Fa un freddo pungente stasera e c’è più movimento del solito per le strade del paese. Folate di gente che seria sale, scende, s’affretta e quasi non s’accorge delle luci proprie del clima natalizio. Senza nessuna emozione o richiamo, mi fermo a guardare invitanti, provocanti luccichii; vetrine generose, stracolme, scintillanti. Perplessa, mi domando che senso ha oggi il Natale. Dall’angolo della strada mi arriva un profumo di caldarroste e d’improvviso, uno struggente ricordo mi assale… di colpo spariscono luci e vetrine e mi ritrovo a camminare per vicoli stretti e quasi al buio di un paese freddo del Sud. Avverto profumi, voci, rumori familiari; rivedo la via lastricata di pietre chiare, odo l’infrangersi dell’acqua della fontana, lo scrosciare del rivolo che in quel punto diventa cascata. Sento l’odore di bruciato delle nostre castagne cotte direttamente nella brace e sento, soprattutto, l’odore forte di umido dei ceppi ammucchiati. Tutto mi ricorda le notti di quei Natali lontani, illuminati da tanti falò. Già agli inizi di Dicembre, noi ragazzi andavamo su per i castagneti, con funi e carretti, a cercare legna e ne trascinavamo a valle di ogni genere: piccoli ed enormi ceppi che ammucchiavamo nel posto più largo del proprio rione. Era un onore gareggiarvi. Chi avrebbe fatto la catasta più grande? A chi sarebbe durata di più? San Giovanni, lo ponte re li ammuni (il mio casale), Santa Lucia, Fondana e la Piazza, eterne altezzose rivali. Poi, la mattina del ventiquattro, la ragazzaglia si riuniva per costruire il grande falò: la uegna, come si chiama da noi. Era una festa. Risate, parolacce, prese in giro; consigli dei più “sapienti” e curiosi, e scetticismo di qualche passante: – ‘no tene!- Caparbietà, orgoglio, rabbia e imprecazioni se un ceppone crollava. E man mano che il falò saliva, aumentavano la gioia, la scommessa, la sfida. Anche sotto la pioggia, al freddo, o sotto la neve. Finalmente, alle prime ombre della sera, veniva acceso e si restava in ansia ad aspettare che quegli avanzi nodosi di alberi si asciugassero e prendessero fuoco; che le fiamme prendessero forza per illuminare e riscaldare il nostro Natale. Il chiarore del fuoco era il richiamo. La gente veniva, si accalcava, faceva cerchio, soprattutto i bambini che sapevano di Gesù nato nel freddo. Essi immaginavano che le lingue di fuoco servissero per arrivare fino a Lui, per riscardarLo; sgranavano gli occhi e levavano le gote arrossate verso il cielo, quasi a volere seguire il cammino di quelle vampe giganti. C’erano tanti giovani, allegri e ciarlieri. Quel pezzo di paese diventava un salotto dove incontrarsi, scherzare, cantare; ed ancora brindare, scambiarsi gli auguri. Era il luogo dove gli innamorati potevano finalmente sfiorarsi, darsi la mano e qualche proibita tenerezza che si confondeva con le ombre proiettate dal fuoco e dalla notte. La uegna, per le ragazze, era la scusa per uscire. Chi poteva, allora, uscire la notte e da sola? -uao a berè la uegna- ed era concesso, naturale. C’era chi veniva a prendere la brace per gli scaldini da portare ai vecchi rimasti a casa. Le porte delle case non erano serrate. C’era il via vai per portare qualcosa: il vino, il dolce, da dividere con gli altri vicino al fuoco. Era “l’andare” e il “tornare” per gli auguri e gli abbracci. Natale era sentirsi vicini, ritrovarsi, comunicare, dividere la gioia di un giorno di festa, accomunare sogni e speranze che erano ardenti come quelle braci. La vita, poi, ci ha costretto a percorrere le strade del mondo. Le voci, i suoni, i profumi, i ricordi si fanno sempre più tenui e tutto diventa “passato lontano”. Ma, d’improvviso, il freddo di una sera d’inverno si fa più pungente, il cuore sente un richiamo e senza chiedere permesso, prende la via del Sud.
Bruno Ciociola