A cominciare dal titolo Freedom, l’aspetto più interessante ed entusiasmante del nuovo romanzo di Jonathan Franzen è la smisurata, incontenibile ambizione (il libro uscirà da Einaudi alla fine del prossimo febbraio e s’intitolerà Libertà, traduzione di Silvia Pareschi). Come annunciò in un saggio ormai celebre, scritto per spiegare le motivazioni delle Correzioni, lo scrittore ha intenzione di ridefinire radicalmente la narrativa americana. E ha il coraggio di proporre con impeto rivoluzionario il ritorno ad un’impostazione classica. Lo sguardo ironico e cupo, l’ambientazione del midwest, e la scelta di raccontare una famiglia caratterizzata da personaggi fragili e depressi ripercorrono gli stessi itinerari del libro che gli ha dato la fama, ma abbondano riferimenti inediti e sorprendenti: le saghe squisitamente americane di Updike, il senso di virile spaesamento degli eroi di DeLillo, il legame inesorabile tra vicende insignificanti ed un senso dell’esistente che rimane sempre grandioso come in Pynchon. E addirittura Guerra e Pace, citato esplicitamente, dal quale Franzen rimodella a modo suo un triangolo amoroso simile a quello tra Natasha, Pierre e il principe Andrej. Il tutto dominato da un senso doloroso dell’assurdo, che ricorda l’approccio esistenziale di David Foster Wallace, di cui Franzen è stato intimo amico e rivale.
Sono tutti elementi che hanno fatto di Freedom il caso letterario del decennio: Time ha dedicato la copertina( privilegio riservato in passato solo a Joyce, Nabokov, Updike, Salinger e Toni Morrison) con il titolo “Great American Novelist”; il New York Magazine ha parlato dell'”opera di un genio”, e il New York Times Book Review lo ha definito “un capolavoro”. Persino la temutissima Michiko Kakutani lo ha definito “indimenticabile”, e Obama lo ha indicato come propria lettura estiva. L’unica eccezione autorevole è rappresentata da Harold Bloom, che ha parlato di un autore sopravvalutato dalla critica. “(Repubblica.it)