostrica allo scoglio capaci di qualsiasi vergogna e di qualsiasi infamia pur di non perdere la posizione occupata.” A chi dice aveva ragione Turati rispondo che non è vero, come non è vero che aveva ragione Bordiga e forse aveva ragione Gramsci quando afferma che “il movimento politico della sinistra sia esso socialista che comunista non è riuscito ad organizzare i lavoratori  consentendo l’ascesa del fascismo.” Da una parte un partito sclerotico e arroccato su posizioni formali e dall’altra un partito settario gestito da Mosca. Quest’ultima considerazione ci porta a rispondere all’ultima domanda: quel partito nato al teatro S. Marco   è lo stesso partito di cui quest’anno si celebra il centenario? Molti compagni socialisti hanno risposto di no ed io mi sento di condividere questa interpretazione.  Il Partito nato a Livorno era il partito di Bordiga che “«definisce la classe, lotta per la classe, governa per la classe e prepara la fine dei governi e delle classi», ma aera anche il partito di Gramsci, entrato in carcere quando era il segretario del Pcd’I, e poi abbandonato a sé stesso. il partito comunista che abbiamo conosciuto è il partito di Togliatti che a Livorno non andò. E’ lo stesso Togliatti che ce ne dà testimonianza in una sua intervista pubblicata  su “Trent’anni di storia italiana – (Einaudi 1975 pp. 365 e segg.)”. In questa testimonianza il PCI viene presentato non più come il partito che come diceva Bordiga  di voler lottare per “ raggiungere l’ultima meta: la Repubblica dei Soviet in Italia!” Molto più realisticamente Togliatti  dice “nel nostro paese sono presenti oggi alcuni elementi di fondo, di natura democratica avanzata, i quali ci consentono di andare avanti e sperare meglio per l’avvenire: il regime repubblicano, ,una Costituzione dal contenuto politico e sociale avanzato, la presenza di grandi organizzazioni popolari e di massa.” Egli poi definisce il PCI come un partito di democrazia e progresso.” Questo partito di democrazia e progresso non può assolutamente essere considerato l’erede di un gruppo di scismatici irrilevanti. In riferimento alla monarchia Togliatti afferma che all’indomani della svolta di Salerno si domandò che fare, la risposta fu “La nostra risposta fu accantoniamo il problema, dichiariamo solennemente tutti uniti  che lo risolveremo quando tutta l’Italia sarà stata liberata e il popolo potrà essere consultato. Allora vi sarà un plebiscito, vi sarà un’assemblea costituente il popolo si libererà dell’Istituto monarchico e verrà proclamato quel regime repubblicano che era nelle nostre aspirazioni.” Il partito che  Togliatti disegna  rinuncia a a costruire la repubblica dei soviet e decide di combattere con le altre forze democratiche per  ricostruire l’Italia su basi democratiche. Ancor più chiaramente Togliatti afferma” Quali erano  i nostri obiettivi?  La guerra(contro i tedeschi n.d.r.), l’unità della nazione, un governo di unità.” E ancora “Eravamo repubblicani, volevamo liberare l’Italia dalla monarchia….che doveva avvenire, secondo noi per via democratica, attraverso una consultazione democratica del popolo ed un voto popolare.” Riferendosi alla svolta di Salerno Togliatti afferma  e queste sue affermazioni ci fanno comprendere ancora di più quanto fosse diverso il partito nuovo che Togliatti metteva in gioco che con il partito di Bordiga aveva in comune solo il nome “Nessuno conosceva più i partiti politici . Se ne era perduta, anche nelle masse popolari, la tradizione. Soprattutto poi quando si parlava di comunisti e socialisti era come parlare del demonio. Il veleno inoculato dal fascismo agiva ancora.” Venti anni di regime, le lotte partigiane, la repressione, l’esilio avevano abbattuto il muro che aveva diviso i socialisti e i comunisti e Togliatti parla dei due partiti come di una parte del movimento della sinistra   poteva essere coesa. Dice Togliatti “Dovevamo abbattere questa barriera, affinchè venisse compreso da tutto il popolo che cosa erano e sono queste forze popolari avanzate, che così eravamo e siamo noi comunisti, i socialisti il partito d’azione.” Questo atto di onestà intellettuale deve essere rimarcato ed apprezzato perché Togliatti, malgrado quello che poi è accaduto,  comprende che in una nazione lacerata dal fascismo, dalla guerra, dalla crisi economica, solo la solidarietà fra le forze politiche avanzate può portare l’Italia fuori dal Tunnel in cui Mussolini l’aveva portata. Continua Togliatti “ tra i sei partiti del CLN i socialisti e noi fummo in tutto questo periodo pienamente d’accordo, ed è questo un punto che intendo sottolineare, perché di grande importanza e perché oggi alle volte fa comodo dimenticarlo.” Per chiarire ogni dubbio circa il fatto che il PCI che si celebra in questi giorni non è nato cento anni fa ci viene in aiuto lo stesso Togliatti che afferma, rispondendo ad un funzionario americano presente in Italia all’epoca della svolta di Salerno “Molto modestamente invece gli feci osservare che noi lottavamo non per la Repubblica dei Soviet, ma perché l’Italia partecipasse alla guerra, cacciasse dal proprio territorio i tedeschi, distruggesse pienamente il fascismo e si costruisse niente altro che un regime democratico e repubblicano.” Il grande partito di massa che abbiamo conosciuto non ha nulla a che vedere con il gruppuscolo settario che provocò la scissione di Livorno. Grazie agli errori dei socialisti, che nel 1946 era ancora un partito di massa e alla capacità strategica di Togliatti quella saldatura fra i partiti popolari si incrinò con l’evolversi della situazione politica italiana per non mai più ricostituirsi. Oggi che i due più grandi partiti della sinistra non esistono più bisognerebbe domandarsi chi è perché, fingendo di ignorare la storia, ha dedicato tanto clamore mediatico a questo evento e perché costoro ignorano quel partito socialista che malgrado i suoi limiti ed i suoi errori subì la scissione di Livorno e malgrado ciò rimase per anni l’unico partito   a difesa dei diritti dei lavoratori e che nel ’46 era ancora il secondo partito italiano. Bisognerebbe anche domandarsi perché Amedeo Bordiga padre fondatore del PCI e leader indiscusso del partito per i primi anni della sua vita venne cancellato dalla storia del PCI ed oggi viene del tutto ignorato. Ricordo a me stesso che Gramsci aveva stima e simpatia per il comunista napoletano. Queste risposte andrebbero date perché ancora oggi ci sono tantissimi italiani che hanno creduto nel comunismo e che meritano rispetto per una vita di coerenza agli ideali che hanno perseguito. L’attualità senza il PCI e senza il PSI ci fa intravedere un’Italia travolta dalla crisi economica in cui una destra arrogante rappresentata dalla Lega di Salvini, dai postfascisti della Meloni e dal partito di Berlusconi riesce facilmente ad arginare le pretese di un partito che nato dalle ceneri della DC e del PCI costituitosi ad imitazione del Partito democratico americano. L’Italia non ha bisogno di festeggiare un centenario che non esiste se non nella mente di chi ha escogitato questo diabolico tranello. l’Italia che  non rinuncerà mai ad una democrazia faticosamente costruita deve essere vigile affinchè i demoni che la destra sta provando a risvegliare in Italia come nel resto del mondo non creino danni irreparabili all’impianto democratico nato dalla Costituzione. Al di là delle celebrazioni è la Costituzione “più bella del mondo” che va difesa provando a ricostruire una sinistra unita e coesa che non sia la pallida imitazione di sistemi politici che non ci appartengono.     .