
Era un socialista, vicino a Bettino Craxi, ma aveva dedicato grande impegno allo studio del capitalismo, nel quale vedeva molti aspetti positivi. Era un riformista convinto e battagliero, ma sin da giovane aveva rivolto un’attenzione assidua, molto critica, alle ideologie rivoluzionarie e ai loro fautori. Luciano Pellicani, scomparso all’età di 81 anni, era mosso soprattutto da una enorme curiosità per l’esperienza umana nel suo complesso.
Docente alla Luiss Guido Carli di Roma, sociologo come qualifica accademica, si destreggiava tuttavia in molti campi del sapere, dalla filosofia all’antropologia. Era un conversatore vivace e instancabile, gran conoscitore di vicende storiche poco note. E in lui ardeva la fiamma di una intensa passione politica, che lo aveva portato ad essere uno dei sostenitori più attivi, sul piano intellettuale, della linea di Craxi alla guida del Psi.
A Pellicani si doveva in gran parte la stesura del Vangelo socialista, un intervento firmato da Craxi e pubblicato nell’estate del 1978 sull’«Espresso» (riedito nel 2018 da Aragno), che venne poi ricordato impropriamente come «il saggio su Proudhon». In realtà si trattava di un’analisi spietata del pensiero di Lenin e della sua profonda vocazione totalitaria: il francese Pierre-Joseph Proudhon, a suo tempo rivale di Karl Marx, veniva citato come esempio di un socialismo libertario estraneo alla visione dogmatica del comunismo. Il senso politico dell’articolo consisteva nell’indicare ai progressisti la via maestra del riformismo, incalzando un Pci che, con Enrico Berlinguer, ancora rendeva omaggio a Lenin e vagheggiava la fuoriuscita dal capitalismo.
Fu insomma un segnale del duello a sinistra al quale si apprestava un Psi ben deciso a dismettere qualsiasi complesso d’inferiorità nei riguardi dei comunisti. E che Pellicani fosse in prima linea nella sfida non stupisce affatto. Nato a Ruvo di Puglia il 10 aprile 1939, proveniva da una famiglia antifascista. Suo padre Michele era stato un esponente del Pci, ma poi lo aveva abbandonato nel 1956, dopo il soffocamento della rivoluzione ungherese, per approdare su posizioni socialdemocratiche. E anche Luciano, in gioventù comunista, aveva seguito un tragitto analogo sulla scorta dei suoi studi.
Una pietra miliare di quel percorso era stato il volumeI rivoluzionari di professione(Vallecchi, 1975), nel quale Pellicani aveva messo a fuoco la natura intollerante delle teorie imperniate sulla pretesa di conoscere il senso della storia e il destino della società, dalla quale discendeva il progetto di radere al suolo il sistema vigente e costruirne nuovo, rimodellando gli esseri umani fino a mutarne la natura strutturalmente imperfetta. Parlava a tal proposito di «moderna gnosi» e ne sottolineava gli effetti catastrofici, verificati del resto ampiamente nell’esperienza sovietica.
Tutto ciò aveva portato Pellicani in una condizione di quasi isolamento nella sinistra, egemonizzata all’epoca dai comunisti, ma in sintonia con altri studiosi critici verso il marxismo, come Domenico Settembrini, e soprattutto con Craxi, in nome della riscoperta di autori come Eduard Bernstein, Filippo Turati, Carlo Rosselli. Non si trattava di abbattere il capitalismo e lo Stato borghese, motori del progresso economico e di quello civile, ma di sfruttarne le potenzialità piegandole alle ragioni della giustizia sociale.
Su questa linea Pellicani si era mosso con coerenza, dirigendo a due riprese la rivista ideologica socialista, «MondOperaio», ma senza mai rinunciare alla sua autonomia di giudizio. Non aveva condiviso nel 1987 la scelta antinucleare del Psi e lo aveva scritto a chiare lettere. Più tardi aveva messo in guardia il partito dalle commistioni tra politica e affari che poi avrebbero portato al suo affossamento nella stagione tumultuosa di Mani pulite.
Sul piano più strettamente teorico, Pellicani si era distinto per le sue tesi circa le origini del capitalismo. Riteneva inadeguata la spiegazione economicista formulata da Marx, basata sul concetto di «accumulazione primaria», ma scartava anche quella di taglio culturale e religioso elaborata da Max Weber, incentrata sulla spinta dell’etica protestante.
Nel saggio La genesi del capitalismo(Sugarco, 1988) aveva sostenuto che occorre guardare piuttosto a fattori di natura istituzionale: la mancanza di un potere centralistico e dispotico nell’Europa medievale e moderna, con il fiorire dei liberi comuni, delle città marinare, delle stesse strutture feudali, aveva posto le condizioni, insussistenti nei grandi imperi asiatici, per lo sviluppo della libera iniziativa economica e del mercato, con il consolidarsi dei diritti di proprietà e della contrattazione privata.
Non bisogna pensare tuttavia che la visione di Pellicani fosse eurocentrica: al contrario, era sinceramente interessato alla civiltà indiana, così come a quella musulmana. E riconosceva che la modernizzazione era comunque un trauma, suscettibile di provocare reazioni violente come quella del fondamentalismo islamico. Credeva nel progresso, attaccava aspramente i nostalgici di un passato idilliaco mai esistito, ma era conscio del vuoto creato dal disincanto del mondo nell’anima degli uomini.
Anticomunista fermissimo, si era sempre tenuto alla larga dal centrodestra e aveva sostenuto l’Ulivo, pur deprecando diversi aspetti, per esempio il giustizialismo, della cultura prevalente a sinistra. Rigorosamente laico, Pellicani respingeva le pretese della Chiesa cattolica di dettare i suoi valori alla società civile. Ammiratore della cultura classica pagana, della quale l’illuminismo gli appariva erede, aveva però ben chiari i lati problematici della secolarizzazione.
Sapeva che la libertà umana poggia su fondamenta fragili e che le sirene autoritarie restano sempre in agguato. Anche per questo Pellicani non aveva mai smesso di scrivere, polemizzare, affinare la sua critica agli antagonisti della democrazia occidentale. Forse con qualche eccesso, come l’equiparazione di Lenin a Hitler su cui aveva scritto un volume per Rubbettino. Ma con una fame di conoscenza e una limpidezza d’intenti che gli vanno doverosamente riconosciute.
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